Violento, duro e fisicamente provante – I mastini di Dallas, lettura consigliata- quanto crudele ed emotivamente lacerante: questo è il football signori – tendo sempre ad evitare l’espressione per quanto collegabile al Tony D’Amato, ma qui cadeva a pennello- che vi piaccia o no. Sport per chi non ha certezze ma mente aperta e cuore pieno – altra citazione- nonché una predisposizione genetica all’autoflagellazione piuttosto che alla celebrazione autoreferenziale. Bipolare, per certi versi, calco di ciò che sostanzialmente è la vita di tutti i giorni: un abile districarsi tra momenti di gioia e altri meno felici, emozioni contrastanti a creare quel circolo virtuoso o vizioso che è il vivere, nudo e crudo.

Il football è chi ti lascia sull’altare piuttosto di chi torna quando sembrava perso: volendo riassumere brevemente quello che è stato il divisional, queste sono le migliori parole che vengono in testa.

Il risultato è mente, spudoratamente, lasciando intendere una partita combattuta e giocata a fronte aperto, con due squadre fortemente propense al gioco d’attacco in cui solamente la grandezza dei singoli ha permesso la vittoria. Man mano che il totale complessivo di punti cresce, la percezione ed il valore del differenziale sullo scoreboard diminuisce a tal punto che un cinquantuno a trentuno fa molto meno rumore di un venti a zero.

All’Arrowhead Stadium di Kansas City è scesa in campo una sola squadra, come da pronostico vincente, che ha voluto regalare tre ore di spettacolo pirotecnico – fuochi artificiali celebrativi terminati dopo il settimo touchdown, notizia che tutte le testate non hanno dimenticato di riportare- ai propri tifosi, alla football nation in generale.

L’occhio buttato al game summary è impietoso per Houston e racconta, numericamente, il dominio dei Chiefs in ogni frangente di gioco d’attacco, passing piuttosto che rushing, rapporto di yards guadagnate su tempo, yards per play, touchdowns infine. Prevedibilmente.

In difesa, poi, la capacità mostrata da Kansas City di concedere appena sette punti sette in tre quarti la dice lunga su quanto accaduto domenica.

Tutto ciò a sottoscrivere, confermando, incidendo – se si vuole- quanto detto inizialmente: in campo una sola squadra.

Un team, i Chiefs, capace di scavarsi la fossa per poi ricoprirla velocemente – incredibilmente celermente- e costruirvi sopra un monumento sportivo di quelli celebrativi del grande spettacolo che è questo sport.

La Gara In Numeri

Houston è stata capace di guadagnare 23 downs a fronte di un tempo di possesso superiore ai trentaquattro minuti: con quasi dieci minuti in meno, Kansas City ne ha portati a casa 29. Nell’analisi di preview scrissi dell’importanza del rushing game per i Texans: missione fallita, 21 tentativi per un guadagno totale di 98 yards e 1 score. Anche in questo frangente i Chiefs hanno fatto meglio eguagliando il numero di tentativi le yards portate a casa sono 118 cui si aggiunge un touchdown.

Il gioco aereo dei texani è stato buono, abbondante ma non efficiente: 388 yards contro 321 – numero di tentativi di KC inferiore di quasi 20 unità, 35 contro 52- per un totale di appena due segnature che nulla hanno potuto contro le cinque, 5, dei ragazzi di Andy Reid.

Il totale delle iarde guadagnate vede primeggiare Houston 442 a 434: occhio, però, ricordatevi il tempo di possesso.

La difesa di Romeo Crennel non ha tenuto, anzi, la secondaria è stata irrisa,  completamente collassata: il dato più sconfortante è l’average yards per play – guadagno medio per giocata- che si attesta a 7.6 contro, per dire, i 5.7 dei ragazzi di O’Brien. Sempre dal lato passivo del gioco – azzardando la nomenclatura– c’è da segnalare l’inconsistenza del front seven: appena 1 sack portato segno. Una miseria.

Da ultimo la fallosità del gioco di Houston, costante stagionale, ha inciso anche questa volta: sette penalità costate 87 yards contro le quattro di Kansas City per appena 37. 

Turning Point

La svolta avviene sul finire del primo quarto. Houston – immeritatamente, e usare questo termine mi costa veramente, un calcio alla fede ma amore per la verità – è in vantaggio per 21 a zero, quarto corto: il drive parte dalle 49 di Houston, nove giocate per un guadagno di 48 yards che porta i texani dalle parti della endzone. Una squadra votata alla vittoria, conscia della propria superiorità e permeata da una mentalità vincente, in linea di massima, ci prova scegliendo quel go for it – così figo in inglese- mestamente traducibile con quel andarci per in italiano e tentare il colpaccio. Anche e soprattutto con le varie opzioni possibili: screen pass per un rapido DeAndre Hopkins, incursione con Carlos Hyde, RPO consacrata alla fantasia di Deshaun Watson: le possibilità di accaparrarsi un nuovo set di downs era lì, pronta ad essere raccolta.

Ma il processo evolutivo dalla mediocrità è un sentiero lungo ed impervio che talvolta, diabolicamente, offre opportunità di ristoro adagio che non dovrebbero essere colte. Tentazioni.

Per alcuni istanti ha regnato l’incertezza: l’orologio correva velocemente e si rischiava un game delay che avrebbe fatto indietreggiare. Timeout, il demone sportivo lancia la monetina e fa cambiare il corso delle cose: a Bill tremano le gambe, torna alla tattica prudente e conservativa – poi cercherà invano la riscossa, fake punt fallito- e sceglie di calciare un field goal. Tre punti a referto, la partita dei Texans finisce qui.

Ciò che accade dopo è storia – ormai trita e ritrita, sentita in tutta le salse ovunque, dovunque- il secondo quarto dei Chiefs è una marcia trionfale che li porta a segnare quattro touchdowns consentendo alla squadra di Reid di rientrare negli spogliatoi in vantaggio.

Chiefs, il futuro. Chiefs, il personaggio.

Dati spacciati per un quarto, hanno risposto con un abbiamo scherzato che ha lasciato tutti attoniti. Valutare lo stato di salute della franchigia di Kansas City dopo questo divisional è comunque impresa ardua: l’ho scritto, riscritto e lo ripeto, sono stati l’unica squadra in campo.

Il futuro prossimo, domenica 19, è un championship gustoso e quanto mai imprevisto, nonché imprevedibile contro i Titans di Mike Vrabel, squadra solida che sta vivendo un momentum lunghissimo – almeno bimestrale- che pare aver visto l’apice contro Baltimore.

Ma attenzione, Tennessee non sarà vittima sacrificale. Se l’attacco trova un carattere dominante nella figura di Derrick Henry, sarebbe comunque riduttivo e stolto non coglierne anche i diversi altri aspetti tra i quali, sicuramente, l’efficacia dell’air attack: Ryan Tannehill – considerando insieme i due match precedenti- ha completato 15 passaggi su 29 per un totale di 160 yards guadagnate e 3 touchdowns.

La capacità di generare turnovers – differenziale +4 in postseason grazie ai tre contro i Ravens- nonchè l’efficienza dello special team e la migliorata predisposizione a convertire terzi downs – 13 su 25 nelle precedenti sfide- fanno dei Titans avversari ostici.

I 5 sacks portati a segno da Kansas City contro Houston dicono molto della ritrovata solidità del front seven – a partire dalla tredicesima di regular ha concesso agli avversari solamente due volte, Texans esclusi, di arrivare in doppia cifra- tanto quanto della capacità di copertura dimostrata dalla secondaria che ha annichilito il passing game dei texani per tre quarti di gioco.

Coach Andy Reid è uno stratega inarrivabile e forse il miglior allenatore se si considerano le squadre votate all’attacco: il rischio di sbornia euforica pare non essere un problema per KC.

Travis Kelce è stato distruttivo, oltre 130 yards, 3 touchdowns nella prima mezz’ora di gioco. Il binomio con Mahomes è qualcosa che difficilmente trova paragoni se non nel duo BradyGronkowski. La prestazione di domenica ha tutto il dolce peso di una pietra miliare nella carriera del tightend: ha battuto ogni tipo di copertura, difesa, tanto a zona – finché c’è stato Johnatan Joseph– quanto a uomo contro il rookie Lonnie Johnson Jr. Nemmeno l’arma del raddoppio ha sortito effetto, anzi, ha costretto più volte alla penalità. Stupidamente: una pass interference in doppia copertura è da stupidi.

Luci ad illuminare il palco, one man showPatrick Mahomes è il quarterback del futuro. Quel futuro così presente da addolcire il passato più prossimo: l’NFL è in buone mani.

Più di qualsiasi lancio, più di qualsiasi lettura difensiva, quello che impressiona del giovane talento è la maturità di leadership. Gli infiniti drops del primo quarto avrebbero scoraggiato chiunque tranne lui che, invece, ha continuato a camminare su e giù per la sideline incoraggiando la squadra, spronando l’attacco, indicando la via. Pienamente intrapresa dal secondo quarto, come detto, il resto è storia.

La sfida con Watson è stata vinta a mani basse ma un quarterback non vince da solo e  Patrick ha tutto ciò che manca a Deshaun: una linea offensiva forte, molteplici  – e di egual valore, soprattutto- opzioni nel reparto ricevitori, un tightend dominante non solo in endzone, un playcalling offensivamente sfrontato. Ed un Mvp Award, ma quella è una conseguenza.

Texans, il futuro. Texans, il personaggio.

Ho recentemente letto un articolo duro – durissimo- di Paul Muth collaboratore di ESPN HoustonSportsmap.com che definisce i Texans in questo modo: innovators in new form of heartattack, sostanzialmente innovatori nell’arte di distruggere i cuori. Il giornalista ci dice, sarcasticamente, che se generalmente gli Astros – MLB- possono essere o tanto fantastici o tanto pessimi e i Rockets – NBA- storicamente divertenti, la franchigia di McNair ha il dono di illudere continuamente i propri tifosi portandoli a sperare in qualche cosa che poi, generalmente, non accade.

Niente di più vero, da ultimo, sottoscrivendo un’ulteriore passaggio: rooting for the Texans is exhausting, tifarli esaurisce.

L’arte dell’illusione e del tradimento si è materializzata in due atti: la vittoria contro i Bills ed il primo fortunoso quarto contro i Chiefs hanno portato i tifosi a sfiorare il cielo, salvo poi farli ripiombare per terra. Rovinosamente, dolorosamente.

La conclusione, comunque, è che sarebbe troppo facile addossare tutta la colpa a Bill O’Brien. A BoB, personalmente, sono molto affezionato e la mia storia footballistica è legata quanto mai alla sua, o meglio, al suo arrivo a Houston.

Bill sta affrontando un percorso molto difficile: più che sportivamente, i Texans hanno la necessità di svoltare psicologicamente e mentalmente verso l’eccellenza fuggendo dalla mediocrità.

Le colpe – odiando il termine- ricadono maggiormente sulla proprietà: romantica e verace, la guida McNair – prima padre, ora figlio- non si distingue per capacità gestionali eccelse. I troppi stravolgimenti nel front office lo dimostrano.

Il futuro prossimo si preannuncia in chiaro scuro: la mancanza di una prima scelta al prossimo draft, le spendibili altre sei di cui fondamentali saranno quelle al secondo terzo giro, lo stato di salute di JJ Watt e tutto ciò che ne discende, valutazioni difficili ma necessarie che potranno risultare impopolari, peso del salary capblindatura di Watson.

Umanamente risulta difficile ma i conti si fanno con la testa più che con il cuore: a trentuno anni con tre gravi infortuni alle spalle, uno stipendio per il 2020 che inciderà per oltre 15 milioni di dollari, la fidanzata accasata – calcisticamente- a Chicago, il richiamo del Wisconsin, forse, è tempo di separare le strade.

Non è piacevole, per nulla. La città di Houston è legata a doppio filo al suo eroe, uomo immagine di una franchigia che – ad onor del vero- dal suo campione ha ricevuto molto più di ciò che ha dato.  Ma i libri vanno avanti per capitoli e il precedente non sarà mai uguale a quello attuale, tanto meno a quello che seguirà. I Texans hanno bisogno di costruire il futuro e la pietra di Pietro ha il numero quattro sulla maglia.

 

 

 

 

 

 

 

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