A Ovest, dove le favorite hanno ogni anno come unico scopo tentare un minimo avvicinamento ai Warriors, gli Houston Rockets sono quelli più in ritardo in classifica.

Ed è senza dubbio una sorpresa visto il rendimento dei ragazzi di D’Antoni nella passata stagione quando dominarono la Regular Season prima di soccombere solamente alla bella in finale di Conference giocando inoltre le ultime due partite senza il loro giocatore più carismatico e forte in difesa: Chris Paul.

L’imprevista (o prevista?) dipartita di Leonard dagli Spurs per il primo anno senza nessun Big Three, la trade dell’anno (o del decennio) a Hollywood e l’addio di Anthony a OKC per giungere in “zona Cesarini” nel Texas hanno mutato gli equilibri costringendo ogni head coach a cambiamenti tattici difficili da assimilare nel breve tempo e ponendo ognuna di queste quattro franchigie, ovvero sia le contenders di Golden State, in un almeno iniziale periodo di transizione.

Tanto per cambiare in quel dell’Alamo sembrano essere usciti meglio dai blocchi nonostante oltre ai vecchi senatori si ritrovino a non avere per tutta la stagione i servigi del giovane Murray; LeBron si è posto nel migliore dei modi coi nuovi compagni puntando più al loro coinvolgimento che a proprie improvvisazioni a costo di lasciare per strada qualche W ed in quel di Oklahoma City piano piano si comincia a vedere la luce in un gioco più corale che in passato.

I problemi a Houston invece pare siano iniziati dai rinnovi di Chris Paul (160 mln in quattro anni) e Clint Capela (90 in 5), fondamentali leaders dentro e fuori dal campo, soprattutto essenziali come mentalità e sicurezza nelle partite che contano.

Purtroppo non si può avere nulla senza rinunciare a qualcosa, specie a livello di bilanci e salary cap: per questo due pedine fondamentali come Trevor Ariza e Luc Mbah a Moute sono andate perse.

La vera novità però è arrivata al minimo salariale verso fine mercato con l’arrivo di Carmelo Anthony dai Thunder, convinto (sai che fatica) a rinunciare ad una casacca in Georgia, proprio mentre gli Hawks pubblicavano via social la nuova jersey dell’ultimo idolo.

Vogliamo provare a spendere una parola positiva per il fenomeno di Syracuse, capace in tutti i suoi anni NBA fino al 2017 di restare tra i 21 e quasi 29 punti di media a partita divenendo uomo franchigia sia ai Knicks che ai Nuggets, giocatore al quale però nessuno è mai riuscito ad inculcare una mentalità fatta di sacrificio, attenzione difensiva e divisione di possessi coi compagni di reparto.

Non può però il 19° miglior marcatore di sempre, per questi ultimi motivi, divenire la causa di ogni insuccesso o mancanza di vittoria finale per qualunque squadra arrivi a servirsene: lo fu per Denver, per i Thunders lo scorso anno e ora per i Rockets, coi rumors che danno per certo un suo imminente taglio.

Non tutti possono nascere attaccanti ingiocabili e trasformarsi in MVP all round; infatti Dominique Wilkins, Alex English, George Gervin o ancor prima Dan Issel non sono mai diventati Oscar Robertson, MJ, Kobe o LeBron!!

Quel che farebbe di Melo un valore aggiunto è il giusto utilizzo in un giusto contesto e nel giusto momento di una partita da parte del suo coach. Ciò che né George Karl, Mike Woodson e tanto meno Billy Donovan hanno provato a fare, consentendo al trentaquattrenne di Brooklyn eccessive improvvisazioni, isolation ed un numero immane di tentativi dal campo tralasciando il lato difensivo della contesa.

Anche qui a Houston la disattenzione a marcare l’avversario è stata evidente ma il ruolo concessogli da Mike D’Antoni ha permesso alla squadra una ventata ed un break offensivo entrando dalla panchina che ha creato strappi e accelerazioni utili ad aggiungere varianti sia in post alto che nel tiro dall’arco, con la migliore percentuale al tiro sia da due che dalla lunga degli ultimi cinque anni e 14 di media da sesto uomo. E’ qui che purtroppo entra in gioco un incredibile ego: il minutaggio inferiore al passato e l’assenza dallo starting lineup sembra siano le cause dei suoi malumori e del probabile addio. Così come lo stesso coach pare stia ormai affidando i suoi compiti a Gary Clark.

D’altronde da quando l’ex Simac Milano è divenuto l’allenatore dei Rockets la squadra lo ha seguito da subito mettendosi anima e corpo a giocare uno stile senza mid-range e fatto esclusivamente di tiri da tre punti e conclusioni al ferro, alto numero di possessi e James Harden in cabina di regia a dettare i tempi.

Questo sistema gli ha consegnato il premio di coach dell’anno, al team una semifinale di Conference (San Antonio) e con l’arrivo di “specialisti” come Paul, P.J. Tucker e Luc Mbah a Moute la già citata finale contro Golden State.

Ciò che sorprende in questo inizio di stagione non sono le ovvie e previste difficoltà difensive dovute più alle cessioni che all’arrivo di Anthony, ma quelle di un attacco che lo scorso anno arrivò quasi al primo posto per punti a partita. Togliamo da questa considerazione la sconfitta a basso punteggio di Oklahoma City (52 a 39 il dominio a rimbalzo) contro una squadra maestra nella copertura e che, se trovasse una fluidità anche nel gioco offensivo senza individualismi e forzature, potrebbe divenire l’avversario da battere per Curry e compagni.

Come sostenuto dal patron Tillman Fertitta è importante non farsi prendere dal panico dopo un record iniziale al 50% ed attendere giorni migliori che coi giocatori in rosa ed il recupero degli acciaccati arriveranno di sicuro, soprattutto alla luce delle scarse performances di James Ennis, dovute agli infortuni, che non hanno permesso al coach di inserire l’ex Grizzlies in nuovi meccanismi di copertura.

Retroguardia che specialmente dopo la batosta coi Clippers (la seconda con più di 130 subiti) ha fatto suonare molti campanelli d’allarme con 118,8 a partita, il 25° posto per Defensive Rating e 114,7 punti avversari ogni 100 possessi. Difesa che si è “sciolta” nel primo momento di difficoltà portando i senatori ad intervenire a livello psicologico.

Contro Nets e Bulls ci sono stati evidenti miglioramenti sia tecnici con maggiore attenzione dentro l’area che mentali col motivazionale discorso di CP3: si è infatti atteso il momento giusto per accelerare senza perdere la bussola dopo i break avversari ed in più ad Indianapolis (con finalmente l’ottima prova di J.E.) per lunghi tratti si è rivista la feroce ed asfissiante marcatura nel perimetro.

Senza Ariza e Mbah a Moute Houston ha perso due cardini di quella difesa che era stata fondamentale per costruire la marcia del 2017 con 65 vittorie. Oggi gli ultimi baluardi lì dietro sono Paul, Capela e PJ Tucker lasciando ai solisti le incombenze offensive.

La squalifica di due partite di Chris Paul dopo la rissa coi Lakers, lo stop di Ennis e l’infortunio di James Harden hanno costretto D’Antoni a rivedere di nuovo il quintetto, aumentando la confusione.

Si sono anche susseguite voci di mercato per “rattoppare” i buchi ed il primo nome venuto fuori rappresentava l’eccellenza in entrambe le fasi. Secondo Espn i Rockets avrebbero messo sul piatto quattro scelte al primo giro ‘19/’25 (il massimo per il regolamento NBA) per convincere Minny a separarsi da Jimmy Butler aggiungendo anche Marquese Chriss e Brandon Knight. JB è un super difensore oltre che un talento innato in attacco.

Il suo arrivo avrebbe dato ai tifosi un quintetto da dream team e un ruolo primario nella corsa ai Warriors sacrificando però il futuro a lungo termine, fatto essenziale per ogni franchigia!! Vedendo l’età degli attori protagonisti si sarebbe arrivati ad un TUTTO E SUBITO!!

La firma coi 76ers ha chiuso una lunga telenovela che forse servirà a Houston per rimettersi in carreggiata senza farsi distrarre ed ingolosire da una rivoluzionaria trade di mercato (Melo-Drama a parte), nella quale si sarebbe forse arrivati a sacrificare un super giocatore come Eric Gordon (quel che realmente avrebbero voluto i Timberwolves), già Sixth Man of the Year nonché buon difensore, gagliardo attaccante ed esperto uomo squadra.

La brutta sconfitta divisionale coi sempre vivi Spurs ha messo in mostra proprio una deconcentrazione latente in ognuno dei giocatori, dai partenti ai subentrati: pick & roll, mismatch in post alto e una sequenza di tiri dalla lunga senza un’adeguata marcatura. Da adesso in poi bisogna ripartire e con più calma attendere l’assestamento del nuovo roster.

Col rientro a pieno regime di Harden come direttore d’orchestra sarebbe ovvio il miglioramento della fluidità di manovra con nuova linfa vitale per l’attacco, così come il ritorno in forma di chi finora ha steccato o è stato assente!

La classifica della Southwest in qualche settimana dovrebbe essere più bella a vedersi anche se la distanza da chi precede (San Antonio su tutti) è già preoccupante. Impossibile sarà ottenere di nuovo il primo seeding nel draw dei playoff, prerogativa determinante lo scorso anno per contrastare i campioni.

Lo scopo principale del futuro prossimo è ricreare quella aggressività difensiva specialmente lontano da canestro che aveva quasi portato al miracolo la scorsa stagione e che ora si vede a tratti. Sta al buon Mike ritrovare la quadra e resettare questo brutto start di stagione.

One thought on “Tutti i problemi dei Rockets

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.