Inizia la March Madness, e gli occhi dell’America cestistica si spostano per qualche giorno sul mondo dei college – compresi quelli dei protagonisti NBA che come ogni anno si cimentano nella compilazione del bracket (stendiamo un velo pietoso sui pronostici della vostra redazione preferita…)

Anche tra i professionisti, però, sono stati sette giorni ricchi di eventi; poco piacevoli, per la maggior parte, con alcune delle squadre favorite per il titolo che perdono pezzi. Qualche equilibrio, nella tesissima corsa ai playoff, comincia traballare.

 

LUNEDÌ 12 MARZO – PARTY LIKE IT’S 1999

Steve Kerr non era così caldo da quando Michael gli passò quel pallone nelle Finals 1997

 

Dire che i Golden State Warriors non stanno vivendo il momento migliore della stagione sarebbe un eufemismo, con gli infortuni che fanno piovere sul bagnato e gli Houston Rockets stabili in corsia di sorpasso verso la vetta della Western Conference. Sui brutti chiari di luna dei campioni in carica torneremo più avanti, ma nella baia sembrano avere comunque una gran voglia di festeggiare.

L’occasione è il trentesimo compleanno di Steph Curry, che oltre a ricordare al sottoscritto suo coetaneo quanto poco abbia combinato nello stesso lasso di tempo, stimola i compagni di spogliatoio a organizzargli un party coi fiocchi. Quando guadagni qualche milioncino ogni anno, in fondo, non puoi mica festeggiare con una banale cena in pizzeria. Ecco allora che Steph si presenta sulla scena a bordo di uno yacht e nel locale affittato dai Warriors non sembrano mancare alcool, bella compagnia e chissà quali altri strumenti ricreativi.

Mattatore della nottata, a giudicare dalle immagini che sono trapelate via web, dev’essere stato coach Steve Kerr, che ha dimenticato i dolori alla schiena e si lancia nel ballo al centro della pista. Mike Brown che gli fa da partner è il segnale che lascia intendere quanto la situazione sia scappata di mano, e infatti il referto di fine party è peggiore di quello successivo a una partita conclusa al doppio supplementare. Occhiaie, stomaco sottosopra, qualche vuoto di memoria; l’allenamento del mattino dopo è rimandato a data da destinarsi.

 

MARTEDÌ 13 MARZO – CEN-TO! CEN-TO! CEN-TO!

Intanto, nella bolla di Russell Westbrook tutto procede normalmente, e per andare in trasferta a Toronto – che fa freddino – è opportuno mettersi il tutone da olimpiadi invernali griffato Ralph Lauren

 

Facciamo finta che il titolo non sia una citazione a “OK, il prezzo è giusto!” con l’intramontabile Iva Zanicchi, e andiamo subito al nocciolo della questione. Russell Westbrook, si sa, divide l’opinione pubblica come pochi altri hanno fatto prima di lui e persino la stagione migliore in carriera, quella della tripla doppia di media, sembra avergli attirato più haters che supporters. Che non sia il giocatore perfetto è chiaro a tutti, ma altrettanto cristallino dovrebbe essere il valore assouto di un atleta d’impatto generazionale, capace di trascinare la propria squadra tra le migliori della Conference con prestazioni a tutto campo.

L’attuale stagione l’aveva cominciata con circospezione, tutto teso a stabilire una sintonia coi nuovi arrivati Anthoyny e George, ma ci è resi conto in breve tempo di come i Thunder girassero al meglio quando Westbrook poteva scatenarsi senza freni; ecco che nel giro di pochi mesi navighiamo di nuovo nei pressi della tripla doppia di media, e pur tra gli alti e bassi tipici di una squadra costruita più sull’album di figurine che sul campo, i Thunder sanno azzeccare vittorie da lustrarsi gli occhi. Nella notte, durante la sfida coi derelitti Atlanta Hawks, Russell totalizza la tripla doppia numero 100 e sfonda per la seconda volta la porta dei record. Di quel club esclusivo fanno parte soltanto Oscar Robertson, Jason Kidd e Magic Johnson, ma Westbrook si è iscritto a un’età giovanissima; mantenendo il passo attuale, scipperebbe il primato a The Big O in men che non si dica.

Critiche o meno, a noi Westbrook piace così.

 

MERCOLEDÌ 14 MARZO – LA MALINCONIA DI ANDREW WIGGINS

Intendiamoci: stiamo pur sempre parlando di un giocatore in grado di fare numeri di questo tipo

 

Non tutti, a Minneapolis, sembrano addolorati dall’infortunio che sta tenendo Jimmy Butler lontano dal parquet. La squadra ha accumulato qualche sconfitta di troppo e ha perso posizioni sulla griglia dei playoff, ma le cifre di Andrew Wiggins sono aumentate sotto ogni aspetto. Con un volume più alto di tiri a disposizione, e un maggior numero di palloni che passa per le sue mani, la prima scelta del draft 2014 ha ritoccato verso l’alto totali e percentuali di realizzazione, recuperando quel ruolo di go-to-guy che fino all’anno scorso condivideva con Karl Anthony Towns. In sette partite le situazioni di isolamento sono passate da 1.6 a 3.0 per partita, salendo da 0.65 a 0.85 punti per possesso.

La notizia del giorno viene dalla bocca dello stesso Wiggins, che secondo alcune indiscrezioni avrebbe preso ad esempio proprio le recenti prestazioni per lamentarsi del ruolo di secondo piano rivestito quest’anno. I buoni risultati dei Timberwolves, che si sono affacciati fino al terzo posto nella Conference, hanno in effetti nascosto quel problema strutturale di cui si parlava in estate. Wiggins e Butler sono due giocatori simili; se l’uno può alleviare il carico difensivo dell’altro, il rischio è che finiscano per pestarsi i piedi in attacco, soprattutto in assenza di un tiro da tre particolarmente affidabile.

Al di là dei sospetti e dei reali sentimenti di Wiggins, sui quali comunque dovrebbe prevalere un atteggiamento professionale in virtù del contratto importante che lo lega alla franchigia, la polemica insinua l’ennesimo dubbio sulla gestione Tom Thibodeau, gli stessi già evidenziati nel suo stint a Chicago. Thibs è un coach granitico con idee altrettanto inattaccabili. Quando si affeziona a un giocatore proverà a portarselo dietro ovunque (in Minnesota è appena sbarcato anche Derrick Rose, e Taj Gibson è un titolare inamovibile da novembre). Noto è poi il modo in cui spreme gli starter; il suo quintetto di riferimento, fino al momento dell’infortunio di Butler, aveva giocato 1086 minuti totali, 200 in più dei secondi in classifica – cioè gli starter di Charlotte. La via mediana scelta dalla dirigenza, insomma, col talento dei giovani Wiggins e Towns affiancato a un massiccio blocco di veterani, ha portato a risultati immediati ma potrebbe non riservare grandi auspici per il futuro.

 

GIOVEDÌ 15 MARZO – MANU, BRACKET BUSTER

Emanuel David Ginobili, quando gli partono i cinque minuti, si esibisce in trucchetti che avrebbero reso orgoglioso Eddie Guerrero

 

Manu Ginobili è stato fin dagli esordi un giocatore d’intelletto, e man mano che la prestanza fisica calava ha imparato a fare affidamento sempre di più su scaltrezza e malizia. Assomiglia, insomma, a quell’amico che ti dice di puntare tutto su Virginia vincente nel torneo NCAA, e poi se la ride sotto i baffi mentre la vedi perdere al primo turno contro una misconosciuta numero 16 del tabellone.

Nella partita di giovedì notte l’argentino ha bersagliato il povero Anthony Davis con una serie di giochetti da vero guastafeste. Le sue vittime preferite, come James Harden in un memorabile Spurs-Rockets dell’anno scorso, sono stelle lanciatissime che non hanno tempo per guardarsi intorno e s’innervosiscono quando qualcuno mette loro i bastoni tra le ruote. Prima Ginobili stoppa Davis nascondendosi alle sue spalle, proprio come farebbe il giocatore attempato del playground sottocasa, poi si prende una sonora spallata pur di farsi fischiare uno sfondamento – d’altronde, non lo chiamano El Contusiòn per niente. Infine, a forza di provocarlo, lo adesca pure al fallo tecnico.

Gli Spurs strappano una vittoria che è merce rara di questi tempi, con il ritorno di Kawhi Leonard che si sta facendo attendere più a lungo del nuovo album dei Tool. I Pelicans, invece, si sono un pochino raffreddati dopo la striscia vincente guidata proprio da uno straordinario Davis. Negli stessi giorni, tra l’altro, una nota dolente ha rattristato la settimana dell’intera New Orleans. All’età di 90 anni si è spento Tom Benson, storico owner di Pelicans e Saints, figura di riferimento per la città, divenuta però controversa dopo lo spostamento dei Saints in seguito all’uragano Kathrina.

 

VENERDÌ 16 MARZO – MAL COMUNE, ZERO GAUDIO

Costretto a saltare la trasferta, Steph si photoshoppa nella foto di squadra. Diciamo che per i Warriors, fare fronte agli infortuni è un po’ come alzare la difficoltà del videogioco da “facile” a “media”

 

Vi dovevamo un aggiornamento sullo stato di salute dei Golden State Warriors, e il bollettino dell’infermeria non è buono. Il birthday boy Stephen Curry è fermo ai box già da qualche giorno, colpa di quella caduta sulla caviglia malandata di cui vi ha raccontato Giorgio la settimana scorsa. Ancora più preoccupante è l’infortunio occorso a Klay Thompson, una frattura al pollice della mano destra. Per ora dallo staff parlano di sette partite di riposo, ma servirà una nuova valutazione nei prossimi giorni.

Durante la partita coi Timberwolves, davvero una serata sciagurata, si fa male anche Kevin Durant che accusa una frattura alle costole, sul lato destro. Anche nel suo caso la timetable è fissata a due settimane, ma nell’ambiente si vocifera che i Warriors possano prendersela comoda, senza rischiare un rientro affrettato per le loro stelle salvaguardandone invece la salute in vista dei playoff. Tirare i remi in barca con un mese d’anticipo significherebbe, con tutta probabilità, cedere il primato nella Western Conference agli Houston Rockets con conseguente fattore campo in un’eventuale serie di sette partite.

Presi tra due fuochi, i Warriors per ora non si esprimono sulla strategia da seguire e Steve Kerr non sembra preoccupato dalla situazione. Intanto, però, è costretto a schierare improbabili quintetti col solo Draymond Green a fungere da ancora e Nick Young libero di sparare a canestro qualsiasi pallone gli passi per le mani. In cabina di regia il sostituto di Curry si chiama Quinn Cook, che sembra essersi guadagnato la conferma per il resto della stagione: nella notte, mentre i modesti Kings approfittano della blanda opposizione di Golden State per raggranellare una W, Omri Casspi si iscrive alla lista infortunati con una distorsione alla caviglia e aggrava l’emergenza.

 

SABATO 17 MARZO – NO REST FOR CLEVELAND

Altro giro, altra settimana, altro highlight di LeBron – i miei personalissimi two cents per la schiacciata dell’anno

 

Se Atene piange Sparta non ride, come direbbe Mentana. Forse avevamo tutti cantato vittoria troppo presto di fronte all’entusiasmo dei Cleveland Cavaliers post-All Star Break. Di certo il roster a disposizione di Lue si è ringiovanito e ha allontanato un paio di piantagrane dallo spogliatoio, aprendo alcune prospettive tattiche di grande interesse, ma il nuovo gruppo fatica a trovare continuità: un po’ perché è difficile indovinare i giusti equilibri in corso d’opera, e un po’ perché anche in Ohio gli infortuni stanno tagliando le gambe alla squadra.

Kevin Love è fermo da tempo per un problema alla mano e non ha ancora avuto l’occasione di dividere il parquet coi nuovi compagni. Tristan Thompson è alle prese con una distorsione alla caviglia, secondo infortunio stagionale per lui, e di recente hanno fatto tappa in infermeria anche Cedi Osman, Rodney Hood e Larry Nance Jr – peraltro assai positivo in sostituzione di Thompson. Se aggiungiamo l’assenza per motivi personali di Kyle Korver, il quintetto schierato nella notte contro i Chicago Bulls era costretto a fare di necessità virtù, con un Josè Calderon tirato fuori dalla naftalina per 36 minuti di tachicardia sul parquet. Insieme a lui un insospettabile Ante Zizic come boa sottocanestro, gli stacanovisti Jeff Green e George Hill più qualche scampolo di partita concesso a John Holland e London Perrantes.

Vittoria o sconfitta che sia – contro i Bulls arriva finalmente un successo, anche se risicato – l’aspetto più positivo dei nuovi Cavs è il coinvolgimento di LeBron James, sempre bendiposto nei confronti dei compagni e pronto a fare gli straordinari ogni notte, senza alzare un sopracciglio. Non a caso ha già staccato il record personale di triple doppie in stagione: con quella registrata a Chicago siamoa quota 15 (a 33 anni, ma di cosa stiamo parlando?) Detto questo, tra i vari problemi di salute che dovrebbero aggiustarsi in vista dei playoff c’è un’altra magagna che preoccupa la panchina dei Cavs, ovvero il malessere che per ben tre volte in stagione ha costretto Tyronn Lue a lasciare la squadra nelle mani del vice Larry Drew. Dalle parti di Cleveland nessuno si sbilancia su cosa affligga il coach, né lo stesso Lue ha lasciato trapelare alcuna informazione. Si spera, ovviamente, per il meglio.

 

DOMENICA 18 MARZO – E.R., CELTICS IN PRIMA LINEA

Kyrie Irving, di questi tempi, è più acciaccato del suo alter ego Uncle Drew

 

Come nelle migliori puntate di E. R., il pronto soccorso della NBA è affollatissimo. Da Boston arriva un bastimento carico di giocatori infortunati, e purtroppo non c’è un brillante George Clooney a risolvere in quattro e quattr’otto la situazione. Daniel Theis ha riportato la rottura del menisco ed è già finito sotto i ferri, un’operazione che segna la fine prematura della sua stagione. Il tedesco era un nome di secondo piano nel roster di Brad Stevens, ma si era imposto come solida alternativa ai lunghi titolari fino a diventare parte importante delle rotazioni. L’infortunio di Marcus Smart, autentico sesto uomo della banda, lascia strascichi ancora più gravi. All’ex Oklahoma State serviranno un paio di mesi per rimettere in sesto un legamento del pollice, lasciando i Celtics privi della propria àncora difensiva a meno di una playoff run particolarmente profonda.

Jaylen Brown deve ancora superare il concussion protocol, mentre Kyrie Irving si è preso un periodo di riposo. Ha un ginocchio dolorante da tutta la stagione, colpa di quella rotula saltata nelle Finals 2015 che in post-season lo costringerà a un’operazione chirurgica di pulizia, e lo staff gli ha consigliato di preservare l’articolazione in vista dei playoff. Per i Celtics vale un discorso simile a quello fatto per i Warriors: saldi in seconda posizione, con dei Raptors decisamente più in forma che sembrano scappare via, potrebbero rassegnarsi a schierare quintetti improbabili (nella sconfitta di stanotte coi Pelicans si è visto anche il francese Yabousele) centrati su Horford e Tatum, difendendosi per quanto possibile dall’assalto di Wizards, Pacers e Cavaliers.

In settimana ha fatto parlare di sé un ex Celtics, uno di quelli che per motivi non necessariamente cestistici è rimasto nel cuore di una città che spesso si appassiona ai personaggi, prima che ai giocatori. Glen “Big Baby” Davis è stato pizzicato dalla polizia del Maryland con 126 grammi di marijuana in tasca: poco male, se non fosse che si portava dietro pure 100.000 dollari in contanti insieme a un libro mastro, da bravo contabile della droga. La sua risposta alla notizia? Un video dove mangia pollo fritto, mostra con nonchalance i soldi che sbucano dalla valigetta e invita tutti a non credere a quello che si vede su internet. Non sono sicuro di quanti strati di ironia servano per comprendere il suo commento.

Sperando che la prossima settimana il mio collega possa presentarvi più basket giocato e meno resoconti da infermeria, io passo e chiudo. Vi invito a scatenarvi con qualsiasi domanda vi venga in mente, sui temi della settimana e non solo; sceglieremo le migliori, tra i commenti agli articoli e su Facebook, e risponderemo sulla nuova rubrica Five Questions. Intanto, per questo episodio di 7 for 7 è tutto, anche per Giorgio Barbareschi, con un saluto e un ringraziamento da Andrea Cassini.

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