Immaginate per un attimo di tenere sulle vostre gambe tre fotografie di diverse epoche storiche.

Nella prima, piuttosto consunta, c’è un ragazzo ventenne in divisa blu e arancione che sorride felice all’obiettivo, nel suo pugno stringe forte l’Heisman Trophy, il premio individuale più ambito nel college football.

Ora passate all’immagine centrale, decisamente più recente, diciamo una foto scattata con Polaroid, in cui il protagonista è un coach a cui è tributato un lungo applauso da parte dei suoi atleti, presumibilmente dopo la vittoria di un trofeo piuttosto prestigioso, anzi, il più prestigioso di tutti per chi ha avuto la fortuna di calcare i campi leggendari del football universitario.

Terzo scatto: la foto è stata immortalata da uno smartphone di ultima generazione una settimana fa e il protagonista è un arzillo signore di 67 anni che cerca di raggiungere la metà campo a fine match per congratularsi con il collega sconfitto, intorno la folla dello stadio lo invoca a gran voce. Lo stadio è l’infernale (per gli avversari!) William Brice Stadium che ha appena sospinto i propri beniamini verso una vittoria che vale un record di 6 vittorie e 0 sconfitte, il miglior inizio per South Carolina degli ultimi 24 anni.

Gli uomini che sarebbero stati ritratti nelle immagini apparterrebbero tutti ad uno stesso corpo e ad uno stesso volto, Steve Spurrier, uno dei personaggi più influenti del college football degli ultimi 50 anni. L’uomo che ha vissuto almeno tre vite agonistiche.

 

PRIMA VITA: IL GOLDEN BOY DELLA FLORIDA

Stephen Orr Spurrier nasce il 20 aprile del 1945 a Miami Beach, Florida, stato a cui rimarrà legato tutta la vita e dove, ancora adesso, viene osannato, tanto per contraddire il proverbio nemo profeta in patria. Il padre è un ministro della chiesa presbiteriana e costringe la famiglia a seguirlo negli spostamenti repentini per il sud degli Stati Uniti ed è in Tennessee che il piccolo Steve inizia a mostrare al mondo il suo naturale talento per lo sport. Alla fine del liceo tutte le maggiori università bussano alla porta per offrire le proprie borse di studio ma Steve risponde unicamente a quel richiamo di cui parlavamo in precedenza e sceglie l’università della Florida, il college di casa.

Nei suoi quattro anni da quarterback, indossando la casacca numero 11, Spurrier dimostra di essere un precursore di ciò che si sarebbe visto sui campi da gioco 40 anni dopo: corre e passa alla stessa maniera – e bene –, tanto da meritarsi due volte l’inclusione nella formazione All American e nel 1966 raggiunge l’apice della carriera collegiale: l’Heisman Trophy.

Scelto come terza scelta assoluta nel draft dell’anno seguente dai San Francisco 49ers, non riuscirà più a ripetere i fasti degli anni passati a Gainesville e terminerà 10 anni dopo tra le file dei Tampa Bay Buccaneers, naturalmente nella sua amata Florida. Così si spengono le luci sulla prima vita sportiva di Steve Spurrier.

 

SECONDA VITA: LA CREAZIONE DI “THE SWAMP”

Spurrier è ossessionato dal football e come tale, non riesce ad  allontanarsene per lungo tempo. Rientrato nel giro del coaching staff, nel 1987 riceve l’offerta giusta da un college di grande tradizione…sì, ma nel basket, cioè Duke. A Durham, tutto fa rima con il nome di Mike Krzyzewski. Spurrier si applica e riesce nel miracolo di rendere competitiva in 3 anni una squadra abbonata al fondo della ACC. I frutti tangibili si materializzano sotto forma della conquista del Cotton Bowl e della vittoria a pari merito della ACC Conference nel 1989: piovono i riconoscimenti per il coach originario di Miami che ormai sta attirando l’attenzione dei grandi atenei interessati a rilanciare i propri programmi. Uno di questi è l’Università della Florida: Spurrier non ci pensa due volte e accetta la proposta della sua alma mater. L’ateneo non è proprio quel che si dice una powerhouse della propria conference e possiede un appeal molto più limitato rispetto a quello cui siamo soliti attribuirgli oggi, prova ne sia l’incapacità di imporsi al vertice nei 57 anni di affiliazione alla SEC.

Il nuovo head coach esautora dagli incarichi chiunque non sposi appieno la nuova causa e importa nuovi schemi che prevedono il lancio costante della palla da parte del quarterback – la famigerata “Fun ‘n’ gun” – che immediatamente provocano lo scetticismo degli addetti ai lavori che scommettono su un nuovo cambio della guida tecnica a UF in meno che non si dica. Accade il contrario: gli avversari della SEC non riescono ad adeguarsi al nuovo sistema di Spurrier e i titoli di conference fioccano, con la ciliegina sulla torta della vittoria del titolo nazionale contro Florida State nel 1996.

Al coach di Miami viene accreditata inoltre la genesi del termine “The Swamp”, la palude, per indicare lo stadio di Gainesville, eclissando per sempre il più istituzionale nome di Ben Hill Griffin Stadium, “perché la palude è un luogo caldo e appiccicoso, dove soltanto i Gators (i coccodrilli, il nickname dell’università della Florida) possono uscirne vincitori”.

 

TERZA VITA: REBUILDING THE GAMECOCKS

Nel novembre 2004 l’ex allenatore di Florida (“dodici anni sono abbastanza: ho concluso il mio viaggio qua”) accetta la proposta di allenare a Columbia dopo una deludente parentesi nella NFL con i Washington Redskins. La sfida è ai limiti dell’impossibile: il programma è tutto da ricostruire, in odore di sanzioni e i migliori prospetti statali preferiscono scegliere atenei più titolati rispetto a quello di South Carolina. Le prime stagioni sono incoraggianti, ma manca lo squillo di tromba, l’unghiata del vecchio coach: che l’old ball coach – quasi un’allusione ad un sistema di gioco sorpassato – non sia più in grado di graffiare?

Stupidaggini, tanto è vero che nel 2010 Steve Spurrier ritorna a mietere successi: filotto di vittorie nell’Orange Crush (Florida, Tennessee e Clemson) e primo upset nella storia dell’ateneo contro un team accreditato del numero uno dalle classifiche nazionali.

Un progetto, una cavalcata che si impone all’attenzione di tutti lo scorso sabato: USC (il nome che lo stesso Spurrier vorrebbe che identificasse provocatoriamente South Carolina, in sfregio alla tradizione ben più radicata di Southern California) finalmente regala al suo incandescente pubblico il successo per 35 a 7 contro la numero 5 delle classifiche e rivale di conference, Georgia, lanciatissima nelle settimane precedenti. I protagonisti dei Gamecocks del 2012 ancora imbattuti? Il runningback Marcus Lattimore e il defensive end Jadeveon Clowney, guarda caso due prospetti d’elite di un recruiting che sa nuovamente imporsi entro i confini statali.

Il quarterback Conor Shaw, figlio di quella Georgia cui è stato costretto a dare un grosso dispiacere, ha lanciato la palla solo 10 volte: il camaleontico Spurrier, a 67 anni, stupisce il mondo limando le vecchie convinzioni e adattandosi al personale che ha a disposizione.

L’impressione è che South Carolina sia il team della SEC maggiormente attrezzata per impensierire la corazzata Alabama, la cui aura d’invincibilità incute ormai un timore semi-divino.

Il giudizio finora positivo sui Gamecocks uscirà rafforzato o indebolito dalle prossime due sfide esterne: la prossima settimana contro una LSU ferita dalla prima sconfitta stagionale rimediata contro Florida, poi proprio il viaggio alla Palude per una sfida da amarcord.

A questo proposito, siamo pronti a scommettere che coach Spurrier sarà pronto a regalarci una nuova, indelebile istantanea della sua vita sportiva. Come ci ha sempre abituati.

 

 

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