Non è semplice trovare qualcosa da salvare del 2018 dei Pittsburgh Steelers. D’altronde, non può essere altrimenti quando una squadra ricca di talento e con un nome che di per sé obbliga a performare, finisce per mancare anche l’obiettivo minimo della qualificazione ai playoff. A maggior ragione se il tutto è avvenuto in un contesto di palese autolesionismo, con le tre evitabilissime sconfitte di fila contro i Broncos, i Chargers e persino gli Oakland Raiders (!) che hanno buttato al vento la stagione vanificando il precedente filotto di sei W una dietro l’altra che aveva rilanciato la truppa di coach Tomlin tra le favorite della AFC.

Indubbiamente ci possono essere delle spiegazioni “tecniche” per questa stagione fallimentare, ma se molti addetti ai lavori tendono a motivare l’annata nera di Pitt sotto altri profili un motivo ci sarà, anzi più d’uno ad essere onesti. E in tutta franchezza non si può ragionare più di tanto sugli intercetti di Roethlisberger, i problemi della difesa e via discorrendo. Il (non) risultato di Pittsburgh è perlopiù frutto di questioni off-the-field, problemi di spogliatoio, mancanza di disciplina e chimica di squadra, oltre che di una serie di tendenze assunte negli ultimi anni e dei loro logici effetti.

L’annata degli Steelers è partita male con la grana Bell, il quale di fronte ad una proposta economica non soddisfacente sotto il profilo della parte garantita del contratto e in previsione di un altro anno sotto franchise tag, ha deciso di incrociare le braccia. Poco importa se tutto ciò ha permesso di scoprire il talento di un ragazzo, anzi di un uomo vero – lo dice la sua storia – che porta il nome di James Conner, se la stella della squadra decide di scioperare le “tossine” che ne conseguono non possono essere smaltite con facilità, anzi vanno a sedimentarsi e diventano un fattore di instabilità.

E poi c’è l’altra grande spina nel fianco della franchigia, ovviamente si parla di Antonio Brown. Le sue prodezze comportamentali rivaleggiano con quelle sul terreno di gioco e i suoi ultimi colpi – che lo collocano di diritto nel pantheon dei grandi “Diva Receivers” della storia del football di fianco ai vari T.O., Ochocinco, Keyshawn Johnson –  hanno contribuito in maniera notevole a destabilizzare l’ambiente.

Il numero 84 ha chiuso anzitempo la sua stagione, mancando l’ultima con Cincinnati con i suoi ancora in corsa per la post-season. Inizialmente la motivazione era “knee injury” ma la copertura architettata maldestramente da Pittsburgh è venuta meno in fretta e non c’è voluto molto per svelare che i problemi di Brown non riguardavano il suo ginocchio ma altro. Dopo aver dato di matto in allenamento e scagliato il pallone addosso a Roethlisberger, Brown ha pensato bene di peggiorare le cose saltando le successive sessioni e rendendosi irreperibile a coach Tomlin e ai vertici della franchigia. La naturale conseguenza, forzata anche dall’ostilità ovvia dei compagni, ha portato all’esclusione dalla partita coi Bengals.

Quest’ultima faccenda ha indebolito ulteriormente l’immagine della dirigenza e del coaching staff, già oggetto di polemiche per la questione Bell. L’incapacità di gestire AB e soprattutto i tentativi di copertura e i goffi commenti a mezza bocca una volta venuta fuori la verità manifestano la realtà di un contesto in cui si fa molta fatica a mantenere un certo equilibrio e per rimanere su Antonio Brown, bisogna dire che le dissonanze con l’ambiente non sono certo una novità.

Basta ricordare l’allenamento mancato e alcuni tweet non proprio geniali il giorno successivo alla sconfitta con i Chiefs, partita in cui inoltre aveva animatamente battibeccato a bordo campo con l’OC Fichtner. E poi più volte si è parlato delle tensioni con Roethlisberger, che per altro lo aveva chiamato direttamente in causa ai microfoni dei giornalisti dopo la partita persa con Denver. Probabilmente Brown non ha digerito la predominanza di Big Ben nello spogliatoio e la solidità del suo rapporto con Tomlin, oltre a ciò il fatto che Juju Smith-Schuster sia stato nominato miglior Steeler del 2018 di certo non gli avrà fatto piacere, tanto che alcune tesi “complottiste” sostengono che l’esclusione dall’ultima partita sia stata in un certo senso cercata da Brown stesso, ferito nel suo orgoglio da divo da chi ha osato mettergli davanti il ragazzo da USC.

Antonio Brown, Le’Veon Bell e molti all’interno della locker room di Pittsburgh non sono caratteri semplici, ovvio, ma in tutto ciò anche la “forma” del contesto ha il suo peso. Negli anni Mike Tomlin si è distinto per il suo approccio peculiare allo spogliatoio e alla gestione dello stesso. Il fatto di rapportarsi ai giocatori come un loro pari anzi, diciamo pure come “uno di loro”, il mantenere un determinato atteggiamento in un contesto tipicamente “black” come uno spogliatoio di una squadra di football, lo ha reso amato e popolare, tanto che alla domanda “da chi vorresti essere allenato?” una delle risposte più frequenti da parte degli atleti NFL è proprio Tomlin.

Allo stesso tempo però questo modo di agire ha creato una team culture che evidentemente non contempla abbastanza l’autorità del coach. Essere l’allenatore “amico”, quello che piuttosto che predicare disciplina se c’è bisogno passa sopra alle “birbonate” dei suoi giocatori non ha funzionato. Perché essere un player coach quando le cose vanno bene può essere relativamente semplice, ma quando si accumulano problemi e frustrazioni non lo è poi così tanto. I problemi disciplinari degli Steelers sono il frutto di questa cultura e da questi problemi derivano i cattivi risultati di una squadra che quest’anno ha mancato i playoff e che da anni dispone di alcuni dei migliori giocatori della lega senza riuscire a vincere nulla. Se Tomlin vuole continuare ad essere l’allenatore degli Steelers è evidente che questo trend dovrà cambiare e non si tratta di sostituire qualche assistente ma di un qualcosa di parecchio più complesso.

D’altronde non è certo la prima volta che si mette in discussione il suo operato sotto questo profilo. Dopo la sconfitta con i Jags nel Divisional della scorsa stagione, dopo la difesa ad essere messa sotto accusa è stata proprio la cultura di squadra di Pittsburgh, ovvero ciò che il suo allenatore ha seminato negli anni. E ricorderete come dopo poche settimane in Massachusetts, James Harrison abbia apertamente elogiato l’approccio di Belichick basato sulla coerenza nei rapporti e tutto focalizzato su team culture e disciplina, citando anche l’episodio emblematico di Brady “impaurito” per essere arrivato tardi ad una sessione video, cosa che evidentemente non avveniva nei suoi anni in Pennsylvania.

Per rimettersi in carreggiata a Pittsburgh dovranno recuperare la loro proverbiale Steelers Culture, che è nel DNA della franchigia, come ha rammentato non molto tempo fa Terry Bradshaw, il più grande ogni epoca ad essersi vestito in black and gold. Bradshaw, facendo un parallelo con la situazione attuale della sua ex squadra, ha ricordato come a suo tempo né lui né i suoi compagni avrebbero considerato coach Chuck Noll come un amico ma allo stesso tempo il rispetto per l’allenatore era una cosa naturale, e di come questo tipo di linea abbia creato quella cultura che unita al talento suo e dei compagni ha fruttato quattro Super Bowl in una decade lasciando una legacy che è e rimarrà sempre nella storia del gioco.

Aver vinto non garantisce un credito a vita, 10 anni di digiuno e tante occasioni mancate, spesso proprio a causa dei Patriots di Belichick, mettono Tomlin nella condizione di giocarsi molto nella prossima annata, il che comporta come già detto il dover mettere in atto una serie di cambiamenti tutt’altro che semplici, lui come anche la dirigenza, a cominciare dal risolvere a breve il problema Brown.

Il proprietario Art Rooney II ha già detto in sostanza che il wide receiver è destinato a cambiare aria, ma la questione non è così semplice in quanto sia tradarlo che tagliarlo (prima o dopo l’1 giugno) avrebbe un impatto economico non indifferente dato il contratto dell’84. Ma d’altra parte se a Pittsburgh vogliono ricostruire un ciclo vincente non possono esimersi dal mettere in atto a breve una serie scelte non proprio indolore e questa, obbligatoriamente, dovrà essere la prima.

One thought on “Perchè il problema degli Steelers è “culturale”

  1. concordo in toto con l’articolo.
    è un gran peccato dover rinunciare ad A. Brown e alla sua produzione, soprattutto dopo il rinnovo contrattuale che costerà parecchio in termini di dead money.
    Ma credo che la situazione sia ormai irreversibile, purtroppo.

    Aggiungo che anche Ben l’anno prossimo entra nell’ultimo anno di contratto..

    Aria di grandi cambiamenti nella Steel City

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