Benvenuti – o bentornati se già ci seguivate durante la stagione scorsa – a Ten Weekly Lessons. In questa rubrica vedremo assieme che cosa ci ha insegnato la giornata di football appena trascorsa, cercheremo di ragionare sui principali avvenimenti e sulle prospettive di giocatori e squadre, buttando là qualche previsione, come sempre soggetta a discussione. Buona lettura!

1) PATRICK MAHOMES E’ GIA’ PRONTO PER LA NFL

Lungi da noi saltare su carrozzoni improvvisati, lo chiariamo con immediatezza per non cadere in facili equivoci. Addirittura chi scrive non era più di tanto convinto del fatto che Mahomes fosse già pronto per esordire a questi livelli con tale efficienza, se non altro perché vista l’inesperienza e lo schema giocato al College – la Air Raid Offense di Texas Tech – era perfettamente lecito pensare che, almeno inizialmente, ci sarebbe stato tanto spettacolo ma pure anche tanto periodo di adattamento.

Siamo più che felici di essere smentiti perché il ragazzo, con queste premesse, può senz’altro inserirsi tra i protagonisti del futuro di questa Lega garantendo un cospicuo numero di big play, il che va tutto a beneficio dello show, almeno fino a quando le difese Nfl – sempre leste a cambiare pelle a seconda delle tendenze – non troveranno modo di limitarlo. Ma oggi non possiamo che parlare del presente, e ritrovarci letteralmente impressionati davanti ad una performance da podio che non deve fermarsi alla parte numerica, ma deve guardare pure alla capacità di lettura delle varie situazioni ed alla reattività dimostrata in campo, riassumendo il tutto con una prova di maturità tecnica da non sottovalutare affatto.

Abbiamo assistito ad una sola partita del giovane prodigio, per carità, ma già da tempo le voci sussurrano insistendo sulle qualità di questo giocatore sostanzialmente esordiente, sul fatto che avrebbe trasformato questo attacco accendendo i cosiddetti fuochi artificiali, e che si sarebbe presto affermato scalando le gerarchie del ruolo. Mahomes queste voci, almeno per la prima settimana, le ha trasformate in una bella realtà che potrebbe permettere ai Chiefs il salto di qualità ricercato e la definitiva consacrazione di tutto il talento atletico di cui questo attacco dispone, anche se è bene ricordare che non tutte le gare offriranno possibilità di segnare in azioni di special team, e la difesa – in particolare le secondarie – necessita di una bella sistemata.

Tuttavia, considerata la presenza di folletti imprendibili come Tyreek Hill, che continua a comportarsi da ricevitore primario esercitando un dominio che un fisico come il suo non dovrebbe permettergli, De’Anthony Thomas, utilissimo in qualsiasi circostanza di trick play, e le enormi possibilità in ricezione fornite da Kareem Hunt e Travis Kelce, aspettiamoci pure valanghe di punti e giocate altamente spettacolari. Cosette come il passaggio di fino con l’uomo addosso effettuato per il 14-3 provvisorio (TD di Hill di 58 yard) non sono cose che s’insegnano. Quello si chiama talento naturale, istinto, e Mahomes, al di là dei risultati che giungeranno nel Missouri, è parecchio attrezzato in materia.

2) I RAIDERS RIMPIANGERANNO A LUNGO LA TRADE DI KHALIL MACK

John Gruden è uomo tutto d’un pezzo ed ha una filosofia di football ben precisa, peraltro condivisa da molti altri colleghi. Non si paga un defensive end con quantità di denaro simili a quelle di un quarterback e questo l’abbiamo perfettamente compreso, ma tutte le circostanze possono tuttavia offrire la classica eccezione che conferma la regola. E Mack ne è la dimostrazione vivente.

Ora, si potrebbe disquisire all’infinito della convenienza dello scambio ma non ci sono tutti i dati oggettivi a disposizione, perché non conosciamo l’impatto futuro dei giocatori che arriveranno ad Oakland e Chicago attraverso le scelte che le squadre si sono scambiate nel quadro complessivo dell’affare, possiamo soltanto limitarci a dire che la pressione sarà tutta sui Raiders, perché negli ultimi anni non hanno certo utilizzato in maniera fruttuosa le selezioni più alte di cui hanno goduto. Possiamo però esprimere un giudizio derivante da ciò che abbiamo visto in campo domenica, dov’è stato fin troppo chiaro il devastante impatto che Mack ha apportato nei confronti dei suoi nuovi fornitori d’impiego. Prima di campionato, entusiasmo alle stelle, infortuni che ancora non si fanno sentire, ci sta tutto nel ragionamento, ma è assai raro vedere un giocatore maltrattare e malmenare in quel modo una linea offensiva producendo una giocata d’impatto dietro l’altra, vedere un’autentica bestia aizzata contro gli avversari in grado di non limitarsi al sack o alla pressione, ma volere a tutti i costi quel pallone strappandolo con cattiveria e poi continuare ancora, con furia agonistica, a tenere salda l’inerzia della partita arrivando persino a segnare una meta.

Chiaro, poi c’è da discutere sui Bears e sulla loro capacità di gestire un vantaggio o di trattenere un intercetto sicuro che avrebbe chiuso la partita – e l’America non sarebbe oggi qui riunita nel parlare degli eroismi di Rodgers – ma Mack, che ha peraltro rincorso Randall Cobb per la maggior parte di quelle 75 yard come nemmeno un cornerback riesce a fare, questa partita ha rischiato di vincerla da solo. E’ un tipo di giocatore che nasce solo una volta ogni tanto in una generazione – pensiamo quindi alla fortuna che abbiamo nel vedere in azione sia lui che Von Miller – che richiede una preparazione delle protezioni fatta apposta per lui e che al primo errore presenta un conto salatissimo da pagare. Magari i Raiders vinceranno più partite dei Bears alla resa dei conti stagionale, ma uno così devastante e giovane avrebbe meritato di far parte del futuro nero-argento, e di non passare per stra-pagato.

A Gruden conviene sperare che Mack non diventi uno dei tanti errori dirigenziali che Oakland ha apparentemente commesso in questa offseason per certi versi assai poco comprensibile, e per quanto sia uomo tutto d’un pezzo difficilmente potrà nascondere il rimpianto per essersi privato di un difensore così speciale, che faceva chiaramente parte del disastro collettivo del 2017, ma che possiede potenzialità d’impatto come nessun altro.

3) I SAINTS DEVONO CORRERE IMMEDIATAMENTE AI RIPARI

Se sei una franchigia con ambizione di giocare i playoff e migliorare il già buon risultato ottenuto l’anno prima e riesumi la mitica leggenda di Fitzmagic, c’è qualcosa che seriamente non va. Questo paragrafo contiene sicuramente una discreta quantità della overreaction di cui al titolo principale, ma crediamo che non potrebbe essere altrimenti data la reazione incredula che l’America tutta ha provato nei confronti di un Ryan Fitzpatrick che ha tirato fuori la partita della carriera di fronte a quella che sarebbe dovuta essere – e può ancora essere – una delle difese meglio preparate della Nfl.

I Saints sono il classico esempio del “ma sì, dai, in fondo è solo la prima settimana di gioco”, difficile credere che non daranno un obbligato giro di vite alla difesa e potranno essere protagonisti della loro Division rispettando i pronostici, il problema è che hanno pochissimo tempo per farlo. Con Brees, Kamara e Thomas si può costruire tanta bella esplosività offensiva tanto da poter scrivere il trentello pure durante il sonno contro la maggior parte dell’ostilità, poi però c’è pure la fase difensiva (noto anello debole dei Saints post-Super Bowl, edizione Gregg Williams), la stessa che aveva risposto molto bene durante il 2017 ridefinendo il valore sul campo di una New Orleans giunta ad una miracolosa ricezione di Stephon Diggs dal proseguire il suo percorso in postseason.

Le previsioni sono fatte appositamente per essere sbagliate, certo, ma nessuno su questo pianeta avrebbe certo potuto preventivare 48 punti fatturati da una squadra in netta discesa ed in difficoltà con il comportamento fuori dal campo del suo quarterback titolare (semmai dovesse ancora esserlo), e tantomeno la fantascientifica stat line messa assieme da Fitzpatrick, autore del 75% di completi e 5 touchdown complessivi (uno su corsa) con 417 yard a corredo, ottenute in quasi la metà dei tentativi effettuati dalla più nota controparte, Drew Brees, senza contare che i punti messi a referto dai Bucs destano un’impressione ancora maggiore se considerati i soli 5 primi down ottenuti su corsa, una parte del loro gioco non certo produttiva.

Si è dunque partiti con 529 yard al passivo, di sicuro i due fumble persi per strada non sono stati d’aiuto ma non sono nemmeno una giustificazione, i fatti dicono che Mike Evans, l’anno scorso molto ben limitato dalle secondarie di New Orleans, ha sfornato 147 yard battendo ripetutamente Marshon Lattimore e DeSean Jackson (146) è letteralmente resuscitato tornando improvvisamente ad essere un giocatore d’impatto (e qui si fanno molto interessanti le voci secondo le quali Winston lo ignorasse per incapacità di lettura della situazione), bruciando il suo marcatore in maniera sistematica. La ciliegina sulla torta? Sei dei primi sette drive dei Buccaneers sono andati a segno. Senza Jameis Winston in campo.

La ricetta per i playoff è sempre quella, ci vuole anche e soprattutto la difesa. I Saints lo sanno meglio di altre squadre, visti i loro risultati degli ultimi dieci anni. Quindi, meglio correre immediatamente ai ripari.

4) NATHAN PETERMAN HA GIA’ BRUCIATO TUTTE LE SUE CARTUCCE

Le nostre previsioni personali sui Bills parlavano di involuzione in arrivo a seguito nonostante l’agognata qualificazione ai playoff del 2017, tanti, troppi punti di domanda per un attacco (in)offensivo che ha dimostrato tutta la sua inettitudine nella sportivamente tragica prima uscita ufficiale.

Che cos’abbia visto lo staff durante i vari camp tenutisi in offseason è un mistero assai poco risolvibile, perché Nathan Peterman – che aveva vinto la corsa per la posizione di titolare tanto da far propendere la dirigenza ad orchestrare una sorprendente trade per disfarsi di A.J. McCarron – non ha fatto altro che replicare la pessima prestazione dello scorso anno contro i Chargers. Si tratta di sole due partite, una quantità che non dovrebbe permettere sentenze troppo frettolose, ma ci sentiremmo di produrre un’eccezione per una situazione che definire mediocre non rende probabilmente l’idea. Allora, si parla del novembre scorso, la geniale mossa di spogliare Tyrod Taylor dai gradi di titolare era conseguita in un primo tempo epico al contrario, con 5 intercetti racchiusi nei soli primi trenta minuti di gioco a carico di Peterman e delle presenze in campo così fulminee da permettere a Los Angeles di terminare la gara con ben 54 punti a proprio favore, una disfatta del tutto simile a quella patita contro i Ravens.

La differenza? Taylor oggi gioca a Cleveland ed è ben contento di farlo – il che è assolutamente emblematico – e McCarron non c’è più per il suddetto motivo. Peterman si è limitato a due intercetti stavolta, ma il 27% di completi racconta molto bene una storia che il coaching staff ha invece dimostrato di non conoscere, o di aver male interpretato, studiando un piano di gioco del tutto errato privilegiando i lanci sulle corse, lasciando l’arma più importante dell’attacco, Shady McCoy, a 7 misere portate. Buffalo non ha guadagnato un solo primo down per tutta la prima frazione di gioco lasciato sguarnita una difesa che ha continuato a fare rientro in campo con brevissime pause tra una serie e l’altra, parte dei motivi per cui Baltimore ha chiuso la contesa con un desolante +44, il secondo più alto differenziale nel punteggio mai subìto dai Bills nella loro storia.

La conseguenza è stata naturale, dopo uno 0.0 di punteggio rating e 24 yard di produzione totale a Peterman è stata risparmiata un’inutile prosecuzione della sua esperienza in campo affrettando troppo i tempi di Josh Allen, che si sa essere molto dotato di talento (quel braccio è davvero potente) ma anche poco preparato per giocare così presto tra i professionisti. Il problema, oltre che un presente che si addensa di pressione per coach McDermott dopo una sola uscita, è il futuro: la carriera di Peterman parla di un 43% di completi, 2 passaggi vincenti, 7 intercetti, 4 yard di media per completo ed un 1-4 di record, statistiche che non possono far pensare ad un utilizzo più di tanto esteso, pena l’accumulo – che ci pare comunque inevitabile – di dolorose sconfitte proprio ora che il paziente pubblico di Buffalo aveva appena visto una timida luce in fondo ad un tunnel infinito. Quindi la sola alternativa è proprio Allen, lo stesso giocatore che non si voleva gettare in mezzo ai lupi per togliergli fiducia ed incidere negativamente sulla carriera, com’è già successo a tantissimi suoi colleghi.

Le prossime partite sono contro Chargers e Vikings: i primi sono quelli dei 54 punti dello scorso anno, i secondi schierano una delle tre migliori difese della Nfl.

Auguri…

5) I BROWNS HANNO ANCORA TANTA STRADA DA FARE, MA I SEGNALI SONO BUONI

Eh sì, molto di noi saranno tentati di etichettarli come i same ol’ Browns, e l’epilogo del confronto con gli Steelers non può che dare ragione. I mitici Marroni di vincere non ne vogliono proprio sapere e le dinamiche delle occasioni sprecate domenica somigliano tanto allo spettacolo andato in scena durante la perfect season al contrario targata 2017, il fatto positivo è che non hanno perso e che la squadra ha dimostrato carattere nell’uscire da una situazione che pareva già segnata in maniera profonda, riscrivendo una storia che a Cleveland hanno già letto troppe volte.

Se dunque la cattiva notizia è raffigurata dal field goal bloccato dal gigantesco T.J. Watt, episodio che ha tolto l’effetto del break difensivo favorevole ai Browns evitando di coronare una rimonta contro degli Steelers che hanno più volte pasteggiato negli scontri diretti più recenti (6 sconfitte consecutive contro di loro, ed ultima vittoria nel 2014), quella buona è fornita da un cambio di atteggiamento rispetto all’arrendevolezza testimoniata più volte dai risultati dello scorso anno, che comprendono pure la famosa rimonta concessa ai Green Bay Packers poi concretizzata al supplementare, una situazione inversa rispetto allo svantaggio recuperato nei confronti di Pittsburgh ma del tutto uguale nell’esito della gestione della gara nel momento decisivo.

L’impressione è che i Browns possano schierare quantomeno una difesa competitiva e giovane, che vede l’astro nascente Myles Garrett pronto a consacrarsi con tanto di biglietto d’auguri per chi dovrà fermarlo nel corso di un’intera partita, che ha visto un ottimo inizio da parte del rookie locale Denzel Ward, firmatario di due intercetti, formando un reparto andato a forzare ben cinque turnover a Big Ben e compagni, un numero con cui normalmente la partita la si dovrebbe vincere. Magari questo accadrà più avanti, ci sentiremmo di dire che accadrà sicuramente e che accadrà più spesso di quanto si creda, questo grazie anche all’esperienza di Tyrod Taylor, alle possibili giocate di Jarvis Landry, ai lampi di talento di Josh Gordon, ed in generale ad una fiducia nei propri mezzi che sembra migliorata rispetto al disastro dell’anno passato.

6) ANDREW LUCK HA RIPRESO DA DOVE AVEVA LASCIATO…PIU’ DI 600 GIORNI FA

Vederlo nuovamente in campo dopo tutto questo tempo è stato davvero emozionante, Andrew Luck è stato (e sarà) uno dei grandi protagonisti di quest’epoca Nfl ed ora tutto è pronto per permettergli di riprendere la corsa esattamente dove l’aveva lasciata tanto tempo fa, eliminando l’alone di dubbio che i Colts avevano incontrato in maniera sinistramente simile a quanto vissuto all’epoca di Peyton Manning e di quei numerosi tentativi di rimettere in sesto un collo seriamente danneggiato.

Per Luck non si tratta di collo ma di spalla, che fisicamente ha risposto molto bene ai 53 lanci che Andrew si è sobbarcato in questa prima uscita stagionale. Un’infinità di lavoro che ha aumentato le possibilità di ricevere colpi pericolosi, certo, ma d’altro canto non è che i Colts godano di tutte queste alternative visto l’asfittico backfield già privo di Marlon Mack ed in ogni caso punto di debolezza del reparto offensivo, lasciando di conseguenza una grossa quantità di responsabilità al gioco aereo. Il quarterback dei Colts avrà certamente desiderato di far tornare indietro qualche lancio non perfetto, come ad esempio l’intercetto rimediato nelle fasi iniziali della partita, episodio dopo il quale Luck è apparso esattamente se stesso, sbagliando pochissimo e conducendo per larghi tratti una gara che gli aveva fornito la possibilità di mettere in atto una delle sue specialità, la vittoria in rimonta.

Al di là del risultato finale e della prodezza di Clayton Fejedelem ai danni di Jack Doyle per la segnatura decisiva a favore dei Bengals, rimane una gradevole sensazione per aver assistito a quello che a tutti gli effetti è il recupero a tempo pieno di una star della Lega il cui futuro era divenuto assai nebuloso, con nodi da sciogliere nei confronti del prosieguo di una carriera che per tanti di questi ragazzi rappresenta il traguardo del lavoro di una vita. I Colts hanno certamente molti problemi da risolvere prima di poter presentare un roster competitivo, ma dopo più di 600 giorni il primo tassello – quello più importante – è già stato inserito con successo.

Bentornato!

7) IL LIVELLO DI PREPARAZIONE DEI CARDINALS E’ MOLTO BASSO

Domenica i Cardinals parevano non sapere precisamente né dove si trovassero né quali compiti dovessero esattamente svolgere per contrastare i Redskins, un’impressione propagata già dai primissimi drive della partita. C’è un dazio da pagare, è noto, quando una squadra presenta così tante novità in un sol colpo e l’allenatore per giunta riveste il ruolo di capo per la prima volta in carriera, l’inesperienza è pur sempre un qualcosa con cui fare i dovuti conti, ed ognuno ha i suoi tempi.

Nel deserto non si è vista tuttavia una squadra in grado di eseguire la più semplice delle azioni, né in attacco, né in difesa, destando quindi forti segnali di preoccupazione. Le chiamate sono state più che conservative, passaggi corti con Sam Bradford davvero in difficoltà nel reperire lo straccio di un ricevitore, i drive sono risultati essere di durata assai inferiore a quanto previsto, ed un primo tempo chiuso con nessun punto a referto è stato il perfetto specchio di un attacco confuso e confusionario, che pareva mettere in mano il pallone ad un David Johnson inizialmente produttivo sperando che il medesimo facesse accadere qualcosa.

La difesa è stata manovrata ad arte da Alex Smith, abile nello scovare gli spazi liberi dati dalle rotazioni dei safety creando i giusti spazi per permettere al ricevitore di turno di alimentare i drive anche in circostanza di terzo e lungo, ma soprattutto il reparto nulla ha compreso di Chris Thompson – 128 yard dallo scrimmage – l’unica vera arma credibile dei Redskins versione 2017 prima dell’infortunio alla gamba, un quiz al quale i Cardinals hanno risposto in maniera quasi imbarazzante, come se non conoscessero questo importante dato fornito da qualsiasi filmato delle gare da egli giocate l’anno scorso.

Una mancata e adeguata preparazione della partita è la chiara testimonianza di tutte le discrepanze statistiche cresciute tra le due squadre coinvolte, come il +198 di differenziale tra le yard guadagnate dai Redskins rispetto agli avversari, le sole 15 portate su corsa chiamate da Arizona, ed un numero di primi down dimezzato. E’ solo la prima partita, ma nel deserto sembra che il coaching staff abbia ancora molta strada da fare.

8) I FALCONS NON HANNO RISOLTO I LORO PROBLEMI IN REDZONE

L’indicazione ce l’ha data in maniera cristallina il primo Thursday Night stagionale, che ha visto un epilogo entusiasmante all’interno di una partita giocata complessivamente male tanto da Atlanta quanto da Philadelphia. Trasportarsi problemi così evidenti da una stagione all’altra non è mai un buon segno, perché potrebbe significare l’aver lasciato da parte, o sottovalutato, un aspetto determinante in una preparazione dettagliata e minuziosa come quella richiesta dal football americano, dove il campo si trasforma in una scacchiera fatta di mosse e contromosse.

Se i Falcons vogliono tornare al Super Bowl – e l’allestimento del roster parrebbe suggerire parecchie positività d’intenti – non hanno scelta se non quella di aggiungere creatività al loro playbook all’interno delle ultime 20 yard, permettendo a Julio Jones, che da solo ha distrutto le secondarie degli Eagles eccetto che negli ultimi preziosi metri, di tornare a segnare con continuità. Le pecche di Atlanta impediscono alla squadra di pensare in grande: i ragazzi di Dan Quinn si sono misurati più che adeguatamente contro i campioni in carica ed avrebbero potuto estrometterli dai playoff dello scorso campionato, non fosse per quel finale di partita sempre uguale, che pare così immutabile da diventare frustrante. Il copione è sempre lo stesso, poche yard da percorrere, tanti tentativi a disposizione, la partita in bilico al termine del quarto periodo: in entrambi i casi, nulla di fatto.

Il reparto offensivo è pieno di stelle luminescenti che non vengono messe in condizione di eccellere. Gli schemi chiamati sono del tutto simili, e sono diventati prevedibili. Il personale è lo stesso di quando l’offensive coordinator era Kyle Shanahan, ma la resa è completamente differente in termini di punti, che in questi casi conta in maniera essenziale, perché la produttività i Falcons la possiedono ancor oggi, ma alla fine vince sempre chi segna più del suo avversario, magari prendendosi il definitivo vantaggio quando il conto alla rovescia sta per scadere, e tutto pesa di più rispetto ad altre situazioni.

La responsabilità, oltre che delle chiamate di Steve Sarkisian, non può che ricadere su Dan Quinn, se non altro in qualità di supervisore di tutti gli aspetti che riguardano la sua squadra. Continuare in questo modo significa sprecare un insieme di talenti che ha portato i Falcons ad una rimonta subìta dal vincere un Super Bowl, ma poi gli anni passano, i giocatori invecchiano o si fanno male, e la finestra d’opportunità si chiude irrimediabilmente. Quella dei Falcons sbarrata non è, ma continuando in questo modo è destinata a chiudersi presto.

9) LE STRADE DI BELL E PITTSBURGH SI DIVIDERANNO PRESTO

Accadrà inevitabilmente, ed è intuibile anche senza affittare una macchina del tempo e proiettarsi alla prima data utile della free agency del 2019, momento nel quale Le’Veon Bell otterrà il contratto che desidera dalla sua nuova futura squadra. Facile sommare una cosa ad un’altra analizzando l’ottima prestazione fornita da James Conner, ma non è questo l’unico fattore a convincerci di ciò che sosteniamo.

E’ noto, ed i media non hanno mancato di farlo sapere, che l’atteggiamento di Bell non l’abbia aiutato nel rientrare nelle grazie di più di qualche compagno di squadra, qualcuno del quale si è pubblicamente espresso manifestando disappunto, rendendo il possibile rientro nei ranghi qualcosa di non esattamente semplice. Il valore del running back da Michigan State è indubbio, in passato è stata tuttavia dubbia la sua maturità e probabilmente la cosa può perfettamente essere discutibile anche oggi, data l’ostilità visibile nel comportamento e nelle decisioni prese dinanzi alla questione della mancata firma del franchise tag annuale, una situazione certamente scomoda per un giocatore così tanto utilizzato nel corso della stagione che teme – correttamente – di veder scendere il proprio valore in ottica del prossimo contratto, quando le yard percorse saranno tante più di quanto già non lo sono adesso, con tutte le conseguenze del caso nei ragionamenti espressi dai general manager di ciascuna franchigia.

Vero anche che il tag – si parla di 14.5 milioni di verdoni per un anno – non rappresenta esattamente un insieme di briciole, discorso che innesca tutta una serie di intersezioni pericolose all’interno delle dinamiche di squadra, perché se ognuno, in primis chi si fa il mazzo per portare i blocchi utili a Bell, si travestisse da ragioniere per un giorno, qualsiasi spogliatoio rischierebbe di scoppiare. Certo, Conner fa parte dell’insieme e le sue prestazioni sono un rischio che il buon Le’Veon, da solo o attraverso il suo agente (più probabile la seconda ipotesi) avrà pur calcolato, perché più il backup giocherà bene, meno gli Steelers sentiranno la necessità di reintegrare Bell in tutta fretta, lasciando peraltro intatti gli equilibri di gruppo, un fattore che nel football ha un peso specifico enorme.

Ovvio, magari Bell tornerà la prossima settimana e giocherà da fenomeno come lui e pochi altri sanno fare, ma la dirigenza degli Steelers avrà se non altro un maggior potere contrattuale rispetto ad una settimana fa ora che Conner, alla sua prima apparizione stagionale, ha fatto registrare un numero di yard dallo scrimmage superiore ad ogni sommatoria messa assieme da Bell in un 2017 con sole quattro partite terminate oltre le 100 yard su corsa, e continuando così le cose la squadra potrebbe già aver trovato un suo degno sostituto sentendosi meno pesante nel rivolgergli il saluto definitivo. E Conner, altra considerazione importante, sarà determinante anche con Bell presente, dato che in vista del nuovo contratto del numero 26, il medesimo non desidererà vedersi caricati chissà quanti snap sulle gambe.

10) SAM DARNOLD HA CARATTERE DA VENDERE

I Jets hanno cominciato la stagione nel migliore dei modi, ottenendo un’inaspettata e sonante vittoria ai danni di Matt Patricia – sperando di non essere l’ennesimo head coach stregato dalla maledizione Belihick – e dei Detroit Lions, irriconoscibili rispetto all’anno scorso. Sam Darnold esordiva con un peso notevole, quello di giocare per una piazza come New York, sempre bollente e peraltro mercato mediatico gigantesco come nessun altro, nonché il partire da titolare a 21 anni e 97 giorni, il più giovane quarterback di ogni epoca mai visto su un campo di gioco Nfl alla prima settimana di ostilità. A ciò aggiungiamo il suo primo lancio professionistico, terminato direttamente nelle mani di Quandre Diggs e conseguentemente riportato in meta, un’iscrizione nei libri di storia di cui non andare orgogliosi dalla quale il rookie da Usc si è ripreso con fulminea rapidità.

Chi ha osservato da vicino i bianco-verdi durante la preparazione estiva non aveva mancato di far notare l’estrema durezza mentale di un rookie molto più avanti di quanto riportato dalla carta d’identità, un aspetto caratteriale confermato tra le mura di un Ford Field ove Darnold ha premuto i tasti control+alt+canc nella sua personale tastiera cerebrale, eseguendo l’esercizio che viene richiesto a qualsiasi quarterback sin da ragazzino, dimenticare immediatamente l’errore commesso per quanto costoso questo possa rivelarsi. Dopo l’episodio ha difatti giocato una partita complessivamente solidissima, magari aiutata dalle 4.7 yard di media portate a casa dal backfield con la generosa collaborazione della difesa dei Lions, ma in ogni caso sbagliando solamente quattro passaggi in tutto il resto del confronto mantenendo una calma glaciale quando invece sarebbe potuto sprofondare nella sfiducia tipica di qualunque coetaneo gettato così presto davanti agli occhi della ribalta pro.

I Jets hanno segnato in tutti i modi, attacco, difesa e special team, hanno provocato una marea di turnover favorendo la gestione dei possessi e togliendo pressione al quarterback, ma l’attitudine mostrata da Darnold è risultata senza dubbio esemplare. E’ stata una circostanza ideale pur nella sua negatività, in quanto la reazione ha mostrato sul campo proprio tutto ciò che Todd Bowles ed il suo staff avevano intuito: Darnold, dopo l’episodio specifico, ha condotto tre drive a punti consentendo a New York di metterne 17 consecutivi a referto prima di lanciare i primi due passaggi vincenti della sua giovanissima carriera, mostrando abilità nello spostare i difensori consentendo al ricevitore di guadagnare un passo e gettando interessanti premesse per un ruolo dove i Jets sono sguarniti ormai da una vita, un’infusione di ottimismo di cui l’ambiente aveva proprio bisogno.

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