La coincidenza del primo grave infortunio della sua carriera professionistica ha lasciato a Joe Thomas molto tempo per riflettere sul suo futuro Nfl, lasso di tempo dove si sono sommate numerose considerazioni che hanno portato nei giorni appena trascorsi all’annuncio ufficiale del ritiro dell’unica persona in grado di rappresentare stabilità per i Cleveland Browns dal 1999 – anno di “rinascita” della franchigia dopo il tiro mancino di Art Modell – ad oggi.

Thomas rappresenta uno di quei giocatori pienamente meritevoli di spazio ed attenzione, seppure lui non abbia mai badato troppo a tali faccende. E’ difatti ancora fresco il ricordo di quell’oramai lontano Draft del 2007, nella quale venne selezionato dai Browns alla posizione numero tre assoluta, una chiamata che Joe festeggiò mentre si trovava in barca con il padre mentre svolgeva una delle attività di famiglia preferite, la pesca, chiara dimostrazione del fatto che il ragazzo non era poi così interessato ad atteggiarsi alla maniera della prossima grande cosa attesa dalla Nfl come tanti altri suoi colleghi hanno fatto in passato e faranno in futuro, una decisione del tutto coerente all’attitudine mostrata negli undici campionati trascorsi a difendere il lato cieco degli innumerevoli quarterback che hanno vestito l’uniforme di Cleveland, fornendo il massimo della sostanza senza alcuna ombra di apparenza.

La sua è stata una carriera esemplare, sia per la difficilmente pareggiabile costanza di rendimento che per il grande spessore morale dimostrato. Come spesso ci piace sottolineare, la gratitudine nei confronti di quanto offerto da un uomo di linea offensiva non dovrebbe mai mancare eppure passa sempre inosservata, sepolta dalla poca rilevanza visiva che riveste questo tipo di ruolo se paragonato ad un lancio spettacolare, ad una ricezione di 90 yard, alla spettacolarità di una corsa elettrizzante, ad una giocata difensiva in grado di cambiare l’inerzia di una partita. Quello della linea offensiva è un lavoro brutale, di enorme responsabilità e scarso riconoscimento, si lavora nell’ombra ricevendo spinte, colpi bassi e piccole violenze gratuite, la concentrazione deve sempre essere al massimo per evitare che il principale investimento della franchigia – il quarterback – possa subire infortuni gravi, i movimenti da ripetere per più azioni consecutive devono essere precisi ed infallibili, pena la sconfitta nella battaglia individuale contro il pass rusher di turno ed il conseguente apporto di negatività nelle sorti di squadra.

Joe Thomas è stato una vera e propria roccia sotto tutti i punti di vista. Basta semplicemente fermarsi a riflettere su cosa significhi giocare consecutivamente più di 10.000 snap di carriera, fornendo una longevità concessa a pochi in uno sport di estremo contatto in una posizione che richiede un sottovalutato lavoro coordinazione di piedi e gambe, un enorme sacrificio di ginocchia, una combinazione tra sostegno del proprio peso, forza bruta e tasso atletico determinante per respingere difensori sempre più rapidi ed attrezzati per varcare il confine che può spalancare le porte verso l’atterramento del quarterback, il premio più ambito da defensive end e outside linebacker. Tale confine Thomas l’ha difeso erigendosi a fortezza inespugnabile, eccellendo in quel determinante numero atto a giudicare il grado di efficacia per il suo ruolo, quello dei sack concessi, solamente trenta in tutta la carriera, terminando ben 130 partite delle 167 disputate con una protezione perfetta del suo regista offensivo.

Sono numeri che polverizzano sin d’ora qualsiasi dubbio, decretando automaticamente il fatto che Joe Thomas vedrà il suo busto raffigurato nella Hall Of Fame a cinque anni da oggi, alla prima occasione di eleggibilità, cementando la sua appartenenza al gruppo di dieci, forse cinque, migliori tackle offensivi che abbiano mai calcato un rettangolo verde numerato. Il lavoro duro e sporco svolto dal 2007 ad oggi, dunque, resterà commemorato per sempre a Canton, in Ohio, ad un centinaio di chilometri scarso dalla città che ha goduto dell’onore di vedere da vicino le sue gesta.

Il suo lascito non può essere ridotto a statistica, il suo valore cresce ulteriormente d’importanza se considerato il suo aspetto morale. Giocatore tutto d’un pezzo ma pure uomo inflessibile a livello caratteriale, mai attratto dalle numerose sirene che avrebbero certificato falsità assortite pur di offrirgli una strada accorciata verso il Super Bowl, vedendosi rispdeire al mittente qualsiasi tentazione. Joe Thomas ha sempre giocato per la sua Cleveland, la prima ed unica città che ha rappresentato a livello Nfl, nonostante di quelle 167 gare ne abbia vinte solo 48, senza mai assaporare l’atmosfera irripetibile dei playoff, senza mai sognare lontanamente la partecipazione ad un Super Bowl.

Mai un’uscita dalle righe, mai una lamentela pubblica, solo tanto orgoglio di rappresentare con dignità una franchigia i cui successi sono ormai nascosti dalle sabbie del tempo, e tanta riconoscenza nell’ammettere di essere un privilegiato, in grado di guadagnarsi da vivere attraverso la sua grande passione, grato di poter scendere in campo ogni domenica per far passare una giornata diversa a chi deve invece affrontare tutti i giorni un lavoro vero. Joe Thomas avrebbe potuto prendere tante iniziative egoistiche, ma non lo ha mai fatto. Vedendosi a fine carriera, dopo aver dato così tanto ai Browns, avrebbe potuto chiedere loro il favore di essere svincolato o scambiato per poter approdare alla New England di turno, giocando al gioco che tanto piace ai procuratori e alle franchigie vincenti, che riescono ad attrarre giocatori come Thomas proprio grazie alle maggiori possibilità di fare strada nei playoff, approfittando della chiusura sistematica della finestra d’opportunità di un determinato giocatore.

Eppure lui è rimasto al suo posto, mandando giù una sconfitta dopo l’altra, lottando ogni domenica, digerendo tutta l’instabilità di una franchigia che ha vinto quattro partite nelle ultime tre stagioni, facendo un passo indietro solamente dinanzi al salato conto che gli ha presentato il suo stesso fisico sotto forma dello strappo al tricipite che ne ha determinato la prima presenza di sempre in injured reserve, che si è poi rivelata essere anche l’ultima. Thomas ha stretto i denti finché è riuscito a farlo, sopportando l’ingestione di forti medicinali, il continuo dolore osseo a ginocchia e schiena, plurimi interventi di pulizia articolare, numerosi strappi a muscoli e legamenti.

Nonostante questo, il suo livello di eccellenza non si è mai abbassato.

Il suo è un esempio profondo, che deve servire a contrasto dell’eccessiva superficialità con cui vengono giostrati i giudizi in un mondo dove la misura della grandezza odierna è data dalle chiamate al Pro Bowl (magari in sostituzione di chi non ha voglia di giocarlo), quando invece dovremmo abituare nuovamente la mente a cercare quel qualcosa di unico che il destino ci permette di assaporare solo una volta o due per ciascuna generazione.

L’eredità che Joe Thomas lascia a giocatori, addetti ed appassionati, crediamo possa essere racchiusa proprio qui.

 

3 thoughts on “La grande eredità di Joe Thomas

  1. Articolo bellissimo, a tratti commovente, standing ovation per Joe Thomas (che nei miei Seahawks lo avrei visto benissimo)!

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.