Ci sono situazioni in cui nessuno, ma proprio nessuno, riuscirebbe ad indovinare la predestinazione di una persona. Troppi ostacoli, troppe difficoltà “ambientali”, per cui pensare soltanto che un soggetto possa scalare tutte quelle asperità appare veramente improbabile.

Prendete una casa di Texarkana, profondo Texas, anche se al confine con l’Oklahoma. Una bella macchina si arresta davanti ad una delle tante villette unifamiliari malconce che popolano gli orizzonti sterminati della piana texana. Un signore sulla 50ina, Gary Campbell, coach dei runningbacks all’università di Oregon, esce dalla vettura e si dirige a passi decisi verso una porta che ha già visto un anno prima. Nell’occasione del reclutamento di un fenomeno. Viene da lontano, ma non ha voglia di far veloce. Bussa alla porta, fa vibrare le tapparelle abbassate chissà da quanto. “Vieni figliolo, ti riporto a casa”. Dentro c’è LaMichael James.

Una leggenda del football texano che nell’anno di grazia 2008 stava lottando contro gli spettri. La nonna, la donna che l’aveva cresciuto da quando suo padre era stato ucciso e sua madre era scappata di casa, era morta a causa di un male incurabile. Nonostante le borse di studio statali (incredibilmente!) non fioccassero, LaMichael aveva già deciso di impacchettare la sua esistenza, metterla in valigia e abbandonare una casa troppo grande per lui solo, direzione nord ovest degli Stati Uniti, da dove aveva ricevuto le avances dei Ducks di Oregon. Ma nulla poteva prepararlo ad un inizio da incubo: una star come LeGarrette Blount, inamovibile anche se di animo fumantino, non lasciava neanche gli scampoli di partita ai compagni più giovani e per il redshirt non era rimasto nient’altro che rifugiarsi nella malinconia nell’unico posto che chiamava casa. Altro che Oregon.

Cinque anni dopo, LaMichael James è il secondo runnigback di una squadra lanciatissima verso la gloria finale, il suggello di una carriera, il Superbowl, lui che sarebbe soltanto un rookie. E come tale è stato trattato dal coach Jim Harbaugh, un tipo tutto d’un pezzo che conosce il sapore delle disciplina e il gusto amaro della gavetta.

Nel principio furono i pregiudizi: troppo piccolo, troppo leggero, troppo schiavo della Chip Kelly offense, quella strana esaltazione collettiva per cui chiunque sembra un’ira di dio finché pascola nel campus di Eugene, per poi abbandonare l’incantesimo quando varca il primo spogliatoio professionistico.

Su LaMichael gravavano i dubbi degli esperti che l’avevano visto torcersi il braccio in maniera innaturale nell’anno da senior (à la Rajon Rondo nella finale di conference contro gli Heat nei playoff 2011, tanto per intenderci…), infortunio che lo aveva costretto a saltare un paio di incontri in una annata ugualmente stellare con la chiamata tra i finalisti dell’Heisman Trophy, il premio per il miglior giocatore collegiale d’America, e la chiara sensazione che fosse il prospetto più talentuoso tra i running back della nazione.

Ciò non ha impedito, dal momento della sua scelta al draft al secondo giro da parte dei San Francisco 49ers, di scalare le gerarchie del ruolo a falcate.

A settembre il numero 23 si poteva tranquillamente definire il quarto del proprio ruolo: titolare Frank Gore, Kendall Hunter a far valere la sua bravura in allontanamento dal backfield e Brandon Jacobs grande acquisizione dai Giants campioni del mondo.

Ora, le vicissitudini che spesso accompagnano e stravolgono i roster della NFL l’hanno posto dietro al solo Gore, decisamente il cavallo da soma della franchigia di Candlestick Park, ma dopo le 3 corse per 21 yards contro i Packers, James potrebbe ricevere ancora più spazio contro i Falcons. Per alimentare ancora di più la sua fama da predestinato. E con il cuore ed il pensiero rivolto ad una persona speciale, Betty James, la donna che l’ha accudito e mantenuto prodigandosi anche in due lavori notturni e che era solita rivolgersi a LaMichael con “My baby”. Lui rispondeva solitamente con “Madea”, il nomignolo affettuoso con cui la chiamava.

 

Nessuna sorpresa trapelava dal viso di Colin Kaepernick sabato notte, dopo la prestazione che l’ha già proiettato tra i grandi del firmamento dei playoffs NFL, con una prestazione da 444 yards totali, di cui 181 su corsa (record all time per un quarterback ai playoffs) e 4 TD. Tra l’altro in faccia ad un avversario come Aaron Rodgers, che è solito a quelle statistiche e che a San Francisco, il luogo dove ha praticamente trascorso il periodo del college, voleva strappare l’ennesima impresa della sua carriera. Così non è stato e, alla conclusione delle ostilità, le telecamere e i microfoni si sono immediatamente fiondati sul numero 7, che durante la stagione ha scalzato Alex Smith dalla posizione di quarterback titolare. Kaepernick è sembrato realmente sorpreso dall’endorsement dei compagni e dalle domande isteriche dei giornalisti, come chi è stato baciato dalla dea del talento e fa anche una certa fatica ad accorgersi della realtà mortale circostante, essendo per lui tutto normale. Un bizzarro comportamento catturato con attenzione da Gregg Doyel, national columnist della CBS, che vi consiglio vivamente di seguire: spesso sarcastico e puntuto, non cerca scappatoie quando si deve cospargere il capo di cenere per aver ciccato uno dei suoi soliti giudizi tranchant. Qui gli anglofili possono leggere l’articolo in questione.

E dire che il nativo del Wisconsin proviene da uno dei sistemi più ostici e lontani dell’universo professionistico che si possano immaginare.

L’incontro con il suo mentore Chris Ault è uno di quelli che cambia la vita: Colin, ai tempi della scelta del college, eccelleva in tutti gli sport, tanto da essere poi scelto dai Chicago Cubs della MLB e da aver incrociato le spade sul parquet con l’attuale ala dei New Orleans Hornets, Ryan Anderson, ma il suo sogno era ricevere una borsa di studio per il football. Chissà cosa deve aver pensato l’head coach di Nevada quando ha potuto reclutare in solitudine il perfetto elemento per la sua Pistol Offense, un sistema che praticamente… si gioca solo all’università di Reno: trattasi in maniera atecnica di una shotgun ravvicinata in cui il quarterback deve essere dotato di grande rapidità e capacità di correre la palla, visto la prossimità alla linea di scrimmage.

Il nuovo arrivato possedeva quelle doti in un fisico statuario (1,94 cm x 104 kg). I risultati si cominciarono a vedere dopo il primo anno passato ai box ad osservare i compagni, tanto da concludere la sua carriera da collegiale in maniera unica nella storia, raggiungendo quota 9000 yards su passaggio e 4000 yards su corsa.

Ma nonostante la prolifica carriera tra le file dei Wolfpack, probabilmente il suo nome non sarebbe emerso nella mediocre WAC, se non avesse acceso richiamato l’attenzione su di sé il 26 novembre 2010 sgambettando i Boise State Broncos dopo 24 gare consecutive di imbattibilità, striscia che durava da quasi 2 anni, negando a Kellen Moore e compagni la quasi certa chiamata al BCS Championship.

A quel punto le penne degli scout si alzarono all’unisono per vergare i diversi bloc notes e rendere edotti i propri GM che forse nel Nevada c’era qualcosa che avrebbe giustificato il soggiorno tra i deserti che cingono d’assedio lo Stato, oltre agli sfarzi e agli eccessi di Las Vegas, for sure.

Il seguente Kraft Hunger Bowl a cui Nevada partecipò contro la Boston College di Montell Harris e Luke Kuechly – guarda caso proprio a San Francisco, però nell’AT&T Park, casa dei Giants di baseball – non fece che confermare ciò che coach Ault aveva intravisto più di quattro anni fa: un quarterback con un braccio potente, insolitamente veloce negli spazi brevi per un ragazzo della sua stazza, inarrestabile quando gli viene concesso di raggiungere la seconda linea delle difese avversarie, visto che molti linebackers sono costretti a soccombere nel confronto fisico.

A conclusione della partita Colin andò ad abbracciare papà, mamma e fratelli, quelli che lui considera la sua vera famiglia, anche se è stato adottato; pare che durante i fasti dell’ultima parte di regular season la presunta madre naturale abbia spinto per rivederlo (…è il successo, bellezza!).

Una storia ammantata di leggenda narra che Colin nell’ultimo anno di high school abbia scritto in un tema “che avrebbe giocato e vinto nei San Francisco 49ers o nei Green Bay Packers, anche a costo di aspettare 7 anni che ritornassero competitivi”. Eh Colin, mi sa che grazie al tuo aiuto rischiano di mettercene molto meno…

 

7 thoughts on “Colin e LaMichael, la rivincita di due giocatori “di sistema”

  1. Spesso in Italia queste storie non arrivano, perciò ringrazio questo splendido sito ed i suoi ideatori per i magnifici regali che fanno a tutti noi appassionati!

  2. A leggere queste righe si direbbe che non è il solo Colin un predestinato. Ricordi, nella tua esposizione, un altro autentico fuoriclasse, che adoro per come narra vicende e accadimente sportivi e di sportivi..
    COMPLIMENTI!!!

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.