L’ultimo triennio dei Rams si è certamente sviluppato all’insegna del cambiamento.

Quello maggiormente significativo riguarda anzitutto il ritorno ad una casa, Los Angeles, non l’originaria – la fondazione del team avvenne difatti a Cleveland – ma pur sempre dimora nella quale la franchigia aveva abitato più a lungo, sin dal lontano 1946, vincendo il Championship assoluto del 1951 e qualificandosi per il Super Bowl nel 1979, uscendo sconfitta dai mitici Steelers di Chuck Noll.

Non meno importante è stata la totale pulizia del coaching staff al termine della prima stagione dell’attuale secondo ciclo losangeleno, alla ricerca di un definitivo cambio d’identità a seguito dell’ennesimo campionato di esiti assai deludenti se proporzionati all’attenta e lungimirante costruzione del roster, avvenuta con tante scelte universitarie di qualità giunte da proficui scambi di mercato, una rifondazione che aveva portato ad assemblare parecchia gioventù speranzosa di cambiare le sorti di una squadra rimasta senza playoff addirittura dal 2004, quand’ancora agli allora St. Louis Rams giravano nomi del calibro di Mike Martz, Marshall Faulk, Torry Holt, e Marc Bulger.

Il primo anno di rientro a Los Angeles si era rivelato disastroso a causa di un attacco disfunzionale, guidato senza idee creative, ed una difesa di talento ma massacrata dagli eccessivi minuti trascorsi in campo tentando di limitare i danni, creando un vortice che ha risucchiato Jeff Fisher e tutti i suoi sottoposti. Non certo il grande ritorno al passato immaginato da Stan Kroenke, il proprietario della franchigia, la cui idea di trasloco proveniva da ragioni di marketing e non certo per particolari legami affettivi alla Città degli Angeli, trovandosi irrimediabilmente a fare i conti con il disinteresse generale del pubblico a fronte di mediocri prestazioni sul campo.

All’inizio dell stagione scorsa nessuno su questa terra sarebbe stato in grado di prevedere una cavalcata simile, facendo improvvisamente ritorno nei circoli Nfl più rinomati, a maggior ragione dopo un’assunzione giudicata – all’epoca non del tutto a torto – rischiosa come quella di Sean McVay, più giovane di alcuni suoi giocatori ma soprattutto privo di precedenti esperienze da head coach professionista, una mossa aspramente criticata proprio dal precedentemente menzionato Martz, lui che i Rams li aveva condotti al Super Bowl contro gli stessi Patriots che i Rams fronteggeranno domenica, e che l’aveva pure vinto qualche anno prima, da offensive coordinator, dopo aver creato The Greatest Show On Turf dal nulla.

Ironia della sorte, McVay avrebbe vissuto una sorte del tutto simile ricostruendo anch’egli daccapo un attacco totalmente inefficiente affidandosi ad una discussa prima scelta assoluta, Jared Goff, sotterrato dalle critiche durante l’annata da rookie per aver terminato la sua parziale esperienza da matricola senza l’ombra di una vittoria, sette sconfitte consecutive per chiudere la terrificante prima campagna, la prematura etichetta di bust da gestire e, ciliegina sulla torta, Fisher sollevato dall’incarico con ancora tre partite da giocare, presupposti che parevano presagire solo altre stagioni di pazienza e lenta ricostruzione, proprio per l’assenza di un curriculum particolarmente significativo da parte di un head coach rivelatosi invece uno stratega offensivo di primissimo ordine.

Per conoscere i Rams di oggi è necessario ben comprendere quelli di ieri, un’enorme sorpresa in grado di aggiudicarsi la Nfc West a quota 11-5 migliorando il disastro precedente di ben sette vittorie, condotti da un Goff elevatosi a livelli di gioco degni di un Mvp, nonché dal debordante talento di un Todd Gurley dimostratosi più che degno erede di Faulk per produzione di yard a trecentosessanta gradi, e – fattore di non secondaria importanza – l’estrema creatività e funzionalità delle chiamate offensive, cui va il merito principale della metamorfosi di un reparto offensivo divenuto il migliore di tutta la Lega a soli dodici mesi di distanza da quel misero trentaduesimo posto ottenuto sotto l’opaca direzione di Fisher.

La squadra oggi qualificata per il Super Bowl LIII è inoltre la sorella più matura e ricca di talento dell’edizione 2017, per tutta la offseason si è difatti parlato del general manager Les Snead e del suo improvviso approccio filosoficamente contrario alla conduzione costruttiva precedente costituita da evidenti accumuli di scelte alte, un atteggiamento probabilmente derivato anche dalla frustrazione conseguente all’eliminazione casalinga ad opera dei Falcons nella Wild Card, chiudendo una stagione chiaramente positiva ma durante la quale si erano create aspettative poi schiantatesi contro l’uscita in quello che in fondo era solo il primo turno di playoff. Ciò ha contribuito ad alimentare la necessità di accorciare il percorso verso un successo che i Rams si erano resi conto di poter toccare con mano, motivando il successivo arrivo di rinforzi già comprovati convogliando quindi i caratterini dei vari Suh, Talib, Peters, ed in un secondo tempo pure Fowler dentro lo stesso spogliatoio, sperando di contenerne il temperamento facendo intravedere loro la possibilità di vincere l’anello.

Grazie ai risultati ottenuti, che hanno smentito tutte le possibili critiche verso l’operato di offseason ponendo parecchio peso sulle spalle di una franchigia per la quale l’accesso al Super Bowl diveniva un risultato minimo già a partire dalla scorsa primavera, gli investimenti fatti sugli appena menzionati veterani e su pezzi offensivi di rilevante entità come Brandin Cooks hanno prodotto i frutti sperati.

Otto vittorie per aprire il presente campionato, 13-3 quale record finale, un fatturato offensivo capace di varcare la soglia dei 500 punti – ben 32.9 di media – ed in grado di sopperire alla maggior concessione di segnature patita dalla difesa di Wade Phillips, costruita su una linea fenomenale in grado di schierare contemporaneamente il fenomenale Aaron Donald, Michael Brockers, ed il neo-arrivato Suh e coadiuvata dalla crescita di giovani come Cory Littleton e John Johnson, costruendo un reparto che si è consolidato solo con il passare delle partite, ed in ogni caso responsabile di un numero di big play al passivo ben più alto di quanto fosse possibile preventivare.

La grande potenza offensiva è risultata determinante nel sostenere adeguatamente l’involuzione difensiva, alimentata dai 96 punti complessivi elargiti in occasione dei due scontri più importanti di regular season contro Saints e Chiefs, altre onnipotenze offensive di stampo del tutto simile a Los Angeles, perlomeno in termini di produttività. La sconfitta contro New Orleans sarebbe costata a posteriori il seed numero uno della Nfc, ma l’incredibile 54-51 scritto nel memorabile Monday Night contro gli automi di Andy Reid avrebbe tenuto alta la considerazione dei Rams, capaci comunque di uscire vivi da uno scontro con 546 yard subite.

Il mese di dicembre ha sollevato non pochi dubbi sulla concretezza della compagine di McVay, ma se non altro il momento di crisi è giunto nella fase più opportuna del campionato, quella appena precedente alla disputa dei playoff, dove il margine d’errore si assottiglia in maniera drastica. Uscita frastornata da una vittoria sin troppo faticosa contro i Lions, Los Angeles sarebbe incappata in due stop consecutivi contro gli spietati Bears, i quali parevano aver scoperto l’antidoto per cancellare la straordinaria produttività offensiva dei californiani, nonché rimediando una sconfitta più netta rispetto a quanto raccontato dal 30-23 patito contro degli Eagles nel pieno della loro rimonta per la corsa ai playoff.

Tuttavia, se i Rams sono giunti fino a questo punto del loro cammino crediamo sia merito anche di quanto tratto d’insegnamento da questo gruppo di partite nelle quali la compagine ha perso e ritrovato la propria identità in tempo utile, testando la sua capacità di uscita da una situazione improvvisamente avversa, sempre difficile da gestire quando gli automatismi non sono più quelli di prima ed i media ti si accaniscono contro con la stessa facilità di come ti esaltano. Ed ecco che, dopo aver chiuso la regular season con due provvidenziali incontri con Arizona e San Francisco per ritrovare la miglior forma offensiva e far riposare l’infiammazione al ginocchio di Gurley, i Rams hanno ripreso la strada vincente precedentemente battuta senza fallire un solo appuntamento, seppellendo Dallas sotto le 238 yard corse da Gurley e C.J. Anderson mentre la ritrovata difesa teneva Zeke Elliott a 2.3 yard per portata, ed in seguito conquistando lo scettro di Conference in casa dei Saints nella discussa finale della Nfc, dopo aver rimontato lo svantaggio iniziale.

Al di là dello sgradevole episodio che ha visto protagonista Nickell Robey-Coleman, un clamoroso fallo non sanzionato presumibilmente destinato a cambiare le regole delle review sul campo e che ha di fatto impedito ai Saints di giocare altri quattro down portando il cronometro allo scadere con la possibilità di vincere nei tempi regolamentari, i Rams giungono al Super Bowl LIII con indiscutibile merito.

Dopo nemmeno due anni completi di esperienza da head coach il giovane Sean McVay è già un illustre guru offensivo ed un letale costruttore di mismatch capace di sfruttare le singole caratteristiche dei suoi giocatori, trovando il modo di rendere produttivi tutti quanti. Ha esaltato le doti di possession receiver del sottovalutato Robert Woods, che a Buffalo non poteva certo accorgersi di essere un ricevitore con le 1.000 yard in saccoccia, ha confermato l’ottimo investimento eseguito per l’atletico Brandin Cooks, costato tra le altre cose una prima scelta andata proprio in direzione dei Patriots, ha ottenuto un rendimento impensabile da Cooper Kupp – sfortunato nel rompersi un legamento a metà stagione – ricavandone un giocatore in grado di produrre da subito, sostituendolo in seguito con un altro giocatore volato sotto il radar in proporzione al contributo offerto, Josh Reynolds. E non ultimo, è riuscito ad inserire nella creatività dei Rams un bruiser tradizionale come il già menzionato C.J. Anderson aggiungendo una nuova dimensione fisica ad un reparto già multi-attrezzato, trasformando un giocatore già tagliato da Panthers e Raiders proprio in questa stagione nel protagonista più inatteso dei playoff.

Ora non resta che affrontare l’ultimo ostacolo di questo entusiasmante percorso, vendicando la sconfitta nel Super Bowl XXXVI, ovvero la partita che segnò l’inizio della più grande dinastia del football americano contemporaneo.

Fu l’inizio della grande leggenda di Tom Brady e Bill Belichick.

McVay, invece, non vede l’ora di scriverne la parola fine.

 

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