Un film di Kristopher Belman. Con LeBron James, Dru Joyce, Romeo Travis, Sian Cotton, Willie McGee Documentario, – USA 2008.

LeBron e i suoi compagni al tempo del liceo, una grande storia di basket e amicizia.

 

Anche la storia di LeBron James è fatta di povertà, di voglia di riscatto, di successi e delusioni. Non fa eccezione il fenomeno mondiale fin dal suo anno da junior al liceo, il ragazzino sulla copertina di Sports Illustrated, già idolatrato in America e conosciuto in tutto il mondo.

No, le tracce di LeBron emergono dallo stesso cemento che è comune a quasi tutti i nostri baller oggi strapagati protagonisti del magico mondo chiamato National Basketball Association. E’ la storia sua e di chi lo circonda, perché anche la più lucente delle stelle non ha mai potuto sfilarsi dal gruppo, dalla normalità, dagli amici.

More than a game non è l’ennesimo arido documentario sull’ascesa del nostro divo oggi agli Heat ma un caloroso racconto di formazione di 5 amici e del loro coach che condividono la passione per il gioco e il cammino di vita oltre che di basket fino al diploma liceale.

In principio erano 4, riuniti in una piccola palestra di proprietà della Salvation Army, organizzazione protestante molto diffusa sul territorio americano dedita al volontariato e all’assistenza per i più bisognosi.

Siamo su Maple Street, ad Akron, cittadina di 200.000 abitanti a metà strada tra Canton (dove ha la sede l’Hall of Fame del football) e Cleveland (“speaking of LeBron”…) nello stato dell’Ohio, quello di “Joe the plumber”, simbolo dell’americano middle-class che è il cuore pulsante dell’America che lavora e che fu piatto prelibatissimo sia per Obama che per McCain nelle Presidenziali del 2008.

Dru Joyce II accompagna il suo figlioletto omonimo a giocare a basket ogni settimana, è uno dei tanti genitori che sogna per il proprio bambino un futuro da campione. Lui però è più testardo degli altri e viene incaricato di mettere su una squadra itinerante per il torneo AAU.

C’è suo figlio, piccolissimo e gracile, ma veloce e dal buon tiro, c’è Willie McGee, il più talentuoso della sua età in città, timido ma più maturo degli altri, c’è Sian Cotton, corpaccione prestato dal football per prendere rimbalzi e dare quel minimo di intimidazione sotto canestro e poi c’è LeBron, lampi di genio su un fisico che cresce molto in fretta.

Il talento c’è ma è l’ultima cosa che conta. Prima di tutto c’è un gruppo di ragazzini uniti che si divertono. I Fab Four vincono praticamente tutte le partite e arrivano alla finale nazionale. LeBron tira da metà campo per la vittoria, la palla esce di poco. Non importa, anche se nessuno dimenticherà le facce di quegli antipatici degli avversari, sbruffoni e viziati.

Ad Akron gente come i nostri amichetti vanno dritti alla Buchtel HS, il liceo pubblico di quasi soli afro-americani. No, lì Dru si sente solo preso in giro per la sua altezza, al contrario ha conosciuto coach Keith Dambrot ed è nato un grande feeling.

Dru ha deciso di giocare per lui, al liceo privato, cattolico, di St. Vincent – St. Mary, nonostante il padre fosse nello staff della Buchtel. E i tre amici ?

Lo seguiranno subito senza indugi, perché l’amicizia nata in giro per gli States nel torneo AAU è troppo grande perché le strade si possano separare, nonostante le critiche della comunità nera della città per non essere andati in massa nel posto dove tutti si aspettavano dovessero giocare.

La strada è spianata per il successo. Il documentario va dritto come un treno attraverso gli anni di high school dei nostri ometti che crescono a pane e basketball, nel frattempo si unisce anche Romeo Travis, isolato in un primo momento poi anche lui parte della gioiosa macchina da guerra che asfalta tutti.

Vinceranno tre volte su 4 il titolo dello stato, nonostante l’abbandono da traditore del coach per University of Akron. Al suo posto proprio papà Dru, figura paterna anche per LeBron che il suo non l’ha mai veramente conosciuto.

Uno dei migliori documentari sul basket, sorprendente anche perché inatteso. Ci si aspettava una lunga ode a King James, ne è uscito invece un bellissimo spaccato di un’America che si è ritrovata tra le mani un fenomeno e lo ha accudito prima, poi osannato, infine anche punito.

Punito per la troppa fama da quei bacchettoni del board direttivo delle scuole dell’Ohio, che lo resero ineleggibile a giocare perché aveva accettato come regalo due magliette da un negozio. Le regole dicono che un non-professionista non può flirtare con i dollaroni, in nessun modo. In questo caso solo tanto ipocrisia e una voglia malcelata di richiamare agli ordini un ragazzino che si era montato troppo la testa.

A buon ragione però, perché i palazzi si riempiono per vedere lui e fanciulli di 16 anni e poco più, perché lo scontro contro Carmelo Anthony e la sua Oak Hill ebbe lo stesso trattamento mediatico della NBA Finals, perché ancora tutti lo vogliono anche semplicemente toccare come se fosse il Dio del basket e forse qualcosa di più.

Non avevano torto. Intanto lo si vede tornare da professionista NBA nella sua camera e ammettere candidamente che sulle pareti c’erano appesi i poster di tutti i suoi eroi, all’angolo lo spazio tutto per Michael Jordan (come ancora nella mia cameretta, vicino la finestra) poi c’è Allen Iverson e poi anche lui, quel Kobe Bryant suo grande rivale per la poltrona di numero 1 della NBA odierna.

“Cosa farai adesso ?”, gli chiedono dopo la vittoria in finale al suo anno da senior, quindi all’ultima partita. Il film finisce qui, con LeBron intento solo a festeggiare.

Del domani si avrà tempo a parlare ma nel frattempo c’è da godersi gli ultimi atti di un capitolo della sua vita tanto caro e gioioso.

Verrà dopo la NBA, Cleveland e poi Miami, le Finals perse, i titoli di MVP, tutto dopo. Una storia ancora in corso di cui riparleremo più avanti per emettere definitiva sentenza. Non importa adesso. A noi interessa guardare e riguardare questo bellissimo documentario.

Guardare questi ragazzini divertirsi insieme, sul campo e fuori, Dru che prende in giro tutti con la rivincita del piccoletto, Romeo che era si era convinto di unirsi alla squadra solo perché con la divisa addosso avrebbe avuto più colpo sulle ragazze, Willie che silente fa quello che diligentemente deve fare e Sian che giustamente dà preferenza al football nello stesso giorno di una gara decisiva perché con la palla ovale ci si può guadagnare la borsa di studio e quindi un futuro al college.

LeBron è solo uno di loro. Oh ragazzi, stiamo scherzando ? Le immagini sul campo sin da bambino nel torneo AAU fino a tutta la carriera liceale non hanno prezzo, sono semplicemente fantastiche.

Non meno di quegli occhi però, dei suoi e di quelli dei suoi coetanei. Non importa cosa succederà dopo, l’importante è crescere secondo sani principi e con le proprie passioni andare fino in fondo.

Guardo i loro sguardi giovanili ed è come se cantassero i loro sogni. Se non si ha avuto questo non si avrà mai nulla. Aveva ragione il poeta, “gli occhi del bambino non li danno proprio indietro mai”.

L’unica immagine che conta è in questo film.

2 thoughts on “More than a game

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