La Stagione Nba 2018/2019 è definitivamente in archivio da qualche giorno, dopo l’ultimo atto in quel di San Francisco.
Chiusa con il più incredibile dei finali perché, diciamocela tutta, i Toronto Raptors sono riusciti in un’impresa che può tranquillamente essere catalogata come il più clamoroso upset della storia delle Finals, in un anno in cui le circostanze e gli oggettivi rapporti di forza tra le candidate al Larry O’Brien Trophy sembravano indirizzare il tutto verso un inevitabile three-peat di Steph Curry e co.

Con Lebron già in vacanza e il folle buzzer-beater del futuro MVP delle Finali che ha decretato la precoce eliminazione dei 76ers – per molti l’unica squadra in grado di giocarsela su sette partite con i campioni in carica – l’epilogo della post-season sembrava scontato, tutt’al più c’era da capire di che colore sarebbe stato il pullman per la parata della vittoria tra i saliscendi di Frisco. Un pronostico padellato in pieno.

Grazie agli dei del basket abbiamo assistito a due mesi di playoffs tra i più belli degli ultimi anni culminati in un epilogo esaltante a prescindere dal risultato finale che ha mostrato al mondo tutto ciò che una finale NBA dovrebbe essere e che forse ultimamente era un po’ mancato: la mano degli allenatori, gli adjustments (quelli veri), la tensione, le lacrime, l’orgoglio delle superstar e la voglia dei sidekick di imprimere il loro nome nella storia.

Quanto accaduto in questi Playoffs avrà un riverbero notevole sull’immediato futuro di alcuni tra i più importanti protagonisti della Lega. Molti punti interrogativi a proposito dello status di alcune superstar, dell’impatto che alcuni avvenimenti occorsi potranno avere sul mercato dei free agents, della possibile fine di una dinastia e così via.

Si può provare dunque a riassumere in cinque punti le principali lezioni da apprendere da quanto visto in queste settimane di postseason.

1) Kawhi Leonard ha ridato dignità al concetto di Franchise Player

Ovviamente è d’obbligo partire da Lui (in maiuscolo, non è un refuso). Dopo la separazione dagli Spurs in vista del suo ultimo anno di contratto, Toronto per Kawhi doveva essere un’alloggio temporaneo in attesa di potersi stabilire magari in una mansion di Bel Air e chissà, magari il suo ordine di idee inizialmente era su questa linea.

Sta di fatto però che lungo il prosieguo della stagione il californiano ha dato la percezione di essere sempre più integrato e sempre più leader di una squadra che è riuscito a far sua e viceversa. Probabilmente una questione di sensazioni, di vibrazioni, d’altronde è palese che questo ragazzo senta e veda le cose in modo diverso dagli altri. Difficilmente un’altra superstar avrebbe fatto ciò che lui ha fatto in una stagione così particolare.

Si fa molta fatica a trovare un termine di paragone per i playoffs disputati dall’ex Spurs. Un robot in canotta biancorossa, mai un barocchismo, mai nulla oltre l’essenziale, asciutto, concreto, dannatemente efficiente aldilà delle statistiche mostruose della sua playoff-run. Leonard ha dominato la postseason, a modo suo certo. Se Jordan e Kobe attendevano con pazienza l’attimo giusto per sferrare l’attacco e spazzar via l’avversario, il suo è piuttosto “soft power”, un dominio gentile.

Non credo che in questo momento Leonard sia necessariamente il più forte – nonostante nessuno riesca ad avere la sua continuità both ends – ma, con buona pace di Skip Bayless che continua e continuerà provocatoriamente a definirlo il “number 2”, senza dubbio incarna come nessun altro all’interno della Lega l’epitome del franchise player, concetto un po’ annacquato e svilito nella NBA moderna dei superteam e delle star più propense a reciprochi salamelecchi che ai cari vecchi feuds.

Kawhi e i Raptors ci hanno ricordato che si può vincere così anche nell’era volgare d.w. (Dopo Warriors): una superstar e un onesto cast di supporto attorno. Non “Leonard e gli altri” ma “Leonard con gli altri”, la working class che va in paradiso con Van Vleet e Green, la voglia di Kyle Lowry di togliersi di dosso il marchio impressogli dopo tante postseason disastrose e quella di Ibaka di lasciare un segno significativo e mettersi finalmente l’anello al dito dopo che non meno di un anno fa nella serie persa senza appello contro i Cavs aveva dato l’impressione di essere, senza mezzi termini, bollito.

Anche se, come insegna Ben Franklin, nella vita c’è da star sicuri solamente riguardo la morte e le tasse, si può essere propensi a credere che la permanenza di Leonard in Canada sia in questo momento più probabile di un futuro in maglia gialloviola e probabilmente lui è il primo ad essere consapevole del fatto che nonostante l’anello e il titolo di MVP qualora firmasse per i Lakers, per i media e non solo, il tutto si riassumerebbe come “Kawhi alla corte di King James”. Un po’ deprimente per chi ha dimostrato di poter condurre la sua squadra al tetto del mondo, da n. 1, da giocatore franchigia sconfessando l’idea che al titolo ci si possa arrivare soltanto ammassando All-Star.

Se Leonard decidesse di rifirmare coi Raptors sarebbe l’ulteriore conferma della sua “singolarità” in un contesto che, ahimè, risulta sempre più lontano dall’epoca dei vari Bryant, Iverson, Nowitzki, ecc., cosicché magari qualcuno, ad altre latitudini – chissà perché mi viene in mente Houston – possa capire che il combinato disposto di un vero giocatore franchigia, un supporting cast degno di questo nome e un manico di livello in panchina può essere vincente anche nell’epoca dei superteam.

2) Il sistema di Golden State non è la via alla pallacanestro

Un anno fa o giù di lì, il buon Charles Barkley nel corso di una delle sue usuali ospitate radiofoniche al “Dan Patrick Show” si era esibito in una memorabile tirade contro il trend generale delle squadre NBA di voler imitare il sistema offensivo degli Warriors riassumibile in buona sostanza nell’assunto per cui un simile sistema di pallacanestro funziona molto bene se hai dei tiratori del livello di Curry, Thompson e KD (e io aggiungerei anche un elemento come Green senza il quale non ci si potrebbe permettere quel tipo di circolazione di palla) ma è molto meno efficace e performante quando cambia il livello degli attori in campo.

Gli infortuni di Durant e Klay Thompson mostrando una Golden State giocoforza più “umana” hanno esposto questa verità dando ragione al buon vecchio Chuck.

Attenzione con ciò non si vuol sostenere che un quintetto con Curry, Draymond Green, Cousins, Iguodala + 1 non sia competitivo. L’insegnamento che ci arriva dalle Finali è che un simile concetto di basket è talmente radicale da poter funzionare al 100% soltanto in un contesto di talento radicalmente peculiare e qualora vi siano altri interpreti in luogo dei titolari usuali, il decremento della qualità dell’esecuzione e qualche ingranaggio inevitabilmente meno oliato possono permettere alle difese di fare delle scelte ed esporne i punti deboli sicché l’idea che si possa considerare il basket degli Warriors come l’unica possibile declinazione del gioco o la via al titolo NBA, senza considerare che per nessun’altra squadra sia minimamente praticabile avere in campo una simile quantità di talento, vuol dire condannarsi a perdere e riperdere. E a dimostrarci questo sono stati per l’appunto gli stessi Warriors.

Forse è l’ora che le altre squadre, rette da allenatori forse troppo pigri per sviluppare un proprio sistema di pallacanestro credibile – sembra passata una vita dagli anni in cui le sfide tra Jackson, Popovich, Larry Brown, Sloan, Carlisle, Don Nelson, rappresentavano il confronto tra diverse concezioni del gioco – e legate al culto fondamentalista delle analytics, lo capiscano e anche in fretta.

3) Il ridimensionamento di Russell Westbrook

Pochi giri di parole. Se ti chiami Russell Westbrook, sei considerato un uomo copertina per l’intera NBA, sei stato l’MVP, sei il re delle triple doppie, domini ogni statistica in stagione regolare e al primo turno di playoff vieni sovrastato cinque partite su cinque da un pari ruolo che soltanto due anni fa per qualcuno non era abbastanza star per andare all’All-Star Game vuol dire che

  • c’è chi si è svegliato un po’ troppo tardi a proposito di Damian Lillard
  • forse è il caso di rivedere l’altezza del piedistallo su cui è stato posto il play di OKC.

E non a caso infatti, la ripassata che i Blazers hanno rifilato alla squadra di coach Billy Donovan sembrerebbe aver finalmente destato l’opinione pubblica e i principali commentatori portandoli a rendersi conto definitivamente della discrasia fra il Westbrook da regular season con conseguente hype e le sue performance deficitarie da Aprile in poi, ossia quando conta per davvero.

A Dame Dolla va riconosciuto il merito di aver fatto in modo che non pochi “distratti” improvvisamente ricordino il choke-job nelle finali di conference del 2016, lo 0 su 14 nell’ultimo quarto contro i Rockets di due anni fa, l’assenza ingiustificata nelle prime quattro gare della serie contro i Jazz dello scorso anno con successivo “ritorno” quando ormai i buoi erano abbondantemente scappati via, ecc.ecc.

Nessun tiro al bersaglio. Semplicemente la tardiva presa di coscienza del fatto che se un giocatore viene così tanto strombazzato ma allo stesso tempo fallisca puntualmente nei momenti che definiscono di che pasta sia fatto un cestista NBA, ci sia oggettivamente qualcosa che non va in lui ma soprattutto in chi ha creato così tanto hype attorno a lui.

Sentire oggi che la point guard dei Thunder manchi di clutch gene, che spesso lasci che le partite gli sfuggano anziché arrivare a lui (cit.), che non sia in grado di rendere migliori i compagni di squadra, che non abbia l’IQ per essere il franchise player di una squadra da titolo sembra, francamente, un canestro a cronometro abbondantemente scaduto.

4) Simmons l’incompreso

I Philadelphia 76ers si approcciavano a questi playoffs con parecchie motivazioni e una buona dose di pressione addosso. La squadra era chiamata a mostrare i primi risultati concreti del famoso “Process”, abbandonare un claim divenuto stucchevole e iniziare a fare sul serio, ad andare all-in, per citare una copertina di Sports Illustrated del febbraio scorso che ritraeva le stelle di Phila compreso Tobias Harris, al tempo un sixer nuovo di pacca.

Risviscerare nel dettaglio come siano andate le cose per i 76ers servirebbe soltanto ad infierire e se ne può tranquillamente fare a meno. Tuttavia c’è un aspetto dei loro playoffs molto rilevante, soprattutto per il futuro prossimo della franchigia, che non si può non mettere sotto la lente d’ingrandimento.

Nessuno ha potuto fare a meno di vedere come, in particolare negli ultimi quarti della serie con Toronto, coach Brett Brown abbia sostanzialmente destinato Ben Simmons, ossia la point guard della squadra, a ciondolare lungo la linea di fondo, sostanzialmente osservando quel che facevano gli altri quattro compagni. Davanti ad una situazione del genere, come minimo si può pensare che nel contesto tecnico di Philadelphia qualcosa non quadri.

L’idea che un giocatore, seppur abbondantemente dotato dall’Onnipotente, non possa avere il ruolo che gli compete a causa della mancanza di shooting skills – frase che suona molto bene nella NBA del 2019 – sembra sia diventata la scusa perfetta per coach Brown per coprire l’incapacità di creare un sistema di pallacanestro armonica in cui la sua point guard sia sulla stessa pagina dei vari Butler ed Embiid.

Quella dell’ex capo allenatore della nazionale australiana è stata una vera e propria scelta di campo: esautorare l’australiano quale “creatore” di gioco e venire incontro alle richieste di Jimmy Butler di portar palla e iniziare l’azione, incrementando l’uso del pick ‘n roll ma allo stesso tempo correndo il rischio che l’ex Bulls arrivasse agli ultimi minuti in deficit di benzina, riducendone perciò l’efficacia di finalizzatore.

Esattamente ciò che si è manifestato nell’ultimo quarto di gara 7 con Toronto: il 23 cotto, squadra senza idee e incapace di eseguire dei giochi perlomeno decenti e contemporaneamente Simmons confinato al ruolo di spettatore non pagante.

Che il prodotto di LSU rappresenti una sfida anche sfrontata alla filosofia dominante nella Lega è pacifico, allo stesso modo è semplicemente ottuso e ideologico sostenere che un giocatore dotato di una visione e di una capacità di creare gioco semplicemente uniche possa rappresentare un problema o un punto debole.

O meglio, l’idea che non si possa implementare un progetto di pallacanestro in grado di farlo esprimere al meglio, senza per questo limitare i compagni di squadra – en passant la teoria per cui le caratteristiche dell’australiano danneggino il gioco di Embiid è facilmente smentibile statistiche alla mano – somiglia molto da vicino ad una bestemmia cestistica.

Tutto ciò non vuol dire escludere a priori il fatto di lavorare su alcuni aspetti del suo gioco ma non si dica, per piacere, che Ben Simmons debba impostarsi come fosse un Jordan Clarkson qualsiasi.

5) Un team disfunzionale non può cambiare direzione così facilmente

Se qualcuno vi dicesse di aver previsto ad inizio anno i Boston Celtics come una delle principali delusioni della stagione le risposte sono due: o il tizio in questione ha la sfera magica o, più probabilmente, è un bugiardo.

Una stagione simile chiusa con un’eliminazione brutale al secondo turno forse poteva essere il sogno di qualche haters radicale della franchigia del Massachusetts. Boston era considerata la squadra ad Est con il miglior roster, il miglior sistema di pallacanestro e il miglior head coach e inoltre la migrazione di Lebron verso la costa del Pacifico rendeva altamente realistica la possibilità che Kyrie Irving potesse portare fino in fondo quello stesso gruppo che senza la sua presenza l’anno precedente era andato ad un passo dalle Finals.

Ovviamente le cose sono andate diversamente. In stagione regolare nello spogliatoio di coach Stevens si sono manifestati contemporaneamente tutti, o quasi, i possibili problemi di un simile contesto di gruppo: l’ego del suo franchise player è tracimato nel modo più devastante in un profluvio di malumori malcelati in campo e fuori, dichiarazioni, atteggiamenti passivo-aggressivi; la competizione tra i veterani e gli ambiziosi giovani ha sostanzialmente sbriciolato la chimica del gruppo; i rumors di una trade per Davis hanno ulteriormente destabilizzato la situazione creando incertezza attorno ai possibili partenti.

Questi fattori e non solo questi, hanno trasformato una potenziale macchina di pallacanestro in uno dei team più instabili e disfunzionali dell’intera Lega.

In realtà successivamente alla trade deadline, nonostante il rendimento della squadra proseguisse su una linea di totale mediocrità, qualcuno ha provato a fare da “pompiere”, facendo credere, o perlomeno provando a far credere al mondo NBA che la squadra stesse riuscendo a risolvere i propri problemi e persino lo stesso Irving aveva a più riprese mostrato ai giornalisti un atteggiamento molto più conciliante e positivo.

Non che in tutto ciò fossero particolarmente credibili ma sta di fatto che la fiducia nella squadra era tornata a salire e quando i Celtics, dopo aver sweepato al primo turno i Pacers (orfani di Oladipo), si erano permessi di espugnare il Fiserv Forum rifilandone 22 ai Bucks anche grazie ad un’eccellente prestazione di Uncle Drew, Paul Pierce si era permesso di dichiarare con invidiabile certezza che la serie era bell’e finita.

La convinzione che una squadra in totale crisi emotiva potesse ad un certo punto girare la chiave e cambiare il flusso della propria stagione, è durata giusto qualche giorno. Dopo gara 3 era chiaro che, nonostante sulla carta vi fosse ancora la possibilità di rimontate, le ultime due partite sarebbero state una formalità.

Il body language di Kyrie in gara 4 e 5 era lo stesso del carcerato a pochi giorni dal fine pena e i suoi compagni, probabilmente, se avessero potuto avrebbero dato da subito forfait onde interrompere l’agonia di una stagione disastrosa che, la storia insegna, non poteva terminare altrimenti.

2 thoughts on “Cinque lezioni insegnate dai Playoff NBA 2019

  1. Sembra quasi che nessuno abbia visto le finals, la fine dei super Team? Leonard con un onesto cast di supporto? Il più grande upset? A me sembra un piccolo upset, siakam, gasol,lowry sono più che onesti. Non apriamo nemmeno il capitolo Durant sennò altro che fine dei super team, sareste qui a scrivere il contrario ma vabbe. A me un team con tutte quelle stelle fa girare i coglioni, ma non dimentichiamoci come hanno perso almeno.

  2. Ciao, non sono assolutamente d’accordo con il discorso del “grande upset”; specifico: onore a Toronto che con una squadra buona ha saputo approfittare delle situazioni e vincere un titolo; titolo che sarebbe stato assolutamente un miraggio anche se (out Durant) ci fosse stato in campo almeno il solo Klay. Poi, lato GS, stanchezza ed i piccoli ma costanti infortuni di Iguodala, Looney ecc han fatto il resto – che per trasparenza…fanno parte del gioco….ma così…è stato anche troppo!

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