1) TODD GURLEY E’ L’MVP DEL PRIMO MESE DI GIOCO

Potremmo tranquillamente aggiungere la dicitura “alla pari di Kareem Hunt” alla frase di cui sopra per rendere giustizia alle fenomenali prestazioni del rookie dei Chiefs, tuttavia crediamo che togliendo il fattore Gurley dall’equazione di ciò che sono oggi i Rams, ovvero una fragorosa sorpresa, le prestazioni di Los Angeles non sarebbero state nemmeno avvicinabili a quelle che abbiamo effettivamente vissuto.

Chissà se Jeff Fisher si starà mangiando le mani da qualche parte pensando all’enorme salto di qualità che McVay ha permesso di fare a Gurley, ora divenuto a tutti gli effetti un all-around back da leccarsi i baffi, con distinti saluti alle famose 3.18 yard per portata che avevano diminuito la reputazione dell’ex-giocatore dell’università di Georgia durante il frustrante campionato scorso. Chiaro che l’attacco non può essere costituito da una sola persona ed abbiamo già spiegato la settimana passata quale sia il concorso di effetti che ha permesso questa radicale trasformazione, ma è innegabile il come Gurley sia cuore ed anima di tutto il reparto offensivo proprio per l’ampliamento del suo utilizzo.

In un modo o nell’altro, proprio come Hunt peraltro, la superstar dei Rams trova sempre il modo di ferire una difesa, proprio per la dimensione aggiuntiva che McVay gli ha ritagliato addosso ad arte, quella di ricevitore aggiunto. E non stiamo parlando solamente di uscire dal backfield e cercare il vuoto nella copertura a zona avversaria punendone i blitz, in quanto Gurley può benissimo venire schierato da ricevitore vero e proprio al fine di smascherare la copertura attuata dalla difesa, che per marcarlo deve comunque ricorrere ad elementi più lenti e meno agili di quanto non sia il provetto ostacolista di Los Angeles. Molti dei big play dei Rams sono nati così.

Alla data odierna californiani reclamano la quindicesima posizione per yard ottenute su corsa ed un gioco di passaggi che vale le prime cinque piazze della Lega, un risultato a dir poco clamoroso ed evidentemente non raggiungibile senza il contributo di Gurley, pur dovendo sottolineare i miglioramenti di offseason messi a punto dal meritevole Jared Goff. 596 yard dallo scrimmage nel primo quarto di stagione sono cifre da Marshall Faulk, un buon 40% dei punti totali (categoria nella quale i Rams sono passati da ultimi a primi…) sono farina del suo sacco, la produzione non accenna a fermarsi nemmeno al variare della consistenza dell’avversario di turno.

Se i Rams siano o meno pronti a bruciare le tappe lo scopriremo presto, tra pochissimo si affronta Seattle, ma se dovessimo scegliere il miglior giocatore visto in campo in questo primo mese, il numero 30 giallo-blu secondo noi non avrebbe rivali.

2) LA DIFESA DEI PATRIOTS CHIEDE AIUTO

Tom Brady fa i miracoli e questo è un dato assodato anche a quarant’anni suonati, ma non sempre può salvare i Patriots dalla sconfitta. Oltre a ciò, esisterebbe pur sempre quella vecchia legge non scritta del football americano secondo la quale i titoli si vincono con la performance difensiva, guarda caso proprio il settore dove New England sta imbarcando acqua settimana dopo settimana, ponendo legittimi dubbi sulla propria capacità di ripetersi ad alti livelli, il che tradotto a Boston significa solamente una cosa: Super Bowl.

Lo stato attuale delle cose può tranquillamente definirsi disastroso: difensivamente i Pats sono ultimi per punti e yard concesse come pure nel contrasto del gioco aereo altrui, un trittico di statistiche negative che va pienamente a giustificare le dinamiche del 2-2 con cui i ragazzi di Bill Belichick hanno chiuso questi primi trenta giorni del loro cammino. Nulla di cui sorprendersi, dunque, a maggior ragione se osserviamo che la pressione verso il quarterback non sta semplicemente arrivando, d’altro canto otto sack forniti sono un numero che può essere interpretato in un milione di modi e significare tutto e niente, dato che l’elemento più pesante degli altri è dato dall’alto numero di circostanze in cui la linea difensiva si è fatta sottomettere dal fronte avversario.

Se le cose non vanno benissimo davanti, complici le assenze per diverse ragioni di Ninkovich, Long e Sheard rispetto al roster del 2016, la situazione non è certo rosea nel back seven. Tra i linebacker ha pesato l’assenza di Hightower per infortunio, che ha permesso agli attacchi di esplorare squilibri di marcatura con running back e tight end scoprendo la poca profondità nel ruolo di cui i Patriots soffrono, e le secondarie stanno semplicemente concedendo una valanga di big play. I dati ufficiali a nostra disposizione parlano di sette giocate concesse per un guadagno pari o superiore alle 40 yard, e ben diciotto per guadagni oltre le 20, tutte responsabilità che vanno a gravare, oltre che sulla pass rush, su una delle secondarie che sulla carta si programmava di essere una delle migliori della Lega.

Bill Belichick è un maestro nell’aggiustare i problemi in corsa, questo lo si sa, ma i vuoti di questa difesa sono davvero tanti, e lasciano davvero a desiderare. McCourty, Harmon, Duron ed a tratti anche Butler hanno giocato ben al di sotto delle aspettative, e si aspettano ancora notizie da una delle firme più importanti dell’estate, Stephon Gilmore. C’è sempre meno tempo per rimediare…

3) TAMPA BAY NON HA RISOLTO I PROBLEMI CON I PROPRI KICKER

Jason Licht, il general manager dei Bucs, ha già preso la sua sciacquata in occasione di un training camp durante il quale è stato deciso il taglio di Roberto Aguayo, preso l’anno precedente sprecando completamente una scelta di secondo giro, e la malasorte sembra non voler abbandonare i kicker di questa franchigia.

In estate la battaglia l’aveva vinta Nick Folk, che per quanto dispiaccia dirlo è la stessa identica persona resasi responsabile della semi-figuraccia di domenica contro i Giants ancora privi di vittorie, una battaglia per portare a casa la quale Tampa Bay ha dovuto soffrire molto più delle proverbiali sette camicie. Pensiamo al contesto: gara molto impervia in apertura dato l’acquazzone che ha caratterizzato quasi tutto il primo quarto, i tanti errori degli special team di entrambe le squadre, la costante incertezza del punteggio in una gara che i Buccaneers potevano senza dubbio gestire meglio se non altro per legittimare il loro potenziale valore in prospettiva playoff.

Nonostante i big play forniti dall’attacco la partita doveva essere messa via prima, senza tutte queste sofferenze. La produzione offensiva, come visto, c’è tutta, ma è ancora alterna e vive sui momenti sì e no di Jameis Winston, motivo per il quale possedere un kicker automatico diventa un particolare rilevante della faccenda. Tampa può vivere sui completi che Jameis riesce ad infilare con costante precisione in finestre visive sottilissime – una sua dote innata – e può produrre giocate derivanti dagli squilibri di marcatura o dalle amnesie della difesa proprio come le felici connessioni con Cameron Brate e OJ Howard vanno a dimostrare. Resta il fatto che una gara da 133 punti di rating per il quarterback e di 434 yard di total offense può anche valere 25 punti a referto, ma non due sole lunghezze di distacco nel punteggio e la conseguente costrizione a vincere allo scadere.

Folk ha mancato due field goal ed un extra-point cancellando punti che avrebbero modificato l’inerzia della partita, ma soprattutto ha fatto tremare la città intera rischiando di sbagliare anche il calcio della vittoria, che ha rischiosamente rasentato il palo sinistro del post nonostante la distanza ravvicinata. Non è questa la sicurezza di cui Tampa Bay ha bisogno, e non è questa la stabilità di cui Dirk Koetter necessita per potersi finalmente togliere un mal di testa che va avanti sin dagli esordi di Aguayo.

4) LA SFORTUNA SI E’ ACCANITA CONTRO MIKE ZIMMER

Ci riesce difficile pensare ad una squadra più sfortunata dei Vikings commisurando potenzialità e risultati ottenuti, ed è impossibile non provare simpatia per un ottimo allenatore come Mike Zimmer, uno che nell’era dei grandi attacchi aerei ha spesso trovato l’antidoto al male sotto il quale sono cadute la maggior parte delle difese Nfl.

La settimana scorsa vi avevamo parlato di come Minnesota sarebbe potuta vedersi restituire un ruolo spettante di diritto, quella di sorpresa della stagione che già deteneva nel 2016 prima di cadere sotto una catastrofe di infortuni gravi. Ci tocca ripetere con tutta probabilità le stesse parole anche stavolta, data la perdita per la stagione di uno dei difference-maker più evidenti di questa stagione, quel Dalvin Cook che ha visto terminare il suo promettente anno da matricola sotto un inopportuno movimento del ginocchio, scrivendo a referto le tre lettere più temute nel mondo sportivo, ACL.

Cook era l’ultimo pezzo che serviva per completare un puzzle offensivo spesso limitato dalla sua mancanza di multi-dimensionalità e capacità di muovere costantemente le catene, due traguardi che erano stati raggiunti nonostante l’assenza dalle scene di Sam Bradford. L’ultima cosa cui vorremmo francamente assistere sarebbe un’altra caduta verticale dei Vikes nella seconda parte dell’anno, vedendoli sprecare per colpe non proprie le prestazioni di un reparto difensivo mostruoso, capace di ingurgitare avversari grazie alla tremenda efficienza della pass rush, rischiando di far sfumare un egregio lavoro di costruzione del roster cui mancava solamente – appunto – il dinamismo di Cook.

Non aiuta il fatto che Latavius Murray, il logico rimpiazzo di Cook, non ha perfettamente recuperato dall’operazione chirurgica alla caviglia affontata in offseason, un altro fastidio che si aggiunge alla frustrazione già accumulata, ponendo legittimi dubbi sull’efficacia di un gioco di corse che stava bilanciando molto bene un attacco cresciuto moltissimo, addirittura sesto assoluto per yard totali. In ogni caso è andata persa la componente atletica che Cook poteva fornire, dato che Murray e McKinnon hanno due stili completamente differenti rispetto all’ex-Florida State, un altro adattamento forzato che i Vikings dovranno per l’ennesima volta sopportare, loro malgrado.

5) NON C’E’ SPERANZA PER BALTIMORE SENZA UN ATTACCO CREDIBILE

Non è una condanna, ci mancherebbe, su queste righe abbiamo l’abitudine di non ragionare in termini assoluti ma solo parziali, per cui il clamore del titolo del paragrafo va riferito esclusivamente all’attualità. La quale, senza mezzi termini, è quanto più di deficitario si potesse immaginare, ed aggiunge sofferenza ad una questione che con molta probabilità ha tenuto i Ravens fuori dai playoff per due anni in fila per la prima volta nella gestione di John Harbaugh.

Per evitare che questo accada una terza volta è necessario risolvere lo stato ufficiale di crisi che sta attraversando Joe Flacco ed il playcalling di Marty Mornhinweg, coordinatore che non sembra aver trovato il bandolo della matassa dopo aver assunto la posizione a stagione passata in corso. La tegola della rottura della caviglia di Marshal Yanda, e qui parliamo di un All-Pro comprovato, è senza dubbio pesantissima da sopportare ma non può rappresentare la scusante di turno, perché la guardia l’anno scorso stava benissimo ed i risultati offensivi erano gli stessi. I Ravens sono terzultimi sia per yard prodotte che per punti segnati, cifre che stridono fortemente con la rinascita della cultura difensiva locale, la cui forza può ancora vincere una partita ma non certo determinare le sorti di una stagione intera. Per creare qualsiasi tipo di inerzia positiva, è necessario che l’attacco sia quantomeno decente, ed al momento non pare esserlo.

Dopo la figura barbina di Londra è arrivato un altro primo tempo a quota zero punti contro gli Steelers, i turnover costosi si stanno accumulando, i divari nei punteggi stanno aumentando. Domenica Flacco ha ricevuto parecchi colpi a seguito della pressione evidenziando la necessità di migliorare la protezione al di là delle assenze, ma l’aspetto più preoccupante riguarda la pressoché totale assenza di sincronia tra quarterback e ricevitori, come dimostrano i lanci fuori misura visti domenica ed i numerosi drop commessi, spiegando gran parte dei motivi della mancanza di produttività.

Se poi Harbaugh si dovrà pure occupare di risistemare lo spogliatoio a livello psicologico (Jeremy Maclin non le ha mandate a dire al suo offensive coordinator…), la strada potrebbe farsi persino più impervia.

6) DESHAUN WATSON HA RESUSCITATO LE SPERANZE DI HOUSTON

Deshaun Watson deve possedere davvero tanto talento. Lo sosteniamo perché risulta raro assistere ad una crescita così rapida di un rookie tra una partita e l’altra, a maggior ragione se relazioniamo ciò che Watson ha conseguito domenica contro i Titans all’annosa ed irrisolta situazione quarterback in quel di Houston, il vero oggetto del contendere quando si trattava di tracciare la differenza tra una squadra di grandi potenzialità ed una ottima anche sul campo.

I numeri parlano chiaro anche se spesso non raccontano tutta la verità, però nel caso di Watson c’è da rimanere impressionati. Parliamo della stessa squadra investita dalla crisi data dalla precoce sostituzione del proprio quarterback dopo soli due quarti di campionato, che ha provato negli anni decine di registi senza trovare affidabilità a lungo termine, e che domenica è esplosa come non mai alimentata dalle spettacolari giocate della sua matricola, mettendo a referto un record di franchigia come i 57 punti registrati (contando naturalmente nel contesto anche quelli procurati dalla difesa) e regalando a Watson il ruolo di superstar in ascesa dall’alto dei suoi 5 touchdown totali tra lanci e corse, cifre di vertiginosa importanza per una squadra che qualora dovesse aver trovato la classica quadra per la sua lacuna principale potrebbe fortemente tornare d’attualità nel complesso quadro della Afc.

Più d’ogni altro aspetto, colpisce la facilità con cui Watson si è caricato sulle spalle un’intera squadra raddoppiando le yard prodotte per ciascun tentativo di passaggio e comprendendo meglio lo sviluppo del gioco mettendo in campo tutto l’istinto possibile, una delle chiavi interpretative del deciso taglio che la squadra ha dato ai sack subìti. Ricordiamo inoltre che Watson è pur sempre colui che ha vivisezionato la difesa di una certa Alabama in occasione di due National Championship consecutivi, un palcoscenico irripetibile per un periodo di tempo così ristretto, fattore che fa intuire un’interessante proporzione tra l’aumento della posta in palio ed il tirar fuori il meglio di sé, e se tra questi addendi ci buttiamo dentro pure il talento naturale la questione si fa molto divertente da seguire.

7) I JAGUARS SARANNO MOLTO INTERESSATI AI QUARTERBACK DEL PROSSIMO DRAFT

Su questo ci sentiremmo di avere pochi dubbi, perché nel quadriennio in cui Jacksonville ha tentato di trasformare Blake Bortles nel proprio franchise qb le cose non sono andate esattamente come da previsioni, e le a dir poco alterne prestazioni del regista da Central Florida cominciano a pesare davvero tanto nel computo tra vittorie e sconfitte che la franchigia sta disperatamente tentando di migliorare da anni.

Il peccato mortale è uno solo: non si può sprecare una stagione dove si può mettere in campo una difesa che sta scalando vertiginosamente le gerarchie di Lega assistendo ad errori che al quarto anno professionistico dovrebbero essere quantomeno superati, un aspetto mentale che Bortles non sembra aver curato proprio nei minimi dettagli oppure non è stato adeguatamente allenato a farlo, impossibile determinarlo con certezza a meno che non si appartenga direttamente allo staff locale. La predica non riguarda l’aver perso contro i Jets in sé, riguarda piuttosto il modo in cui si è perso, ovvero con turnover evitabili ed un intercetto che ha del ridicolo per la dinamica con cui si è concretizzato. Sono errori da matricola, e Bortles un novellino non lo è più.

Ai Jags non serve un regista che non riesce storicamente a superare il 60% di completi, non è sufficiente vivacchiare puntando tutto su Fournette e sperare che Bortles non commetta i soliti errori che modificano in negativo l’inerzia delle gare. Se nemmeno il giochino motivazionale attuato da Doug Marrone in preseason (ricordate? Prima Henne nominato starter, poi Bortles che si riprende il suo posto?) ha sortito effetti positivi allora meglio cominciare a sguinzagliare gli scout in giro per gli impianti collegiali per studiare a fondo il prossimo quarterback della franchigia. Certo, due vittorie in quattro partite non sono male per una squadra che ne ha collezionate 3.4 di media a stagione negli ultimi sette anni, ma il salto di qualità non è determinato dal vincere sette-otto gare e mostrare dei progressi, qui serve tornare a puntare ai playoff.

Con il Bortles visto a Londra si potrebbe anche, ma purtroppo non è sempre così.

8) I REDSKINS HANNO BISOGNO DI BLINDARE KIRK COUSINS

Fare questi discorsi con i numeri sarebbe fin troppo facile, altrimenti il management avrebbe con tutta probabilità agito diversamente già dall’anno passato. Ci proviamo quindi dal punto di vista attitudinale, un lato d’osservazione secondo il quale Kirk Cousins è cresciuto a tal punto da non doversi sentire inferiore a tanti colleghi detentori di contratti pluriennali, dimostrando quanto abbiamo appena sostenuto semplicemente con l’atteggiamento.

Possiamo parlare all’infinito delle due stagioni sopra le 4.000 yard (e della presente che tenendo i ritmi attuali diventerà la terza consecutiva), dell’attacco notevolmente migliorato sotto le cure dell’attuale coach dei Rams Sean McVay, come pure di tutti i big play confezionati in questi anni, ma la valutazione della situazione non può ritenersi completa e soddisfacente senza soppesare le capacità mentali di un quarterback che come primo compito deve sempre possedere tutti gli attrezzi necessari per mettere la sua squadra nella miglior posizione possibile per vincere. E Cousins, questo esercizio parecchio interessante e distintivo, lo sta imparando senza dubbio molto bene.

Rimane sempre un quarterback da testare nei momenti clou della stagione, perché sono ancora freschi i ricordi dei suoi errori nei playoff o nelle corse al fulmicotone per l’ultimo posto nei playoff, ma ricordiamo sempre che anche i grandi quarterback del passato hanno sbagliato lanci in momenti topici delle loro carriere senza per questo venire ricordati come perdenti o amenità di simile genere. La maturità di Cousins può essere in parte il motivo delle belle speranze che si provano nella Capitale proprio perché il passo da compiere era quello di guidare i propri compagni e metterli nella condizione di poter credere di misurarsi contro chiunque, un compito che nel Monday Night perso di misura contro i Chiefs è stato svolto esattamente come da richiesta.

Cousins ha scagliato i lanci giusti al momento corretto, si è misurato colpo dopo colpo contro una difesa non facile da affrontare, ha risposto presente anche quando il gioco di corse ha smesso di produrre, ha mosso le catene con le proprie gambe nel quarto e decisivo periodo, ha cercato di rimediare alle penalità della difesa, ai drop ed ai palloni maltrattati, i tre fattori che hanno determinato la sconfitta di lunedì notte, e se Josh Doctson avesse tenuto un decisivo pallone perso al contatto con il terreno della endzone nessuno parlerebbe più dei Chiefs quali imbattuti.

Se ancora un minimo di buonsenso è rimasto, Cousins merita di proseguire la sua carriera a Washington. La svolta dei Redskins passa soprattutto da lui.

9) ABBIAMO LA CONFERMA DEL POCO SENSO DEL CONTRATTO DI MIKE GLENNON

I Bears avranno certamente eseguito tutte le acrobazie contabili del caso per evitare dissanguamenti nel cap dei prossimi anni, resta il fatto che il contratto di Mike Glennon prevedeva giusto una manciata di dollari garantiti, e la dirigenza sapeva quindi bene ciò a cui stava andando incontro. La storiella del traghettatore incaricato di giocare alla meno peggio in attesa della corretta maturazione del rookie oramai non sta più in piedi, se davvero si vuol evitare di bruciare una matricola sul campo si deve allora portare maggior pazienza con il titolare, a maggior ragione se le ragionevoli attese sulla squadra non sono un granché, in quanto i cambi in corsa eseguiti così di fretta non è detto che portino ai risultati auspicati.

Per quanto Glennon graverà in futuro nelle casse di Chicago l’errore della sua firma è cristallino. Quale franchigia si può permettere di versare 18.5 milioni di dollari garantiti ad un quarterback che non ha mai provato in precedenza di poter vincere da titolare nella Nfl di oggi? Quale squadra prende un regista di caratteristiche diametralmente opposte rispetto a quelle del giovane futuro starter da coltivare, costato peraltro una pazzia per salire di una sola posizione al Draft? Glennon è stato ciò che si sapeva essere, lento e non capace di eccellenti decisioni, motivi che hanno contribuito all’alta quantità di pressione subìta ed agli 8 turnover totali, peggior dato tra i registi in questa frazione di campionato, confermando di essere una soluzione tutt’altro che convincente.

Da lunedì notte comincia l’era di Mitch Trubisky, che si spera risolva almeno qualche situazione con la sua mobilità, anche se cominciare l’avventura contro Everson Griffen, Linval Joseph e Danielle Hunter crediamo sia quanto di meno divertente ci si possa auspicare. La stagione dei Bears è destinata a continuare sulle discussioni riguardanti le decisioni del management, sulla crescita affrettata di un quarterback già di per se poco esperto ed avvezzo a schemi tipicamente collegiali, che fino a pochi giorni fa non era pronto a scendere in campo.

E’ una storia che somiglia a quella di Goff, ma che si sta svolgendo con netto anticipo. A Chicago confidano molto in un epilogo diverso, almeno per l’anno in corso.

10) LA STRADA DEI RAIDERS E’ TUTTA IN SALITA

Ovvero come attirare un grosso quantitativo di sfortuna per due anni consecutivi. Il magico 2016 dei Raiders si è rovinato proprio dinanzi al taglio del traguardo, dato che proprio mentre ci si accingeva a festeggiare la prima qualificazione ai playoff sin dalla lontanissima stagione 2002, i sogni di gloria andavano a frantumarsi con la notizia dell’infortunio terminale (broken fibula il termine che ha spezzato le speranze nero-argento) di Derek Carr.

Il quarterback dei Raiders non perderà la stagione bensì un periodo compreso tra le due e le sei settimane, anche se dovendo curare una frattura alla schiena crediamo che il buon Derek dovrà farsi almeno un mesetto di riposo, e la sua assenza potrebbe portare fuori ritmo il potenzialmente esplosivo attacco di Oakland con gare divisionali contro Chargers e Chiefs in arrivo entro i prossimi venti giorni. Il rischio è quello di perdere terreno rispetto a Kansas City e Denver finendo dal lato sbagliato nel computo degli scontri diretti, quella cosuccia che a fine regular season fa sempre una discreta differenza in caso di risoluzioni di un qualsiasi genere di parità, costringendo la squadra a giocare di rincorsa.

L’assenza di Carr – e la presenza conseguente di un quarterback propenso all’errore come E.J. Manuel – non proprio l’emblema della produttività offensiva – giunge in un momento dove i Raiders avrebbero dovuto stabilire se l’orrida performance di Washington e l’evidente dominio della No Fly Zone di Denver (complice anche l’assenza di Crabtree) fossero solamente due casi isolati e casualmente consecutivi, oppure se il reparto d’attacco sia davvero in flessione rispetto ad un anno fa, quando i Raiders viaggiavano ben all’interno della top ten per yard e punti messi a referto.

La speranza, anche per lo spettacolo, è che Carr possa recuperare nel migliore dei modi e tornare ad accendere quei fuochi artificiali che possono trasformare Oakland in una curiosa contender, ma affinché ciò accada Manuel non deve sbagliare quasi nulla. Il problema sta tutto lì.

2 thoughts on “Ten Weekly Lessons: Week 4

  1. Domenica I Ravens vs Oakland senza Carr devono per forza vincere.
    Non capisco come un team che non e’ certo l’ultimo arrivato nella lega, non riesca ad avere un offensive coordinator che possa rivitallizzare un attacco cosi inefficente.
    Possibile che Flacco, si sia cosi involuto? I ricevitori sono cosi scarsi?
    Oppure e’ arrivato il momento di rifondare?

  2. Ciao Gianluca e grazie per il tuo commento. Su Baltimore direi che c’è un concorso di effetti, a parere del tutto personale Flacco non può essere involuto ma da due anni credo senta sfiducia nelle persone che hanno fatto da offensive coordinator. I ricevitori non sono certo il top della lega e la batteria è poco profonda, manca un vero wr numero uno e Perriman è ancora un mistero. Di sicuro non aiuta una linea offensiva regredita.

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