1) PHILADELPHIA E CAROLINA POTREBBERO RITROVARSI STRADA FACENDO

In un raro Thursday Night in grado di opporre due contendenti di qualità, Eagles e Panthers hanno ampiamente dimostrato di poter rappresentare quanto di meglio la Nfc abbia da offrire. E’ stata una partita magari non spettacolare, ma il livello di gioco espresso dalle compagini e lo svolgimento delle vicende di gara sono stati elementi degni di un confronto di livello postseason, generando una partita molto combattuta, ben difesa da ambo le parti nonostante le note potenzialità offensive dell’una e dell’altra squadra, un contesto dove l’ha spuntata chi ha sbagliato meno. Proprio come accade nel mese di gennaio.

Non devono ingannare difatti le statistiche che, come sempre, svelano solamente aspetti parziali. A prima vista la partita di Carson Wentz parrebbe essere stata condotta in porto in condizioni di assoluta normalità, ma le 222 yard con 3 mete a corredo – che vanno ad evidenziare in ogni caso l’ennesima ottima prova del giovane quarterback rampante di Phila – sono state ottenute con sudore e botte da orbi, nonché con un 53% di completi che fornisce una migliore idea della fatica fatta per conseguire il risultato. Nonostante gli Eagles abbiano corso nettamente meglio per quanto riguarda i giocatori prettamente di ruolo (LeGarrette Blount ha portato a casa 4.7 yard di media, mentre i Panthers si sono dovuti affidare al solito grande Newton, responsabile di 71 delle 80 yard totali guadagnate a terra), i turnover sono stati determinanti. Due dei tre intercetti di Cam – comunque non responsabile degli stessi – hanno difatti avuto luogo all’interno delle proprie 20 yard ed hanno portato a segnature avversarie pesanti nell’economia del punteggio finale, andando a generare entrambe le mete realizzate da un puntualissimo Zach Ertz ed una conversione da due punti trasformata da Blount, variando l’andamento di una gara molto equilibrata e certamente intaccata dall’uscita dal campo di Luke Kuechly, corresponsabile di una performance difensiva corale di alto livello.

La partita è rimasta impressa proprio per l’essere stata determinata dai dettagli, da piccole variabili che avrebbero potuto influenzare differentemente gli eventi, e per come ambedue le contendenti siano riuscite per alcuni tratti a mettere l’altra fuori dalla propria zona di agio, facendo funzionare le rispettive qualità migliori senza tuttavia prendere un ritmo ben definito. E’ una situazione destinata a formarsi quando due compagini sono particolarmente ben allestite dal punto di vista difensivo, creando circostanze poco spettacolari nonostante la presenza di squadre potenzialmente spettacolari, il che ci ha tanto ricordato il clima dei playoff. Al di là dei bilanci positivi a livello di classifica, Philadelphia e Carolina hanno espresso molto che ci possa indicare una loro presenza in postseason, e potrebbero essere destinate ad incontrarsi di nuovo: se i fattori visti in campo dovessero trasportarsi più in là nella stagione, potremmo assistere ad un’altra gara combattuta nel segno dell’incertezza, con poste in palio ben più alte di questa.

2) LO 0-6 DEI 49ERS E’ UNA QUESTIONE DI MATURITA’ E TALENTO

Lo sosteniamo perché vorremmo differenziare di netto la qualità dello 0-6 dei 49ers rispetto (prendiamo una franchigia a caso…) a quello dei Cleveland Browns. Se questi ultimi, nonostante tutti ci aspettassimo qualcosa di meglio, sono il solito caso disperato, riguardo San Francisco c’è difatti un minimo di progresso, anche se tasso di talento e maturità dei singoli componenti sono ancora da discutere approfonditamente.

Molti addetti ai lavori hanno già fatto notare gli scarti minimi con cui i Niners hanno racimolato sconfitte, un chiaro segno che se non altro hanno provato a lottare fino all’ultimo minuto. Escludendo al momento solamente l’opener contro Seattle, chiuso a meno venti, la franchigia californiana ha incassato quattro sconfitte consecutive per tre punti – di cui due al supplementare – ed una battuta d’arresto con sole due lunghezze di differenza. Per quanto frustrante la situazione possa essere per Kyle Shanahan – che con due o tre vittorie in più a carico non avrebbe fatto recriminare nessuno – lo stato attuale delle cose può essere visto come un segnale positivo che realtà come Cleveland, ad esempio, da anni non riescono a fornire.

Azzerare le proprie possibilità di vittoria per migliorare l’esperienza in chiave futura non è detto sia una cattiva mossa se si lavora per costruire con cognizione di causa seguendo una logica progressione, per cui arrivare vicinissimi a portarsi a casa cinque partite consecutive non dev’essere visto come un qualcosa di negativo se questo significa creare opportunità di crescita immediata a giovanissimi come George Kittle, Solomon Thomas, Trent Taylor e Matt Breida, le cui prestazioni saranno di chiara indicazione per capire su chi scommettere l’anno prossimo o tra due anni creando un nucleo compatto ora, oppure se significa dover salutare una colonna come Na’Vorro Bowman, l’ultimo ricordo dei bei tempi andati, per fare spazio alle matricole.

Gli errori dati dall’inesperienza sono certamente tanti e determinanti nel non aver vinto più di qualche gara, ma tutto quello per cui si soffre oggi presto di trasformerà in un anno di esperienza in più, peraltro consentendo di mettere alla prova giocatori come C.J. Beathard in un ruolo delicato e con risultati che paiono già migliori anni luce rispetto a quanto di poco offerto da Bryan Hoyer, aggiungendo al contesto il fatto che la franchigia beneficerà di una scelta alta da dedicare all’innalzamento del tasso di talento che serve per tornare alla rilevanza.

3) I SAINTS NON HANNO LA MIGLIOR DIFESA DELLA LEGA, MA I SEGNALI SONO INTERESSANTI

I Saints delle più recenti edizioni sono conosciuti per lo storicamente possente attacco mal bilanciato da una difesa in grado di elargire con generosità yard e punti a chiunque. Non che il reparto difensivo si sia radicalmente trasformato dall’oggi al domani, la tendenza a concedere yard su passaggio non è certo passata di moda, tuttavia è corretto ripartire i meriti in maniera equa sottolineando come le chiamate del coordinatore Dennis Allen abbiano inciso positivamente sulle ultime due vittorie di New Orleans, tornata finalmente sopra il 50% di vittorie dopo lunghi tempi.

Quanto combinato domenica contro i Lions rappresenta un qualcosa di fuori dall’ordinario, anche se la singolarità dell’occasione e la scarsissima probabilità che uno spettacolo del genere si ripeta non rappresentano gli elementi strettamente necessari per un corretto metro di valutazione. Magari i Saints sono destinati a non emergere più di tanto dai bassifondi statistici dove risiedono oramai da parecchio, ma la difesa ha certamente imparato ad effettuare giocate determinanti, un ottimo espediente per mascherare le vere lacune di squadra. I tre touchdown difensivi messi a segno domenica rappresentano un risultato eclatante se paragonato all’unica misera meta segnata dal reparto nei cinque anni precedenti, e se la squadra è riuscita a portare a casa la vittoria lo deve comunque al proprio punto debole, che grazie ai singoli episodi è riuscito a scongiurare l’ennesima rimonta inscenata da Matthew Stafford.

Leggere 52 punti a referto con sole 186 yard lanciate da Drew Brees non è certo roba di tutti i giorni, ed ancora più impressionante è il fatto che questa performance sia solamente il seguito di una striscia vincente iniziata bastonando letteralmente i Panthers, tenuti a 13 punti, e lasciando all’asciutto il pur pessimo attacco di Miami un momento prima della bye week. I segnali di crescita ci sono ed intrigano, Cameron Jordan sta giocando in maniera dominante affermandosi sempre più leader di tutto il reparto, Marshon Lattimore si sta rivelando una prima scelta azzeccatissima per le esigenze di squadra grazie alla giocate che produce con incredibile continuità, aiutando le retrovie a trovare un minimo di stabilità grazie anche alla collaborazione di giocatori usciti dal nulla come Ken Crawley, altro pezzo importante del meccanismo.

Aggiungiamo al quadretto le 200 yard percorse da Ingram e Kamara e troviamo dei Saints forse snaturati, ma che si stanno ricordando come si mettono assieme strisce vincenti che a fine stagione fanno la differenza tra lo scendere in campo a gennaio ed il restare comodamente seduti in divano a guardare gli altri con rabbia ed invidia.

4) LA TRADE DI PETERSON E’ UNA BOCCATA D’ARIA PER TUTTE LE PARTI COINVOLTE

E’ stato uno dei casi più scomodi di questo periodo, e si è finalmente risolto positivamente per tutti. Adrian Peterson ha lasciato definitivamente alle spalle la brutta esperienza di New Orleans nella quale aveva fatto la figura del grande campione dimenticato da tutti, in una situazione tattica che si sapeva a priori non rappresentare il meglio per le sue caratteristiche e colmando un vuoto sconquassante proprio nel momento di maggior bisogno dei Cardinals.

Ci fa enorme piacere per una futura leggenda come All Day che il medesimo sia riuscito a dimostrare di non essere bollito e di poter variare in maniera significativa i destini di una squadra che ha già toccato il vertice del proprio potenziale due stagioni fa, e che sta disperatamente remando controcorrente cercando di sopravvivere all’età che avanza nei ruoli chiave dell’attacco, senza dimenticare del sormontarsi degli infortuni che hanno tolto di mezzo la superstar indiscussa del pacchetto, David Johnson. Peterson ha dimostrato di poter essere ancora determinante, e la sua presenza innesca una serie di meccanismi molto interessanti per Arizona, tristemente ultima in tutte le statistiche più importanti riservate al gioco di corse, perché grazie alla consistenza mostrata domenica contro Tampa Bay può tornare a far concentrare tutte le attenzioni si di sé risolvendo gran parte dei problemi che hanno afflitto Carson Palmer fino a questo momento.

D’ora in avanti questo non è più un attacco prevedibile e comodamente difendibile facendo attenzione a pochi dettagli, perché se Peterson può ancora permettersi di correre 26 volte in singola gara racimolando numeri di prima fascia (134 yard, due mete) significa che Palmer può vedere dimezzato il suo gravoso impegno in fase di passaggio, come effettivamente è accaduto domenica garantendo un attacco maggiormente bilanciato, ed affaticando meno un braccio non più giovane come un tempo. Ora la situazione si fa divertente e le quotazioni dei Cardinals, per quanti siano ancora i problemi in carico a Bruce Arians, sono destinate a salire grazie all’impatto di un futuro Hall Of Famer passato nel giro di qualche giorno dall’essere stato utilizzato meno di Alvin Kamara, al tornare prepotentemente in auge.

Arizona, a quota 3-3, non è distante dall’attuale tonnara di squadre appena meglio posizionate, e se Peterson riuscisse a diventare la variabile impazzita il quadro complessivo della Nfc potrebbe vivere delle settimane elettrizzanti.

5) L’INFORTUNIO DI AARON RODGERS E’ DETERMINANTE PER LA CORSA AL SUPER BOWL

Ovvio che scritta così pare una banalità enorme, tuttavia vorremmo porre la questione sotto un’ottica differente. E’ perfettamente intuibile che l’infortunio di Rodgers, del quale si potranno eseguire valutazioni più corrette solo dopo l’intervento chirurgico che lo attende a breve – levi automaticamente Green Bay dall’equazione playoff della Nfc, a maggior ragione se Brett Hundley dovesse offrire altre prestazioni povere analogamente a quanto mostrato domenica, con l’aggravante dei numerosi problemi fisici che stanno affliggendo due pezzi fondamentali del reparto offensivo come David Bakhtiari e Bryan Bulaga e la scarsa profondità di tutta la linea offensiva, decimata dalle presenze in infermeria.

Nulla è impossibile a Green Bay e ce lo insegna il precedente infortunio alla clavicola che Rodgers subì cinque stagioni fa, salvo ricordare che la spalla coinvolta non era quella collegata al braccio con cui lancia e che intervennero differenti dinamiche – su tutte l’inspiegabile crollo dei Lions al foto finish – a permettere alla squadra di guadagnare comunque lo scettro divisionale. L’effetto più significativo potrebbe tuttavia riguardare le altre squadre più che Green Bay, perché va considerato il forte momento di confusione che la Nfl tutta sta attraversando senza fornire una chiara indicazione su chi sia il più forte.

Naturale che certe considerazioni saranno maggiormente precise una volta che avremo visto Brett Hundley all’opera per un congruo numero di esibizioni, resta però più che presumibile il fatto che l’attacco non paia destinato a segnare come prima per motivi fin troppo logici, cui si aggiunge la mancanza di un gioco di corse affidabile al punto da togliere sistematicamente la pressione da un quarterback che in nemmeno quattro periodi completi di gioco ha commesso quattro turnover. E’ un fattore che rimescola le carte nella Nfc North come nella Conference tutta, favorendo a questo punto la consistenza di Minnesota e rimettendo in discussione le possibilità dell’ondivaga Detroit, ma soprattutto fornendo nuove speranze alle otto squadre della Nfc che attualmente detengono due o tre sconfitte, il che dovrebbe fornire un indizio o due sull’importanza che Rodgers possiede non solo nel determinare i destini della sua squadra, ma anche quello delle concorrenti.

6) I FALCONS RISENTONO FORTEMENTE DEL “SUPER BOWL HANGOVER”

Gli effetti post-Super Bowl potevano essere deleteri per i Falcons nonostante le dichiarazioni dei singoli, era un qualcosa di completamente comprensibile e preventivabile, uno shock sportivo da cui è difficilissimo riprendersi. Lo svolgimento della presente stagione ne sta fornendo conferma, facendo intuire che Atlanta non parrebbe possedere il cosiddetto killer instinct in dote ai più grandi campioni, e che sarebbe questo il motivo dietro al mancato successo dello scorso febbraio nonché il problema che sta penalizzando ancora oggi la squadra di Dan Quinn.

La gara inopinatamente persa contro Miami non ne è che la conferma. I Falcons restano una squadra dalla doppia faccia in grado di dominare tanto quanto farsi dominare, avanti per 17-0 nel primo tempo solo per non riuscire a fornire alcuna risposta ai 20 punti inanellati dal moribondo attacco dei Dolphins nel secondo tempo, un reparto esclusivamente sostenuto dalle evoluzioni di Jay Ajayi ed in perenne difficoltà nel muovere il pallone, come avvalorato dai soli quattro passaggi completati da Cutler per distanze superiori alle 10 yard. E’ un tratto caratteriale che i finalisti dello scorso anno si stanno pericolosamente trascinando mettendo loro stessi in crisi di fiducia, il che non depone a favore di una possibile ripetizione dell’entusiasmante corsa della postseason passata.

Non sempre ciò ha causato grossi danni alla squadra, ma delinea in ogni caso un trend: i Falcons possono essere rimontati a piacere. Atlanta ha scampato il pericolo in occasione dell’opener contro Chicago, una gara da non mettere nemmeno in discussione vista la differenza nei valori in campo ma che tutti ricordano per i tentativi sprecati da Mike Glennon e soci nel forzare l’overtime con un ghiotto posizionamento sulle 5 yard dei Falcons, così come contro i Lions, tenuti in gabbia per miracolo nonostante il 17-6 di vantaggio ad un paio di minuti dalla conclusione del primo tempo. I numerosi turnover combinati da Matt Ryan con la collaborazione dei destinatari dei suoi passaggi (tanti palloni alzati, altrettanti drop, troppi pick-six) non sono d’aiuto alla causa, e l’idea che ci fornisce Atlanta in questo preciso momento è che per ripetersi nella Nfc sia necessario molto più di questo.

Quale miglior occasione, proprio domenica, del rematch del Super Bowl per dimostrare qualcosa?

7) TAMPA BAY NON STA CAVALCANDO L’ONDA DEL 2016

Possiamo voltare la questione in ogni possibile modo, ma da un anno all’altro sono troppi i fattori che possono intervenire nel mutare significativamente una squadra di football americano. Per questo motivo non sempre le previsioni si rivelano azzeccate quando si cerca di proiettare il possibile bilancio di una franchigia da una stagione all’altra basandosi sul ritmo con cui una determinata squadra ha terminato un campionato, perché i giocatori cambiano, le dinamiche sono differenti, si accumulano infortuni indesiderati e quant’altro.

Ragionando con una mera logica di progresso, i Buccaneers, per età e punti chiave della squadra, dovevano essere una compagine da playoff ed attualmente le indicazioni ci suggeriscono che non lo sono, per quanto bene abbiano costruito partendo dalle cinque vittorie consecutive con cui avevano chiuso il 2016, perdendo la postseason per un letterale soffio. Finora i Bucs, fermi a quota 2-3 in una Division che vede inopportunamente risalire le quotazioni dei Saints e che contiene due squadre capaci di arrivare recentemente al Super Bowl, non hanno mostrato molto di convincente, perdendo di netto il confronto con i Vikings perdendo l’occasione di confrontarsi adeguatamente con una possibile concorrente Nfc, per poi vincere d’un soffio contro i derelitti Giants ed impensierire i Patriots, due considerazioni che difficilmente avremmo pensato di scrivere nella stessa riga.

Contro Arizona è arrivato invece il disastro completo, perché il 38-33 finale rappresenta quanto di più irreale un punteggio possa trasmettere. Non sembra un problema di produzione offensiva, perché i Bucs sono una squadra da 400 yard di total offense più o meno in qualsiasi circostanza, c’era l’attenuante dell’infortunio alla spalla di Jameis Winston e della conseguente entrata in campo di Ryan Fitzpatrick, di certo c’è che qualche turnover andrebbe tagliato e troppi sono stati i punti lasciati sul campo (colpa anche dei kicker…) dopo serie di giochi dove le catene si erano comunque mosse in modo soddisfacente. La difesa è stata travolta dalla furia di Adrian Peterson evidenziando un nervo scoperto, il concedere un numero esagerato di giocate superiori alle 10-15 yard, distrazioni temporanee che tuttavia possono creare voragini simili al 31-6 con cui Arizona aveva già chiuso la gara nel terzo quarto superando per la prima volta in stagione le 400 yard di produzione.

I problemi dei Buccaneers esistono e riguardano ambedue i lati del campo, e l’idea data dalle prime cinque esibizioni della squadra di Dirk Koetter è quella di un team non ancora in grado di costruire sull’onda della chiusura della regular season passata. La capacità di aggiustare le cose in corsa determinerà molto del futuro prossimo di questa compagine, che dovendo ancora iniziare il cammino interno alla Division ha ancora molte possibilità da giocarsi.

8) LA REAZIONE DEGLI STEELERS E’ DA VERI CAMPIONI, MA RESTANO I PROBLEMI INTERNI

Pittsburgh ha reagito proprio come doveva, da squadra di vera esperienza e dalla cultura vincente. Come dicevamo la settimana scorsa, umiliazioni come quella subita in casa dai Jaguars sono situazioni che possono fungere da spartiacque per un campionato giocato complessivamente ben al di sotto delle attese ma che tutto sommato non ha mai visto la squadra – questo per chiaro demerito degli altri – in serio pericolo per vedersi insidiata la prima piazza della Afc North, fattore che a livello psicologico potrebbe rappresentare una bella gatta da pelare per Mike Tomlin nel cercare di sbrogliare la matassa comprendendo l’effettiva qualità della squadra che si trova per le mani in questo preciso momento, e di dove mai possano arrivare degli Steelers che – come l’anno passato – stanno dimostrando molta discontinuità.

L’affermazione sul campo dei Kansas City Chiefs fa chiaramente chiasso, com’è giusto che sia quando l’ultima squadra imbattuta del campionato subisce uno stop peraltro in casa propria. La prestazione difensiva rappresenta ciò che resta maggiormente impresso di una domenica dove il presunto punto debole di Pittsburgh ha letteralmente annichilito il nuovo punto di forza del team di Andy Reid, creando una svolgimento di gara certamente imprevisto. Incredibile, dopo un filotto di prestazioni incredibilmente produttive, vedere Kareem Hunt fermo a 21 yard in 9 portate grazie alla puntuale occupazione di tutte le corsie disponibili da parte della lodevole linea difensiva degli Steelers ed alle giocate di Ryan Shazier, Vince Williams e compagni, una pressione che ha dato i propri frutti anche contro il pericoloso gioco profondo dei Chiefs, funzionato a dir poco a singhiozzo più per mancanza di opportunità che non per percentuale di riuscita.

Una prestazione degna di una squadra che lotta per le prime posizioni della Conference, che coincide felicemente con il graduale rientro in forma completa di un Le’Veon Bell pienamente capace di caricarsi l’attacco sulle spalle, che aveva richiesto a gran voce un utilizzo simile alle 32 portate con cui il piano partita lo ha coinvolto, segno che quando gira lui gli Steelers sono destinati a vincere. Nonostante il clamore per l’affermazione di gran portata, restano in ogni caso i dubbi di prima. Per poter considerare seriamente Pittsburgh come da previsioni pre-stagionali sarà necessario fornire prestazioni adeguate di domenica in domenica senza essere costretti a pensare a quale edizione di squadra ci si troverà davanti, ma più di ogni altra cosa conterà la gestione dello spogliatoio da parte di Tomlin, dato che un numero sempre crescente di situazioni sta manifestando segni di disagio a livello pubblico, creando distrazioni inutili e dannose. Bell ci ha già pensato in estate, Roethlisberger va su e giù con troppa frequenza, Brown chiede palloni con maggior frequenza ed ora – vere o non vere – si inseriscono le richieste di trade di Martavis Bryant.

Se ogni settimana sono destinati a sormontarsi problemi resta difficile concentrarsi sul football giocato, e questo è un aspetto che deve determinare le prospettive di Pittsburgh tanto quanto lo determinano vittorie di questo genere, costringendoci a giudicare gli Steelers con un costante punto di domanda.

9) DENVER HA POCO TEMPO PER RIPRENDERSI DALL’IMBARAZZO DEL SUNDAY NIGHT

Assistere alla sconfitta dei Broncos nel Sunday Night contro i poveri Giants può creare legittimi dubbi sul fatto che si stia parlando della stessa squadra in grado di annichilire i Cowboys in una partita che sembra essersi disputata un migliaio di anni fa. Sprazzi di difesa dominante ed una regia offensiva pulita e conservatrice sembravano essere la direzione giusta da intraprendere per tentare di riacciuffare i recenti fasti gloriosi, ma nelle ultime settimane sono tornate d’attualità vecchie lacune cui non è stato posto sufficiente rimedio.

Esaminando a ritroso queste prime sei partite appare chiara un’evoluzione offensiva rispetto all’immobilismo della scorso torneo, la difesa è tornata ad essere spietata nella concessione di yard e punti, ma i turnover sono la lettura-chiave di tutta la faccenda. Pochissimi difatti quelli recuperati fino a questo momento, solo quattro, segno che ad un reparto comunque alta caratura mancano le opportunità di spezzare le inerzie positive altrui, tantissimi invece quelli commessi dall’attacco, tra cui vanno annoverati i nove fumble commessi (non tutti persi, chiaramente) a causa di una protezione a volte altalenante, e ben sei intercetti a carico di un Siemian che ha contribuito parecchio al venticinquesimo posto che attualmente Denver occupa nel computo dei palloni persi.

Tutte le squadre patiscono delle difficoltà nella parte iniziale dell’anno, è normale e comprensibile, e quelle in grado di aggiustarsi meglio della concorrenza sono destinate a rimanere le più forti. Per preservare le ottime premesse gettate contro Dallas, ai Broncos non resta che attrezzarsi adeguatamente per una parte di calendario che potrebbe rivelarsi brutale, e che contribuirà parecchio a formare un’immagine meglio definita della squadra gestita da John Elway. All’orizzonte c’è una doppia trasferta a Kansas City e Philadelphia, al rientro a casa ci saranno i Patriots ad attendere, quindi l’unico metodo per dimenticarsi dell’imbarazzo recente è quello di portarne a casa almeno due su tre.

10) I JETS SONO QUI PER LOTTARE

Ovvero, alla faccia di chi – noi prima di tutti – li avevano già dati per spacciati e possessori della seconda scelta assoluta (la prima spetta ai Brown, no doubt…). I Jets hanno utilizzato la motivazione come meglio non potevano e coach Todd Bowles sta evidentemente svolgendo un ottimo lavoro nel tenere assieme i pezzi di uno spogliatoio potenzialmente contagiato da tutte le scorie derivanti da teste calde ed accumuli di sconfitte, fattori che prima o poi riducono a brandelli la tenuta mentale di chiunque creando fratture difficilmente sanabili.

Abbiamo di fronte una squadra rispettabile, e Bowles – contro ogni previsione – sembra stia riuscendo a costruire qualcosa dove pareva non ci fossero grosse possibilità. Da qui a sostenere che si sia verificato un salto di qualità netto ce ne passa, però guardandosi indietro non si può non rimanere esterrefatti da un 3-3 che dopo sole sei partite non pareva nelle corde di una squadra piena di vuoti, ma che sta lottando con i mezzi che ha cercando di riprendere coscienza di sé e trovare di nuovo la direzione corretta. Vero che la squadra è invischiata nelle parti basse di quasi ogni classifica produttiva con la sola eccezione dei punti concessi, già un buon punto d’inizio, vero anche che i giudizi vanno dati anche per atteggiamento, e quest’ultimo fattore è certamente una positività che contraddistingue la squadra.

Per il momento i Jets restano una squadra che necessita di un maggiore talento offensivo, McCown – turnover a parte – non sta nemmeno giocando male ma non è la soluzione a lungo termine, anzi, su questo argomento ci sono notevoli ombre da scacciare, il gioco di corse funziona a singhiozzo e la linea offensiva spesso non è all’altezza del compito, mentre la difesa cresce ed accumula esperienza, è ancora acerba per molti versi ma di qualità non indifferente. La sommatoria di tutto ciò delinea una franchigia come sempre alle prese con numerosissime difficoltà, ma che quest’anno ha dimostrato di non aver perso la dignità, al contrario di qualcuno lassù in Ohio.

One thought on “Ten Weekly Lessons: Week 6

  1. Concordo totalmente sulla disanima degli Steelers:
    Troppe troppe superstar in attacco, specie per una squadra che riesce ad emergere grazie alla difesa.
    Prevedo una bella repulisti nella prossima off season

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