In tempi dove vincere è tutto, la proprietà dei Cincinnati Bengals sta portando avanti con pazienza il regime di coach Marvin Lewis nonostante il magro curriculum di vittorie significative che l’allenatore ha portato a casa nei suoi ben 14 anni di collocamento in loco. Un tempo che altri non gli avrebbero certamente concesso se osservata la situazione dal punto di vista della postseason, dato che i Bengals si sono spesso dimostrati un’ottima squadra da regular season per poi crollare con terribile puntualità dinanzi al palcoscenico più importante: vero che Lewis ha portato la squadra a giocare i playoff per cinque anni consecutivi nel periodo intercorso tra il 2011 ed il 2015, vero anche che la franchigia non è sostanzialmente progredita facendo rimanere il ricordo dell’ultima vittoria di postseason sempre più distante, fermo a quel campionato 1990 dove ancora evoluiva nel ruolo di quarterback la bandiera Boomer Esiason.

La squadra viene da una stagione deludente, conclusa a 6-9-1 con sole tre vittorie nella seconda parte di campionato, ed una miriade di problemi che durante la offseason sono rimasti parzialmente irrisolti. Più passa il tempo e maggiormente la critica si accanisce contro Andy Dalton, che per molti non ha mai dimostrato di poter fare il classico passo successivo per migliorare le sorti di squadra, ma nel football americano sussitono troppi fattori per poter additare la responsabilità ad un solo giocatore, e le colpe vanno condivise con ben altre proporzioni. Di certo saltano all’occhio i soli 18 passaggi da touchdown con cui il Red Rifle ha concluso l’annata scorsa, peggior statistica di carriera e numero nettamente inferiore rispetto alle medie tenute dai top del ruolo della Lega.

L’attacco coordinato da Ken Zampese non ha certo brillato per esecuzione e idee come quello – per esempio – di Jay Gruden, la produzione di yard è stata quantomeno soddisfacente, buona per collocare i Bengals nella parte mediana delle classifiche specializzate, ma osservando i soli 325 punti messi a referto – 24mo dato NFL – emergono chiaramente tutte le difficoltà con cui il reparto offensivo è riuscito a segnare, una preoccupante mancanza di finalizzazione sfociata nell’accontentarsi sovente di un field goal anzichè di sette punti, oppure di possessi troppo spesso sconclusionati per non incidere sull’inerzia della gara.

Dalton ha fatto la figura del game manager, etichetta che gli troviamo piuttosto stretta e sì, oseremmo dire anche poco adeguata, ma il fatto che siano mancati i big play è qualcosa che non può passare in secondo piano. Non ha di sicuro giovato perdere A.J. Green nella parte finale dell’anno, anche se in quel momento i buoi erano abbondantemente scappati altrove, ma anche con il grande wide receiver in campo le alternative sono risultate scarse, permettendo alle difese di raddoppiarlo con comodità e limitarne l’altrimenti letale capacità di prendere qualsiasi tipo di pallone gli venga recapitato nelle vicinanze. Una grossa mano l’ha fornita Brandon LaFell, miglior scorer di squadra con soli 6 touchdown, ma l’ago della bilancia resta pur sempre il buon A.J., dato che nelle situazioni in cui ha ricevuto meno di sette passaggi in singola gara il record di squadra è risultato di 3-8, non esattamente una coincidenza.

La doppia dipartita in free agency di Mohamed Sanu e Marvin Jones nell’offseason del 2015 ha certamente sortito effetti negativi, e la logica corrente di pensiero conseguente è che il management non abbia riparato quel vuoto con una sufficienza tale da permettere di mantenere la costanza di risultati di prima. In qualche modo sono stati eseguiti degli interventi attraverso il draft, prima acquisendo un Tyler Boyd capace di produrre 11.2 yard per ricezione nell’annata da rookie giocando da slot, e quindi investendo la nona scelta assoluta sul fulmine John Ross, il più veloce di sempre a correre le 40 yard alla Combine (per quanto possa valere…), un elemento che nei pensieri del coaching staff dovrebbe svilupparsi un un ruolo del tutto similare a quello di un DeSean Jackson, aggiungendo una minaccia in profondità per un attacco che necessita quanto prima di staccarsi dalla propria staticità. L’idea è quella di partire con uno schieramento base con tre ricevitori in campo contemporaneamente, lasciando che Ross si giochi il posto proprio con Boyd per lo slot, ferma restando la titolarità di Green e LaFell nelle posizioni esterne.

L’inefficienza dell’attacco nelle ultime 20 yard potrebbe vedere netti miglioramenti qualora Ross medesimo ripetesse le statistiche riportate nell’ultimo anno al College di Washington, quando 12 dei suoi 17 touchdown sono giunti in redzone nonostante il giocatore non sia di elevate stature (5’11”), e Dalton spera con tutto se stesso di poter disporre di una delle sue armi più potenti, il tight end Tyler Eifert, fortissimo ma continuamente penalizzato dagli infortuni. Con tutta probabilità i soli 18 passaggi vincenti del quarterback vanno letti anche attraverso la prolungata assenza di un Eifert che due anni fa di mete ne aveva collezionate 13, e che l’anno passato ha cominciato l’anno in PUP list saltando il primo mese e mezzo di competizione, dimostrando comunque di essere tra i bersagli più affidabili a disposizione. L’aver perso 26 partite in tre anni per infortunio resta in ogni caso un dato molto preoccupante per un ragazzo di soli 26 anni.

Altro dato interessante: la filosofia offensiva si è basata spesso sul non commettere troppi errori e giocate conservative, un modo di giocare per il quale serve un backfield determinante per gestire il cronometro, una qualità che i Bengals hanno dimostrato di non possedere. I running back hanno perso yard solo nell’8% dei tentativi guadagnando però solo 3.97 yard di media, segno di un buonissimo lavoro di trincea e di una cattiva visione di gioco. Notevole la regressione statistica di Jeremy Hill, che aveva illuso solo due anni fa di poter essere un feature back adatto a grossi quantitativi di responsabilità, molta la sfortuna di Giovani Bernard, che si è rotto il crociato anteriore privando il settore di un’arma a doppio taglio di discreta rilevanza, perciò è comprensibile come tutta l’attenzione si sia ora spostata su Joe Mixon, di cui coach Lewis ha già parlato benissimo per maturità mentale e resistenza fisica, due qualità che potrebbero aiutare l’attacco a riequilibrare le sue impostazioni.

Molto dipenderà dalla linea offensiva, cui la free agency ha portato via pezzi determinanti come Andre Whitworth, uno dei migliori tackle sinistri degli ultimi anni, e della guardia Kevin Zeitler, che affronterà gli ex-compagni due volte l’anno a seguito del trasferimento a Cleveland. Nel 2016 la linea è peggiorata nel concedere sack, di conseguenza la sensazione di poca stabilità è di poco auspicio per sperare in un cambiamento di quei risultati, soprattutto se i rimedi si limitano al ritorno di Andre Smith, qui ben conosciuto in qualità di ex-prima scelta con grossi problemi caratteriali. Le soluzioni restanti si affidano alla crescita di giocatori scelti negli ultimi draft, con Clint Boling e Cedric Ogbuehi a pattugliare il lato sinistro, Russell Bodine quale centro, e Jake Fisher, secondo round del 2015, a chiudere l’allineamento a destra.

Anche la linea difensiva è penalizzata dall’assenza di una molteplicità di contribuenti, dato che la maggior parte del lavoro è sempre stata lasciata alle due star del reparto, Carlos Dunlap e Geno Atkins, responsabili di circa metà del fatturato totale in termini di sack. L’anno scorso lo schieramento ha ri-accolto tra le proprie braccia il defensive end Michael Johnson – andatosene per un anno a Tampa – solo per vedersi restituire un contributo piuttosto modesto (3.5 sack) quale appartenente ad una rotazione che ha visto buone cose anche da Will Clark, tuttavia non atletico a livello dei titolari. Via free agency è stato perso il contributo di Domata Peko quale principale stantuffo contro le corse, convogliando il 31enne Pat Sims ed il giovane Andrew Billings, reduce da un intervento al menisco, a competere per il suo posto, mentre la novità è rappresentata da Jordan Willis, incaricato di aumentare il livello della pressione sul quarterback proprio come faceva al College in quel di Kansas State.

Nel mezzo la difesa coordinata da Paul Guenther ha in parte voltato pagina, salutando il veterano di mille placcaggi Karlos Dansby e Rey Maualuga, lasciando il pericoloso Vontaze Burfict quale unico starter rientrante dalla vecchia lineup, ma si sa che con giocatori come lui una qualsiasi organizzazione cammina sempre sul filo del rasoio, e nonostante l’apporto in termini di placcaggi è un giocatore fortunato ad aver goduto di nuove chance in NFL. Il management ha firmato Kevin Minter, ex-Arizona, con un contratto annuale durante il quale dovrà dimostrare molto per meritarsi un rinnovo, lasciando aperta una posizione strong side che verrà assegnata al termine della preseason. Del pacchetto farà certamente parte anche Vincent Rey, primo backup in ordine d’importanza che ha saltuariamente giocato da titolare ed elemento importante per gli special team, e molte sono state le ottime impressioni suscitate dal rookie Carl Lawson, uno specialista della pass rush proveniente da Auburn in possesso di tecnica e grande rapidità, scivolato al quarto round per i tanti infortuni subiti in carriera. Se Lawson dovesse mantenere le promesse mostrate al camp, lo si vedrà in campo spesso e volentieri.

Nei draft recenti Lewis ha speso molte risorse in direzione delle secondarie, con il risultato di trovarsi un gruppo solido, ben collaudato, e che può ancora crescere. I cornerback vedono la presenza di Dre Kirkpatrick da titolare in un’ampia rotazione che comprende i talenti di Darqueze Dennard e William Jackson III, tutte scelte di primo giro, mentre lo slot opposto sarà occupato da un altro esperto di guai come Adam Jones, che i Bengals hanno ri-firmato durante la offseason ed il quale sarà sospeso per la prima gara di campionato. Dal draft nel recente passato sono giunti anche gli attuali detentori della posizione di safety, George Iloka ed il più che soddisfacente Shawn Williams, ambedue ricompensati con nuovi e più ricchi contratti stabilizzando ulteriormente il pacchetto arretrato, ed in parte responsabili dei notevoli risultati ottenuti contro il gioco aereo avversario, che ha lanciato contro Cincinnati nel 60% delle occasioni completando il 59% dei tentativi.

Riguardo gli special team, l’unica posizione solida appare quella del punter Kevin Huber, in squadra da otto stagioni, mentre il camp vede aperta la battaglia per il ruolo di kicker, che si sta svolgendo tra il veterano Randy Bullock e la scelta di quinto giro Jake Elliott, che per potenza di calcio e precisione ha mostrato caratteristiche molto simili a quelle del suo concorrente.

Il 2017 vede quindi i Cincinnati Bengals come un cantiere aperto, in quanto le due linee sono tuttora oggetto di ricostruzione e non dispongono ancora dell’esperienza necessaria per garantire giocate con la costanza richiesta. La stagione di Dalton dipenderà moltissimo dalla sua possibilità di essere protetto adeguatamente e di usufruire di secondi extra per innescare le sue nuove armi in profondità. Preoccupa la difesa contro le corse per un settore che vedrà moltissimi rookie o ex-riserve all’opera, e tanti giocatori ibridi che andranno collocati nella maniera più opportuna.

E’ un accumulo di dubbi troppo consistente, per cui una qualificazione ai playoff sarebbe già un traguardo ben al di sopra delle aspettative di chiunque. Per la famosa prima vittoria postseason di coach Lewis non sembra essere nemmeno questo l’anno giusto.

 

 

 

 

One thought on “Cincinnati Bengals 2017 Preview

  1. Ciao Dave, complimenti a te e Mattia per questo sito… bellissimo!
    Mi ha detto Mattia che non segue le preview della NFC… te ne occupi tu?
    Quando giunge l’ora dei Bears?
    Ciauuu

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