Onestamente è ancora difficile credere che Kobe sia morto. Era un giovane uomo di 41 anni che aveva appena iniziato a scrivere il secondo capitolo della sua vita oltre il campo da basket. E lo aveva già fatto con successo.

Sono scioccato. Davvero non ho parole, non ci credo. Quando per un po’ di tempo la notizia data in anteprima su TMZ non aveva ancora trovato riscontro sui principali siti americani, CNN e ESPN compresi, ho sperato per un attimo che si potesse ancora trattare di un abbaglio.

Pochi ma lunghissimi minuti e tutto diventa tristemente ufficiale. Kobe è davvero morto. Fa troppo strano scriverne, fa troppo strano vedere il suo volto nei necrologi.

Diciamo sempre che chi ci lascia prematuramente sia stato in vita un essere speciale. Posso dire per una volta che Kobe speciale lo era davvero, sul campo e fuori.

L’eco della sua tragedia si fa più fragoroso perché è morto in un incidente, perché sono scomparse in tutto 9 persone e con lui la figlia tredicenne.

Stavano andando ad una gara di basket. Il gioco lo ho portato alla vita pubblica da superstar e lo stesso gioco è stato l’ultimo viaggio verso il quale stava volando.

Un ultimo beffardo colpo del destino. Solo il giorno prima era tornato sulle prime pagine perchè LeBron, in maglia Lakers, lo aveva superato come numero di punti segnati in carriera.

LeBron aveva sottolineato quanto fosse stato importante ispirarsi a lui come modello, allo stesso modo di come Michael Jordan ne sia stato prima l’idolo con Kobe.

Michael. Kobe. LeBron. Ho sempre creduto che lo scettro sia passato di mano tra di loro. La trasmissione si è interrotta in mezzo nel suo anello di congiunzione, proprio in lui che è stato l’unico ad aver giocato contro gli altri due, replicando al più alto livello le gesta di Michael e sfidando a duello il giovane LeBron.

Sapete bene chi era il giocatore, di quanto abbia vinto sul campo, dei suoi numeri, dei suoi trofei. Ora riguarderemo tutti i suoi highlights, sono i suoi dipinti che sopravviveranno per sempre alla morte dell’artista.

Mi preme parlare però d’altro ora. In realtà sarebbe tutto superfluo perché è davvero difficile scrivere in memoriam di un giovane uomo col quale sei cresciuto insieme e del quale hai ancora il poster in cameretta.

Kobe ha esordito in NBA quando io avevo appena iniziato a seguire questo gioco meraviglioso. Era un ragazzino acerbo arrivato direttamente dal liceo.

Su NBA Action ammiravo estasiato i suoi primi flash di quello che sarebbe arrivato. Lo guardavo una volta, due, dieci, cento. Erano gli anni dell’innamoramento ed era nato il nuovo fenomeno che avrebbe traghettato l’NBA verso il nuovo millennio.

Non ho mai avuto la fortuna di vederlo giocare dal vivo ma lo vidi di persona una volta sola. Era a Roma per un evento pubblicitario.

Su Via del Corso c’era tanta gente e Flavio Tranquillo recitava il ruolo di maestro di cerimonie, annunciando come un deejay la venuta del nostro eroe.

Tutti gli altri passati di lì loro malgrado non capivano il senso del delirio. Non potevano capire. Una romana di passaggio chiese stufata “Ma chi è questo ? Cos’è tutto sto casino ?” e alla risposta di tanti seguitava a non comprendere che per un giocatore di basket si potesse fare tutto quel chiasso.

Era un giocatore del primissimo livello, ovvio, questo è certo. Per una volta però posso dire senza essere tacciato di retorica che Kobe era un ragazzo unico. Aveva qualcosa dentro che gli altri non potevano né avere né appunto comprendere, come la signora scocciata su Via del Corso.

Cosa aveva dentro di sé Kobe ? Innanzitutto aveva una passione enorme per il gioco. Non è scontato. Non tutti i giocatori ne sono possessori, anche qualcuno tra i più grandi.

Ma andava oltre. Era un ragazzo intelligente. Non penso ci siano molti che abbiano avuto lo stesso livello di comprensione profonda del gioco. Era una mente superiore per questa nostra passione che si chiama basket.

Quando il cuore e il cervello si incontrano in un abbraccio nasce il meglio che si possa esprimere. Non è scontato a questo livello. Non giocava soltanto bene, era avanti su tutti.

Anche quando ha smesso era un passo avanti. Le sue parole di addio al gioco ora commuovono ancora di più e dalla sua penna è stato creato un corto che ha vinto anche un Oscar.

Kobe è il bambino che sogna di segnare il tiro della vittoria con i Lakers al vecchio bellissimo Forum. Kobe sogna nella sua cameretta arrotolando i calzini perchè ne nasca quel pallone che lo porti alla gloria.

Lo abbiamo fatto tutti. Kobe è stato fortunato perché ha perfettamente realizzato questo suo sogno. Ha espresso il massimo del suo potenziale, non può avere nessun minimo rimpianto per la sua legacy da giocatore NBA.

Ha insegnato a lottare oltre gli ostacoli, come i terribili infortuni, quindi ad andare avanti. Perchè Kobe esce di scena a modo suo, sul suo campo. 60 punti e tutti a casa, a costruirsi con fiducia una nuova vita.

Non è raro, direi che è unico che un giocatore NBA sia capace di tanta sensibilità e anche di un sincero e semplice tocco creativo.

Si distingueva dalla massa, forse per questo è stato il bersaglio di troppe ed ingiuste critiche.

L’ho sempre difeso da ogni accusa. Dicevano fosse presuntuoso in quel suo atteggiarsi a nuovo Michael Jordan. “Non ci sarà mai nessuno come MJ” strepitavano, è vero, ma lui si è avvicinato lassù in alto come nessun altro, per ruolo e stile di gioco, per l’impatto che ha avuto, per le vittorie ottenute. Questo suo elevarsi è stato commovente.

Lo chiamavo “FantastiKobe” commentando su questo sito le sue imprese nei playoff. Veniva travolto dall’odio, nonostante l’evidenza sul campo, forse proprio per questo. Ero un suo piccolo non richiesto ed indegno avvocato difensore, ho sempre creduto in lui e l’ho sempre idolatrato.

Cosa aveva dentro di sé Kobe ? E’ l’aspetto che mi ha sempre più incuriosito. Ovviamente non posso dire di averlo conosciuto quindi la mia è solo un’impressione, maturata negli anni vedendolo giocare e leggendo storie.

Ho sempre percepito che avesse dentro il suo cuore qualcosa che lo motivasse profondamente ad essere il migliore, a superare i suoi limiti.

Non è solo questo. Per me Kobe aveva il bisogno dirompente di dimostrare che era capace di fare bene, fosse principalmente sul campo ma anche se non soprattutto fuori.

Aveva il bisogno di smentire la gente che non lo credeva capace. Aveva l’esigenza vitale di poter essere accettato per quello che lui sognava di essere.

Il più grande possibile sul campo, lì in alto vicino a Michael Jordan, uno dei migliori di sempre, il più grande in maglia Lakers, il leader finalmente senza l’ombra enormemente ingombrante di Shaq di una squadra che vince il titolo.

Ma era fuori che Kobe non si sentiva pienamente amato, ancor di più non si sentiva rispettato. Ho sempre immaginato che avesse un piccolo demone dentro e che coltivasse un’insoddisfazione tanto profonda quanto nascosta.

Perchè amavo Kobe alla follia ? Perchè il miracolo di Jordan si era incarnato in lui ? Si, ma perchè avevo intuito, forse mi sono sempre sbagliato, chissà, forse era davvero così, avevo intuito insomma che la sua guerra ad essere il migliore partiva da dentro il suo cuore.

Forse era per sentirsi pienamente accettato nella comunità afro-americana e di quella NBA imperante allora tutta catenine d’oro al collo che tentò di rifarsi il look da rapper. Non gli uscì molto bene.

Forse voleva solo apparire nei ranghi di un modello dominante, non voleva dare di sé un’immagine troppo buonista ed estranea al contesto di giocatori che si costruiscono il look di maschi duri se si lanciò quella volta su una ragazza in quell’albergo in Colorado.

Non hanno beccato tanti, hanno preso proprio lui con le mani nel sacco e gli si è rivoltata l’infamia di un’accusa di stupro. Erano tutte menzogne ma il danno fu enorme.

Come Obama nato alle Hawaii alla periferia dell’impero da madre bianca Kobe è stato motivato dalla voglia di tacciare chi non lo riteneva ad ogni buon diritto parte di una comunità.

Non parlava lo slang metropolitano e Philadelphia è una città difficile. Lo emarginarono. Lui si sentiva un corpo estraneo. Ho la presunzione di dire che la scarica gli venisse da lì, da quel suo sentirsi strano ed incompreso, non come tutti gli altri che gli stavano intorno.

Poi mi si chiede perchè l’ho amato troppo. E’ cresciuto in Italia, tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia. Ha mantenuto un rapporto stretto col nostro paese e parlava benissimo la nostra lingua.

Ciao Kobe, sei stato il mio giocatore “favorito”, come dicevi tu in italiano, volendo intendere “preferito” e facendomi per questo sorridere.

Per te sono andato a visitare il tuo liceo quando ero a Philadelphia, mi sono perso nel suburbano della città a tanti chilometri dal centro, quando ormai s’era fatto buio ed era pieno inverno, sono andato in pellegrinaggio alla Lower Merion High School solo per fare uno foto del segno del tuo passaggio, dell’inizio di una carriera e della vita adulta.

L’ho fatto per te come lo avrei fatto solo per pochissimi altri, ora che è tutto finito ti vorrei dire solo una cosa.

In queste ore e in questi giorni tutti ti dicono queste poche parole, tu che parli la mia lingua puoi comprendermi senza filtri, caro Kobe, ti dico qualcosa che va oltre l’amore e che è difficile da rendere in inglese, oltre questo “I love you” che tutti ti mandano ora commossi.

Siamo cresciuti insieme Kobe, per questo ti dico, cogliendo le sfumature che avevi dentro di te e che gli altri non hanno mai compreso.

Ti dico “Ti voglio bene”, Kobe.

Tu mi capisci, non c’è bisogno d’altro.

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