Passano gli anni, e la grandezza dei New England Patriots rimane immutata. Il fatto dovrebbe oramai universalmente riconosciuto, ma la verità è che la lezione non è ancora stata adeguatamente recepita, ostinandosi a sottovalutare una franchigia che ha costruito una dinastia secondo una metodicità ben precisa, trovando di continuo le indicazioni per l’unico traguardo che conti davvero nel football, la vittoria finale.

In quest’epoca di inimitabile successo Bill Belichick è un irraggiungibile maestro, tanto nella tecnica quanto nella motivazione, superando i giudizi di chi ha supposto una fine troppo frettolosa di questo ciclo, organizzando le sue filosofie tattiche ritorcendo contro l’avversario i suoi stessi punti di forza, agendo sulla mente dei suoi giocatori tenendoli continuamente assetati di vittorie, perché alla fine l’unico modo di essere immortali è il risiedere costantemente nell’eccellenza.

Il football è una disciplina fatta di arti oscure, una partita a scacchi giocata da individui forzuti ed atletici, uno sport dove la differenza viene fatta da chi si prepara meglio di tutti quanti gli altri, sia a livello mentale che fisico. Bill Belichick, di quelle arti oscure che prevedono infinite ore di visione di filmati ed applicazione diretta in campo, è l’inopinabile maestro.

L’ossessione per il dettaglio e per l’applicazione scientifica del metodo, il perseverante esercizio del mantra do your job, manifestano una rigidità di pensiero quasi contrastante se paragonata all’enorme elasticità comprovata in tutti questi anni di trofei, senza la quale la bacheca non sarebbe mai potuta essere rigogliosa così come lo è oggi. New England è un modello esemplare di conduzione all’interno di un mondo sportivo oramai plagiato dalle scorciatoie prese dai grandi club – calcio e basket Nba insegnano piuttosto bene – per attirare a sé il meglio del meglio, aumentando le possibilità di vittoria grazie a sommatorie di talenti mai viste prima, aumentando costantemente il divario con le realtà più piccole.

I Patriots non vincono certo perché si presentano puntualmente in prima fila per raccogliere il grosso free agent di turno, la calibrata costruzione dei loro vari roster ha ampiamente dimostrato che per far funzionare il meccanismo non serve un sovraffollato e spesso casuale assembramento di campioni, ma una serie di persone capaci di condividere le gioie e le sofferenze di una stagione intera di football, in grado di aiutarsi e supportarsi vicendevolmente restando lontani dai profondi egoismi che sembrano contraddistinguere tutti quei giocatori che antepongono le loro statistiche individuali alle reali necessità di squadra, un plagio la cui esistenza è ampiamente certificata anche nel football, ma dal quale New England è rimasta a debita distanza.

Troppo facile nascondersi dietro alla presenza di colui che oggi è diventato il più grande quarterback di tutti i tempi senza considerare che Tom Brady non era affatto un predestinato, e che tutto ha avuto inizio solo ed esclusivamente grazie all’infortunio patito da Drew Bledsoe in una regular season di tanti anni fa contro i Jets, un esempio che fornisce una tra le citazione maggiormente opportune quando si tratta di ricercare il succo della mentalità di un head coach sempre attento alle minuziosità, per il quale il farsi trovare preparati davanti a qualsiasi evenienza conta più di tutto il resto. Potremmo estrarre decine di esempi sui giocatori che hanno fatto grandi i Patriots negli anni e denotarne la semi-sconosciuta provenienza (basti pensare al più recente tra gli Mvp del Super Bowl…) ma crediamo sia sufficiente fermarsi all’anno in corso e comprendere come nessuno avrebbe scommesso su un Trey Flowers dal rendimento vicino a quello di Calais Campbell, e sul fatto che Trent Brown, originariamente una scelta di settimo round dei 49ers, fosse un adeguato rimpiazzo per Nate Solder.

Nessuno a parte Bill Belichick, ovviamente.

L’head coach svolge militarmente il suo lavoro, tutti i giorni, sbattendosene di essere simpatico ai media e tenendo conto solo della sostanza. Chiunque arrivi ai Patriots sa che esiste un regime da rispettare, dei metodi ben precisi da applicare, che si può far parte del gruppo solo in presenza di una mentalità vincente, e che la cosa non corrisponde necessariamente al poter schierare in campo una formazione più forte di un’altra, perché tutto risiede nella profonda conoscenza del gioco e dei suoi dettagli meno notabili, nonché nell’armonia del gruppo.

Domenica, per l’ennesima volta, Belichick ha dimostrato di conoscere il football americano meglio di qualsiasi altra persona al mondo. Come sempre i Patriots sono stati tutto, ma pure il contrario di tutto, adeguandosi al proprio avversario dopo averne colto le sfaccettature più intime. Hanno vinto correndo, hanno vinto lanciando, hanno vinto difendendo, hanno distrutto l’innovazione e riportato le basi del football alla normalità, mutando la forma, ma non la costanza nel risultato. Non sono stati nemmeno esenti dal presentare delle lacune piuttosto chiare ed in parte responsabili per i parziali inceppamenti del loro percorso, che hanno spesso provocato sentenze mediatiche troppo affrettate, dimostrando di possedere costantemente una soluzione adeguata per l’idoneo superamento dell’ostacolo, facendo tesoro della figuraccia contro i Lions e l’ex-assistente difensivo Matt Patricia o del Miami Miracle, quand’invece sarebbero potuti facilmente cadere nell’ascolto delle varie condanne ricevute dai media.

Doveva essere l’anno della Kansas City dei record, degli innovatori offensivi come McVay, doveva essere la stagione di consacrazione del football offensivo, un giochino a cui anche i Patriots si sono per necessità prestati, ed invece – come al solito – in cima alla lista ci sono sempre le stesse facce, grazie soprattutto al record di 3-0 registrato contro Chiefs (affrontati anche in regular season) e Rams, tenendo ambedue i potentissimi attacchi a bocca asciutta in entrambi i primi tempi delle partite più importanti dell’anno, quella che ha garantito l’accesso al Super Bowl e quella che ha permesso di alzare il trofeo. Bill Belichick non ha fatto altro che divertirsi con ciò che lo appassiona in maniera viscerale, smontando i due giocattoli più belli della regular season dopo averli studiati nei minimi dettagli, nulla di nuovo rispetto a quanto già svolto in passato, ingrandendo numeri già in precedenza in grado di procurare brividi lungo la schiena alla semplice recitazione degli stessi, che dopo l’aggiornamento di domenica parlano di tredici partecipazioni al Championship della Afc, nove Super Bowl, sei Vince Lombardi’s.

Quello dei New England Patriots è il capolavoro assoluto dell’era della free agency, nella quale è letteralmente impossibile tenere un nucleo ben definito per tanto tempo a causa dei complessi meccanismi del salary cap, degli infortuni sempre dietro l’angolo, ed un’anzianità agonistica che per alcuni ruoli sopraggiunge prima che in tutti gli altri sport per logiche questioni d’usura.

Vincono più spesso degli altri, sono sempre presenti quando li si conta fuori, hanno creato la più grande dinastia mai esistita nel football americano. Di certo li si sarà sopportati malvolentieri, chi attira a sé tutto questo successo non è mai così simpatico, tuttavia ciò non deve oscurare una grande verità, secondo la quale ogni appassionato di football ha assistito ad un qualcosa mai visto prima e destinato a non essere più ripetuto, una leggenda creatasi sotto gli occhi di tutti, anno dopo anno, filmato dopo filmato, ripetizione dopo ripetizione.

Gran parte di questi meriti non può che essere riconducibile a lui, Bill Belichick, il maestro delle arti oscure Nfl le cui sei vittorie nella finale assoluta del football ne appaiano il nome a quelli di Curly Lambeau e George Halas, giusto per costruire le corrette proporzioni dell’impresa. Essere gli odierni testimoni della sua grandezza rende superfluo il rimando della sentenza ai posteri, nemmeno tanto ardua: è sufficiente andare oltre la possibile antipatia per il personaggio e comprendere, in qualità di appassionati del gioco, la fortuna di cui si sta ancora godendo.

5 thoughts on “Bill Belichick, l’indiscusso maestro delle arti oscure

  1. Tutto molto interessante ma i due “bei giocattoli” si sono smontati da soli. In verità i Chiefs hanno perso tutte le partite contro i top team, e McVay attualmente è molto, ma molto, sopravvalutato.
    Onore a Hoodie che li ha portati tutti a scuola. Again.

  2. Mi ha colpito la sua razionalità, il suo pragmatismo, la sua estrema semplicità nei momenti chiave. Ricordo Pete Carrol che ad una yard dal secondo anello consecutivo e con beast mode carico a palla alle spalle del QB fa il brillante ed ordina a Wilson una azione di lancio, risultato: intercetto e titolo ai Pats. Ricordo Kyle Shanahan che anzichè far correre uno dei suoi validissimi RB ed essere conservativo con un vantaggio ancora ampio fa il brillante e chiama un azione di lancio con lo stesso RB che non blocca un blitz e Ryan che si becca una tranvata, sack palla persa e da quel momento inerzia invertita, risultato: rimonta epica e titolo ai Pats. Domenica sul 4 e inch Belichick non cerca di sbancare e fare il brillante ma sul 10 a 3 chiama Gostkowski in campo, risultato: 13 a 3 due possessi di vantaggio, partita chiusa e vinta, sesto anello. La grandezza è anche essere essenziali puntare diritto al risultato e non cercare di umiliare l’avversario. Goooo Bill ancora per molti anni, fra poco non avrai più TB12 e poi smetterai anche tu ma ormai hai scritto la storia e sei sopra a Lombardi Shula Landry Noll Walsh e compagnia cantante. Come te nessuno.

    • Aahhh, mitico Pete Carrol (“The worst call ever”). Contro BB servono creatività e cojones, stile Pederson, o un’aggressività ai confini del regolamento (con una bella dose di coolio), stile Coughlin.
      Buffo che gli altri non imparino mai dalla storia…

    • vedremo..ma secondo me BB non vorrà perdersi la sfida del dopo Brady…semprechè mr bundchen si faccia da parte in tempi ragionevolmente brevi

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