I caschi dorati dei Fightin Irish

La forza della tradizione. In questa semplice frase c’è tutto il fascino del college football. La maggior parte di noi ne è diventato appassionato non certo per la qualità delle prestazioni agonistiche, bensì per il fascino unico che caratterizza lo sport a livello universitario.

Viviamo in un Paese in cui si è soliti dimenticare il passato glorioso, in cui gli stadi vengono vissuti come troppo vecchi e in cui si ha fretta di abbattere per ricostruire qualcosa di nuovo e senza memoria.

Viviamo in un Paese in cui si assiste alle richieste dei tifosi del Torino per riavere lo stadio Filadelfia come un’anomalia anacronistica. Ed invece potrebbe essere intesa come una rivendicazione del senso di appartenenza di padri e figli che si tramandano negli anni.

Tutto questo sembra rivivere ogni weekend in occasione di molti match di college football.

Ma in che modo molti di noi si sono messi in contatto con questo mondo ricco di tradizioni, capace di rinnovare piccole leggende ogni sabato? Magari con un film?

Se la risposta è affermativa, allora probabilmente si sta parlando di “Rudy, il successo di un sogno”.

Per raccontarlo (a chi non avesse avuto la fortuna di vederlo), si può ricorrere ad una poesia di D.H. Lawrence “Non mi fu mai dato di vedere un animale in cordoglio di sé, un uccelletto cadrà morto di gelo giù dal ramo senza avere provato mai pena per sè stesso”.

Rudy Ruettiger è nato nel 1948, terzo di 14 figli. Il suo sogno, la sua ossessione è stata sempre sognato di giocare a football a Notre Dame, ma le sue doti atletiche ed i suoi voti erano nella media, cosa che gli impediva di entrare in uno dei college più prestigiosi d’America. Dopo il diploma, ha prestato servizio nella Marina Militare ed ha lavorato in una centrale elettrica.

A 23 anni, Rudy ottiene l’ammissione al Junior College di Holy Cross a South Bend e contemporaneamente decide di lavorare come manutentore del campo al Notre Dame Knute Rockne Stadium, pur di rimanere a contatto con la squadra.

Per un anno e mezzo Rudy chiede l’ammissione a Notre Dame ma viene sempre respinto. Dopo aver scoperto una lieve dislessia, Rudy migliora il suo rendimento scolastico, passa quindi i test di ammissione e riesce ad entrare a Notre Dame. Ma non bastava!

Quello che comunque sarebbe stato un successo per chiunque, per Rudy era solo un primo passo perché voleva prima di tutto giocare a football. Alla fine Rudy riesce ad essere inserito come giocatore della squadra scout, vale a dire quella contro la quale i titolari provano i giochi. Ma non bastava ancora! Rudy voleva giocare con la squadra dei titolari almeno un minuto.

A 27 anni (l’8 novembre 1975), Rudy  – nell’ultima partita della stagione, nella sua ultima partita come senior – riesce a calcare il terreno di gioco nei minuti finali e realizza il suo unico tackle in carriera sul quarterback di GT.

Alla fine della partita, Rudy viene portato a spalla fuori dal campo dai suoi compagni: ancora oggi è l’unico giocatore che sia mai stato portato fuori a spalla dai compagni di squadra.

E’ la storia quindi di un uomo che non ha mai mollato, che non si è pianto addosso per il suo punto di partenza… È una storia molto americana. Ma questa storia assume un carattere eroico perché si inserisce in un quadro – quello universitario di Notre Dame – da cui traspare la forza evocativa del senso di appartenenza a qualcosa di speciale che si tramanda di generazione in generazione.

E tutto trasuda di questo: lo stadio, gli spogliatoi, la pittura dei caschi.

Il film finisce e tu rimani lì a chiederti cosa si debba provare ad appartenere a quella università, cosa si debba provare ad entrare in quello stadio non come turista che si compra il diritto ad entrarvi pagando il prezzo del biglietto, bensì come studente che si è conquistato il diritto ad essere parte di qualcosa che si rinnova di volta in volta ad ogni ingresso dei giocatori in campo.

E allora cresce la curiosità nello scoprire cosa renda quell’atmosfera così unica: lo stadio? Le divise? I caschi dorati?

La classica immagine che abbiamo tutti noi appassionati di un qualsiasi sport che prevede un campo ed uno stadio è quel tuffo al cuore che abbiamo quando usciamo dalle scalette ed iniziamo a vedere gli spalti ed il campo verde. E’ una sensazione che ci portiamo dentro da quando siamo piccoli e che si rinnova ogni volta, anche fosse la millesima in cui entriamo in uno stadio. Dura magari un secondo, ma quel verde e quel muro di persone che si spalanca di fronte a noi dopo il buio delle scale è un momento impagabile.

E’ così che immagino anche il giorno in cui mi affaccerò al Notre Dame Stadium.
Provate ad immaginarlo: costruito nel 1930, può ora contenere 80.795 spettatori e registra il tutto esaurito dal 1966 con la sola eccezione di un match nel Giorno del Ringraziamento con Air Force nel 1973, in quanto – in quell’occasione – la data della partita fu modificata per andare incontro alle esigenze della TV e fu giocata con gli studenti assenti dal campus.

Il clima leggendario che aleggia su questo storico stadio si alimenta anche di dati del tipo: 25 stagioni senza sconfitte in casa, un ruolino di marcia che suona 276 vittorie, 80 sconfitte e 5 pareggi.

Non è però solo lo stadio a regalare quel senso di storia che si rinnova ogni settimana; ci sono anche altri particolari come:
– la banda che suona l’Alma Mater nella Cappella dell’Università il giorno prima della partita ed il giorno della gara stessa;
i giocatori che lasciano la Cappella a piedi per andare allo stadio scortati da due ali di tifosi;
ma soprattutto c’è lo spogliatoio ed in particolare quelle scale che portano al tunnel che conduce all’ingresso del campo.

Si esce dallo spogliatoio con quel blu sul pavimento per immettersi in un piccolo corridoio con delle scale che portano in basso e sulla parete sopra queste compare una scritta (forse una delle più famose al mondo, insieme al motto del Liverpool FC) blu su campo giallo: “PLAY LIKE A CHAMPION TODAY”. Ogni giocatore, scendendo le scale, tocca la scritta a suo modo (c’è anche chi non va avanti se prima non lo ha toccato almeno 3 volte!).

Relativamente recente è la tradizione, da parte degli studenti, di fare sollevamenti usando come pesi un altro tifoso in occasione di ogni touch down.

E cosa dire dei caschi d’oro? Quando ero ragazzino non volevo crederci e quando ho visto il film “Rudy” sono rimasto sbigottito nel rendermi conto che era tutto vero: alcuni studenti (team managers) erano incaricati di dipingere con dell’oro a 24 carati i caschi dei giocatori prima di ogni partita così da riproporre il colore della Cappella del Duomo di Notre Dame.

Sfortunatamente questa tradizione è scomparsa dal novembre del 2011 in occasione della prima partita in serale dal 1990 contro USC: i caschi continuano ad essere ricoperti con una patina d’oro a 24 carati, ma non vengono più dipinti dagli studenti dell’Università.

Termina così questo primo articolo, introduzione ad un viaggio che ci porterà all’interno dei programmi più ricchi di storia e tradizione del basket e football college.

6 thoughts on “La tradizione e il College Football a Notre Dame

  1. Alla fine della partita, Rudy viene portato a spalla fuori dal campo dai suoi compagni: ancora oggi è l’unico giocatore che sia mai stato portato fuori a spalla dai compagni di squadra!……a Notre Dame ha giocato anche un certo J.Montana…..e questo fa capire quanto questo ragazzo ha dato in sangue e amore per l’università

  2. Grazie a tutti per i complimenti. Sicuro come sono che ci unisca un pensiero come questo: quando mia moglie mi chiede cosa vorresti come regalo io le rispondo “una settimana passata a girare fra gli stadi del college football, a mangiare fuori dagli stadi, a passeggio fra i college popolati da ragazzi urlanti …. e poi sedermi i quei templi moderni a godermi 60 minuti senza pensare ad altro!”

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