GettyImages-508990854.0La notizia era chiaramente nell’aria, ma il fatto in sé appare in ogni caso surreale. Dalla prossima stagione, il football americano professionistico perderà uno dei suoi protagonisti più riconoscibili, uno dei suoi ambasciatori a livello mondiale, uno dei giocatori che hanno letteralmente riscritto la storia del gioco e che a breve andrà ad inserirsi tra le leggende indimenticabili di questa meravigliosa disciplina sportiva, che egli stesso ha amato come pochi sono riusciti a fare. Peyton Manning, con una conferenza stampa avvenuta ieri sera alle sette italiane, ha comunicato ufficialmente il suo ritiro dai campi di football, appendendo irrevocabilmente casco e paraspalle al chiodo.

Sportivamente parlando l’evento è duro da accettare, ed è davvero difficile trovare le parole esatte per descrivere le imprese di un giocatore che più di ogni altro ha personalmente appassionato.

peytonmanningryanleafAbbiamo avuto la fortuna di poter assistere ad ognuno di questi fantastici diciotto anni di carriera di Peyton, partendo da quella stagione da rookie dove, nonostante il 3-13 dei Colts (poi girato al contrario solamente dodici mesi dopo…), era fin troppo chiaro che si stava assistendo alla nascita di una superstar che avrebbe molto probabilmente cambiato le sorti di quella franchigia che l’aveva selezionato in quel Draft del 1998, conosciuto tanto per la sua presenza quanto per quella scomoda del pari ruolo Ryan Leaf, che di pagine di storia Nfl ne ha scritte solo per il verso sbagliato.

Un’avventura stellare, quella di Manning, giunta fino all’ultima immagine che ricorderemo di lui con un’uniforme ufficiale addosso, quella con il secondo Vince Lombardi Trophy stretto nelle mani, con lo sguardo soddisfatto per quella che è stata la perfetta conclusione del progetto a breve termine su cui John Elway aveva incessantemente lavorato per riportare i Denver Broncos al top, scommettendo su un fisico in netto declino, che si è stancamente trascinato verso il traguardo finale spremendo i limiti delle proprie possibilità al massimo.

Peyton Manning è l’uomo dei record, certo, ma il suo posto nella storia non è certo dettato solamente dai numeri.

peyton-manning-nfl-afc-championship-new-england-patriots-denver-broncos-2-850x560Stiamo evidentemente parlando di un uomo capace di abbattere barriere impensabili, impresa che lo vede all’attualità detentore di primati di altissima fascia: contando le statistiche di ogni epoca, Manning non è secondo a nessuno per touchdown lanciati e yard su passaggio in carriera, nonché per le medesime categorie statistiche espresse in singola stagione (il suo fantascientifico 2013, con 5.477 yard e 55 touchdown ha alzato l’asticella in maniera inequivocabile), per terminare con le 200 vittorie totali, playoff compresi, uno dei tanti primi posti dove Peyton oggi risiede. Tuttavia, queste cifre sono facilmente riportabili da chiunque possa consultare un qualsiasi libro dei record del football al fine di utilizzarle per giustificare la grandezza del personaggio, un qualcosa che a noi pare però limitativo, una sensazione nata proprio dalla lunga osservazione delle imprese che Peyton Manning ha costruito di domenica in domenica.

Il suo significato per la Lega e per i fan è certamente più ampio.

E’ stato un quarterback in grado di rappresentare la faccia della Nfl dando la sensazione di essere nato apposta per un compito come questo, mostrando la sicurezza di chi sa di dover portare un peso non indifferente con pressioni sempre costanti, ma che ha sempre mostrato una fiducia così alta nei suoi mezzi da sapere fin da principio di essere capace di assolvere il mandato, peraltro senza mai apparire spocchioso  o arrogante. E’ stato colui che ha dato nuova linfa alla Lega continuando a promuoverne il marchio anche al di fuori dei confini degli Stati Uniti in un momento di crescita esponenziale, raccogliendo il testimone dai vari Joe Montana,  Steve Young, Troy Aikman, Dan Marino, ovvero tutte quelle superstar capaci di infiammare gli anni ottanta e parte degli anni novanta e giunti alla fine della loro esperienza professionistica – se non già ritirati – nello stesso momento in cui Manning andava ad iniziare la sua inesorabile ascesa vero il top.

manningVero, nelle ultime quattro stagioni l’occhio si è abituato all’arancione, un qualcosa di molto inconsueto se pensiamo ai quattordici lunghi anni che Peyton ha passato a Indianapolis accendendo i cuori dei tifosi dei Colts, che lo hanno sorretto anche quando la franchigia si è trovata costretta ad effettuare decisioni dolorose a causa di quel tremendo infortunio al collo che lasciava troppe questioni irrisolte, privando la città del suo idolo incontrastato e costringendo Indy a ricominciare daccapo con Andrew Luck al comando. Manning ha trasformato una squadra poco significante in una perenne aspirante al titolo, contribuendo in prima persona alla striscia consecutiva di sette stagioni con almeno 12 vittorie in regular season, figlia di tutte quelle edizioni dei Colts allenate da Tony Dungy e graziate dalle innumerevoli connessioni tra Peyton ed i suoi ricevitori preferiti, Marvin Harrison e Reggie Wayne, un trio che ha dato vita ad un’immaginaria seconda edizione del famoso concetto Montana to Rice.

010815_peyton_manning_31-XLIn questo ciclo i Colts hanno sofferto non poco per raggiungere i loro sogni e tenere fede a tutte le loro enormi potenzialità, ricomponendo il loro morale a seguito di ogni dolorosa sconfitta  patita in quei playoff nei quali Manning è stato spesso criticato per la qualità delle sue performance, dando un colpo di spugna a tutto con la vittoria del titolo assoluto nella stagione 2006, arrivata sotto la dolce pioggia di Miami contro i Chicago Bears di Lovie Smith e Brian Urlacher.

Per meglio comprendere il peso di Peyton Manning sulle economie dei Colts, basti pensare al fatto che, a ritiro di Tony Dungy sopraggiunto, la squadra non dovette certo preoccuparsi di veder scendere la qualità dei propri risultati a fronte della presenza di un head coach alla prima esperienza come Jim Caldwell (14-2 e Super Bowl perso contro i Saints), dato che questi poteva permettersi il lusso di discutere il piano partita con il suo quarterback per poi accomodarsi lasciandolo tranquillamente operare, osservandolo analizzare le difese, comprendere le reazioni dei difensori in anticipo grazie all’enorme studio dei filmati, chiamare i suoi famosi audible per cambiare il gioco a seguito dell’intuizione di quel famoso qualcosa che non va nello schieramento della difesa, una dote che solo i grandissimi quarterback possiedono, e che ha entusiasmato il pubblico più di ogni altra sfaccettatura tecnica in possesso del personaggio.

Ed è proprio questo aspetto del quale terremo per sempre stretto il ricordo, quella sensazione di adrenalina data dall’osservare Manning cambiare una corsa in un lancio ottenendo come conseguenza una meta o un delicato primo down, o magari ancora completando una delle sue elettrizzanti rimonte.

pmanning2Una capacità di analisi del gioco nettamente al di sopra del resto della competizione, la consapevolezza di vedersi davanti un giocatore in grado di migliorare qualsiasi compagno attorno a sé, la scoperta del fascino intrinseco del gioco, un qualcosa che Manning è riuscito a trasmettere anche a chi, come il firmatario di queste righe, l’ha guardato per tanti anni dall’altra parte del globo con ogni mezzo possibile, innamorandosi sempre di più di un gioco che già l’aveva perdutamente stregato e tifando incondizionatamente per lui qualsiasi cosa accadesse, nonostante l’indifferenza affettiva nei confronti delle due squadre per cui Manning ha militato in carriera.

E’ proprio questa magia che si rivela capace di andare oltre i numeri, i record, i Super Bowl. E’ un cuore che batte forte per il football americano, pulsante per merito di un ritmo che Manning è riuscito a portare a livelli di tachicardia.

Peyton mancherà tantissimo al football Nfl nella sua qualità di personaggio unico nel suo genere. Dannatamente serio in ogni cosa che ha fatto, pronto alla battuta solo quando riteneva fosse il momento giusto, uno studente del gioco trasformatosi gradualmente in un luminare del football, un cervello fatto apposta per dominare questo meraviglioso gioco tanto da credergli sulla parola quando, verso il termine della sua conferenza stampa di ieri, ha sostenuto che per quanti difetti sia conscio di possedere, non crede che nessuno sia mai stato in grado di prepararsi per una partita meglio di lui.

Peyton Manning non poteva chiedere di meglio alla sua carriera. Ha rispecchiato perfettamente le attese che gli sono da sempre state create attorno, ha vinto tantissimo ed entrerà a getto nella Hall Of Fame, il luogo sacro degli immortali del football. Ed ha avuto la fortuna di lasciare lo sport giocato da campione in carica, seppure da non protagonista, raggiungendo quell’agognato secondo titolo che lui ha sempre cercato con la stessa fame con cui aveva incessantemente tentato di raggiungere il primo, scrivendo la parola fine alla sua meravigliosa storia nel migliore dei modi.

1457385071_95e69f048092fb29c408fec92e79d066Ed è qui che questa storia si conclude, una volta per tutte, con una sensazione esattamente a metà tra la tristezza e la gratitudine. La prima, alimentata dal fatto che non ci saremmo mai immaginati una stagione di football senza di lui in campo; la seconda tenuta viva da tutta la felicità provata nel guardare ogni singolo secondo delle sue numerose imprese, esultando per ogni sua vittoria, sostenendolo in ogni sua sconfitta, imparando lezioni sul football ma anche sulla vita stessa, sull’essere professionisti e professionali, sull’essere dediti e seri su ciò che si fa, senza mai deludere le aspettative di chi ha scommesso tutto su di te.

Averti visto in azione è stato un onore, Peyton Manning.

Grazie di cuore per tutto.

One thought on “Peyton Manning, termina qui una carriera da leggenda

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