Qualunque disciplina sportiva si pratichi, ed il discorso è particolarmente valido per la tradizione culturale americana che non vede retrocessioni e promozioni, l’unico risultato che permetta di festeggiare seriamente è la vittoria assoluta. Esistono tuttavia delle eccezioni che si basano sulle premesse riguardanti gli anni successivi, generate da squadre che attraverso campionati di riscatto o sorprendentemente positivi riescono comunque a ricavarne qualcosa di buono in ottica futura, una situazione che ci pare si possa cucire adeguatamente addosso a dei Colts usciti dai playoff al secondo turno, ma evidentemente soddisfatti del loro operato.

Andrew Luck, per lui 39 passaggi da touchdown nel 2018.

In altre circostanze, la netta sconfitta contro i Kansas City Chiefs avrebbe maturato aspre critiche com’è normale che accada quando una determinata squadra non riesce a misurarsi in modo confacente all’avversario che si trova davanti, perché per essere i migliori è pur sempre necessario battere i migliori, ed Indianapolis non ha fatto altro che dimostrare di aver molto da percorrere in tal senso. E’ stata una gara nella quale Andrew Luck non è mai entrato a regime, mancando di ottenere un primo down nei primi quattro possessi consecutivi conseguendo nel logico solco scavato dal mostruoso reparto governato dall’automa Mahomes, dove la difesa ha commesso alcuni determinanti errori di concentrazione tramutatisi in penalità, ed il possente gioco di corse è stato abbandonato per chiare esigenze di copione, mortificando un po’ quanto costruito da Frank Reich in questa entusiasmante campagna.

La questione non va però affrontata con questa mentalità. Così sarebbe dovuto essere qualora i Colts avessero dominato la regular season e deluso le attese, ma così non è stato. E’ stato invece un cammino da cui ricavare positività e speranza, anzitutto per l’ottimo stato di forma di Luck, vale a dire la preoccupazione senza dubbio più grande per una franchigia che si accingeva ad affrontare l’anno senza minimamente conoscere la ripresa fisica del suo giocatore più importante, nonché per la capacità di reazione dimostrata dal gruppo a seguito dell’assai difficoltosa partenza composta da una sola vittoria nelle prime sei uscite, evento che in quel momento aveva certamente depennato Indianapolis dall’elenco delle potenziali partecipanti alla postseason.

Sfortunatamente non abbiamo la possibilità di chiederglielo direttamente, ma immaginiamo proprio che Andrew Luck sia felice, nonostante l’eliminazione. Tutti vogliono giocare per il Super Bowl, ovvio, e chi vince è sempre uno soltanto, tuttavia quando si è ancora giovani e si è riusciti a rimettere in piedi una carriera che sembrava essere deragliata a causa di quella tanto discussa spalla ci pare logico pensare che la delusione per non essere giunti al traguardo possa tranquillamente essere superata dalla sensazione di ottimismo che pervade il quartier generale dei Colts.

Quenton Nelson è un vero uomo da trincea, violento e fisico.

Per la prima volta negli ultimi cinque anni Luck non dovrà affrontare una serie interminabile di appuntamenti e viaggi per esclusivi scopi medici – l’anno scorso venne pure in Europa per le cure –  un aspetto mentale da non sottovalutare nell’affrontare la desiderata pausa di offseason con la prosepttiva corretta, ovvero il recuperare dai rigori del football americano. E, forse per coincidenza, forse no, i Colts hanno fatto i playoff per la prima volta dal 2014, ovvero l’ultima stagione in cui il quarterback ha affrontato un intero campionato senza saltare né partite né allenamenti raggiungendo un risultato di grande rilievo come la finale di Conference, poi persa contro i Patriots.

Si riparte proprio da lì, dalla consapevolezza che con Luck in sella i Colts si sarebbero potuti giocare più di qualche Super Bowl se solo vi fosse stata la collaborazione di una difesa adeguata. E della salute. I programmi di franchigia ripartono esattamente da quella partita ricordata per aver dato origine allo scandalo del Deflategate, una gara che Indianapolis aveva perso nettamente (45-7) ma dalla quale cercava di gettare le basi per aprire un ciclo vincente, lo stesso piano costruito oggi grazie all’abilità di un general manager come Chris Ballard, che ha attrezzato il roster al meglio nei settori dove nel triennio precedente esisteva un preoccupante vuoto, lo stesso che aveva reso i Colts una delle più deludenti squadre in circolazione come raccontato dal 4-12 che aveva definitivamente chiuso l’esperienza-Pagano.

Con Luck in forma ed una squadra più completa di prima, è come se quei tre anni di problemi ed incertezze non fossero mai esistiti, dando vita al piacevole flash-forward di una pellicola che oggi mostra un quarterback arrivato secondo in stagione con 39 passaggi da touchdown dietro al solo e mostruoso Mahomes, nonché con i migliori risultati di carriera per completi (430) e percentuale di bersagli centrati (67.3%), oltre ad aver tentato ben 639 passaggi, altro dato personalmente mai raggiunto prima, e chiara testimonianza che quella spalla era davvero pronta a sobbarcarsi il lavoro di un’intera regular season.

I Colts hanno ritrovato la faccia della franchigia come se non l’avessero mai persa, ma c’è molto di più.

Impossibile riporre in secondo piano le prestazioni di una linea offensiva violenta, piena di grinta e voglia di terminare il gioco fino al fischio dell’arbitro, mettendo in campo tutta la propria aggressiva rudezza. Il reparto ha concesso 18 sack stagionali con una percentuale del 2.7%, miglior risultato di tutta la Nfl, un progresso istantaneo rispetto ai 45 sack di media elargiti nel triennio precedente, grazie alle esclamative prestazioni dei due rookie Quenton Nelson e Braden Smith, che hanno stabilizzato un reparto dove Anthony Castonzo ha giocato toccando punte d’eccellenza, contribuendo non solo a mantenere integro il regista ma pure ad allargare gli spazi da percorrere per il gioco di corse, uno dei piatti forti di questo campionato.

Marlon Mack ha sfiorato le 1.000 yard in sole dodici partite.

Marlon Mack ha difatti triplicato le statistiche del suo anno da rookie e posto in atto uno sviluppo ineccepibile, mostrandosi al pubblico come un potenziale running back primario qualora dovesse confermare quest’ottimo secondo anno anche in futuro. Il giovane da South Florida ha confermato a livello professionistico le sue dote di accelerazione a lunga gittata e la capacità di evitare i  placcaggi con movenze atletiche quando gli spazi sono risultati sufficienti allo scopo, di saper correre in mezzo ai tackle e di saper combattere per le cosiddette extra yard. La sua è stata una stagione in crescendo, partita con un infortunio al quadricipite che lo ha rinchiuso ai box per il primo mese di gioco, fatto che non gli ha impedito di raccogliere 908 yard nelle seguenti dodici apparizioni.

La vera maturazione di Mack pare perfettamente rappresentata dalla sontuosa prestazione offerta in occasione della Wild Card vinta contro Houston, con 148 yard in 24 portate contro una difesa che non aveva ancora conosciuto un running back in grado di superare la tripla cifra, in un confronto dov’è emersa tutta la sua versatilità, ma pure la sua pazienza nel visionare i blocchi e leggerli nella maniera più opportuna. In passato, correlando la prossima free agency di Le’Veon Bell e la forte disponibilità economica di Indianapolis per il prossimo mercato primaverile molte testate avevano parlato di un abbinamento già scritto, ma le prestazioni offerte da Mack sono risultate più che sufficienti per rendere inutili tali discorsi.

Dato che le risorse non mancano – saranno 124 i milioni da spendere – meglio indirizzarle sui veri problemi offensivi, che riguardano una dipendenza troppo stretta da T.Y. Hilton, dietro al quale non ci sono alternative di sorta. Vero, ci sono pur sempre i tight end, Eric Ebron ha vissuto la stagione della vita e Jack Doyle è un’opzione più che valida (ha però terminato l’anno in injured reserve), vero anche che un attacco ambizioso non sempre può appoggiarsi alle occasionali giocate di improbabili protagonisti come Dontrelle Inman, Chester Rogers o Zach Pascal, nessuno dei quali ha dimostrato di valere lo spot di wide receiver numero due. L’anno prossimo si attende il ritorno del promettente Deon Cain, ma vista la sua inesperienza ed il pur sempre difficoltoso recupero dal crociato anteriore rotto, un nome di spicco per la batteria di ricevitori dovrà forzatamente campeggiare in cima alla lista della spesa.

Darius Leonard, inserito tra gli All-Pro già nell’annata da rookie.

La difesa non va dimenticata, in quanto è divenuta il perfetto complemento a Luck per riuscire a fare strada. L’eccelso lavoro del coordinator Matt Eberflus ha trasportato il reparto dal trentesimo posto per punti concessi alla top ten di categoria, giocando una Tampa-2 molto cara alla franchigia (Tony Dungy vinse il Super Bowl nel 2006 praticando questo schema proprio da lui reso popolare…) e costruita su giocatori non certo famosi, ma perfetti per questa tipologia di difesa, merito anche delle scelte di un Ballard focalizzato sulla costruzione del roster in base alla filosofia da applicare, e non il contrario. Da qui sono emerse prestazioni molto importanti, Darius Leonard è diventato un All-Pro (alla faccia dell’esclusione dalla manifestazione circense chiamata Pro-Bowl) già da matricola, Anthony Walker e Margus Hunt hanno completato con successo la transizione da giocatori da rotazione a titolari fissi; Pierre Desir, Kenny Moore e Malik Hooker hanno reso senz’altro migliori le secondarie.

Non avranno vinto il Super Bowl, ma i Colts restano una bella storia di successo che questo 2018 appena trascorso si porterà dietro a lungo, partendo da un gruppo di allenatori che per la prima volta hanno ricoperto i rispettivi ruoli, da un Frank Reich che alla fine è stato un rimpiazzo per i capricci decisionali di Josh McDaniels, ricostruendo un panorama che per trentasei mesi ha proposto il buio più totale, e che oggi è ritornato ad essere mozzafiato.

Il futuro è tornato ad appartenere ad Indianapolis, ed al successore designato di Peyton Manning.

 

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