La stagione 2017-18 ha sostanzialmente rispettato i pronostici dettati dai rapporti di forza tra le trenta franchigie NBA, al netto di qualche sorpresa come la cavalcata di Boston oppure il tracollo di Toronto; viceversa, si profila all’orizzonte un 2018-19 dai contorni ancora incerti, aperto da un draft preparato a carte rigorosamente coperte, seguìto da una free agency che determinerà nuovi equilibri per anni a venire.

Non potrebbe essere altrimenti, perché se alcune superstar in scadenza erano pressoché certe del proprio domicilio (Kevin Durant, fresco MVP delle Finali, e Chris Paul) tenevano comunque banco le scelte di Paul George (rimasto a sorpresa in Oklahoma) DeMarcus Cousins e ovviamente LeBron James, senza contare lo status del tutto particolare di Kawhi Leonard, in uscita da San Antonio con un anno d’anticipo sulla scadenza del proprio contratto e determinato a vestire giallo-viola.

Nemmeno a dirlo, King James è al centro degli incastri; corrono tempi votati agli estremismi, e la sua è una figura cestistica che non lascia indifferenti (in un senso o nell’altro). Immaginiamo che questa Decision III, pur all’insegna della sobrietà e condita da buoni sentimenti e rimandi alla beneficenza (come fu per i proventi della Decision originale) non mancherà di scatenare una corsa al superlativo.

Valutare il lascito di una carriera (e le scelte che la compongono) è un’operazione insidiosa: esprimersi a caldo significa scrivere in assenza di prospettiva; il trascorrere del tempo invece rasserena il dibattito, ma forza paragoni tra ere cestistiche lontane; a complicare ulteriormente l’assunto, in uno sport di squadra meriti e demeriti individuali non sono cartesianamente accertabili.

Per tutti questi motivi chi scrive diffida del concetto di GOAT; è un approccio dal quale nasce la (personalissima) difficoltà a fare i conti con l’iscrizione che capeggia dinnanzi allo United Center sotto la statua di Michael Jeffrey Jordan: “il migliore di tutti i tempi”, e fin qui sono opinioni, ma come si fa a stabilire “il migliore che mai ci sarà”?

A scontare quest’assioma è stato soprattutto il più credibile tra i “next Jordan” (una lista eterogenea di epigoni che spazia da Felipe Lopez a Vince Carter) e cioè Kobe Bryant, la cui inferiorità al modello è una conclusione insita nella premessa dell’insuperabilità di His Airness; the dice was loaded from the start, cantavano gli immortali Dire Straits.

Kobe Bryant riuscì a competere con Michael in termini di “drive” (parole del Jordan) e di padronanza dei fondamentali, rimanendo indietro quanto a stamina e forza fisica, ma superando il modello per qualità di playmaking (parole del Jackson), range di tiro e uso della mano sinistra; Bryant però non poteva ricostruire a tavolino l’epica meravigliosa della carriera di Michael.

 

 

LeBron ha scelto una strada più radicale: anziché cercare di essere Like Mike (campagna pubblicitaria Gatorade d’inizio anni ’90), Nike gli ha cucito addosso quel geniale We are all Witness che suggerisce allo spettatore il ruolo di testimone passivo dell’epifania lebroniana, accantonando al contempo il modello dettato dai suoi predecessori.

Kobe Bryant e Michael Jordan avevano bisogno di vincere per dimostrare la propria forza, mentre per LBJ gli anelli sono uno scontato corollario al proprio talento, ed è forse per questo che James ha rotto lo schema storico del campione legato ad una franchigia, spostandosi di volta in volta nella situazione giudicata migliore.

Scelte addirittura impensabili ai tempi di Oscar Robertson (intrappolato a Cincinnati e capofila nella lotta per l’introduzione della free agency) ma normali nell’NBA del 2000, diventata Player’s League fino in fondo e popolata di ragazzi cresciuti giocando basket AAU e digiuni di senso d’appartenenza (e non è colpa loro, beninteso).

LeBron non è mai stato al servizio delle franchigie per cui ha giocato, semmai è stato vero il contrario. MJ fu forgiato da Pop Herring e Dean Smith, gente con le idee chiare circa il proprio ruolo e quello dei giocatori, mentre tra Dan Gilbert e LeBron James si è innescata una dinamica bizzarra, basata più sui rapporti di forza che sul rispetto.

Fosse stato per Jordan, i Bulls non avrebbero mai firmato Horace Grant, Scottie Pippen, e tantomeno Bill Cartwright; Jerry Krause aveva però le spalle coperte dalla proprietà, e questo gli infuse la sicurezza necessaria per fare quel che reputava giusto. Se Chicago si fosse lasciata spaventare dalle sfuriate di Michael, non sarebbero mai diventati la squadra leggendaria che ha segnato gli anni novanta.

MJ era senza mezzi termini un bullo in cerca di attenzioni (lo descrive così James Worthy, che fu suo compagno a Chapel Hill) eppure era al contempo capace di ascoltare le persone che reputava autorevoli; per guadagnarsi il suo rispetto bastava non indietreggiare (Steve Kerr docet). LeBron invece, pur meno aspro caratterialmente, ha sempre dato l’impressione d’esser impermeabile ai punti di vista altrui.

Possiamo in fondo capirne la titubanza nei confronti del povero Mike Brown, ma è meno comprensibile l’atteggiamento passivo-aggressivo verso Erik Spoelstra e Pat Riley, o verso David Blatt. Persino Kobe, che pure ha distrutto tante relazioni (professionali e umane) aveva una ristretta cerchia di confidenti capaci di farlo ragionare (Tex Winter, Jerry Buss, Jerry West) mentre LeBron resta un mistero per tutti.

LBJ non ha mai trovato un allenatore del quale si volesse fidare –con Luke Walton sarà diverso?– non si è mai neppure piegato ad un sistema di gioco, e, ritornato ai Cleveland Cavs, ha preteso di fare pentole e coperchi, dimostrando tutta la propria forza e i propri limiti; avesse dato una chance a coach Blatt e alla Princeton Offense, forse Kevin Love avrebbe avuto un impatto da vero All-Star. Non avesse accentrato così tanto, forse avrebbe persino convinto Kyrie Irving a restare.

Soprattutto, James ha tenuto in scacco la franchigia, imponendo contratti con opzioni annuali; era la sua assicurazione nei confronti di una proprietà ritenuta non all’altezza (con qualche ragione, a ben vedere), ma si è tramutata in un boomerang, perché la sbandierata inadeguatezza del supporting cast è dipesa dall’impossibilità di “vendere” la presenza a lungo termine di LBJ ad un qualsiasi free agent di peso.

Può darsi che a far breccia nel muro che James tiene tra sé e il resto del mondo dei canestri ci abbia pensato Kobe Bryant, con il quale intrattiene un rapporto fattosi vieppiù cordiale nel corso degli anni. Il Black Mamba ha costruito un ponte con Magic Johnson, ed è stato Magic a vendergli in modo convincente l’idea di vestire la casacca dei Los Angeles Lakers e il relativo retaggio.

Questa terza Decision era stata ventilata da tempo (da Lee Jenkins e Brian Windhorst, due giornalisti “di scuderia”) ma allo stesso tempo pareva persino più improbabile rispetto al ritorno in Ohio del 2014, perché L.A. è lontana dal poter competere ai massimi livelli, e lo sarà anche se dovesse riuscire ad espugnare l’Alamo per riportare in Southern California Kawhi Leonard, in rotta totale con Gregg Popovich e con lo spogliatoio.

King James si è esposto con un contratto lungo (153 milioni se non uscirà dal contratto nel 2021) palesando fiducia nella capacità di Pelinka e Magic di costruirgli attorno una squadra vincente. È un notevole cambio di passo rispetto alla formula dell’1+1 di Cleveland, e persino rispetto ai tempi di South Beach (in quel caso firmò un 4+2, ma era molto più giovane e la squadra era immediatamente competitiva).

 

Per giunta LBJ si è lasciato alle spalle i due guanciali della Eastern Conference: esiste quindi il rischio concreto di fermarsi al secondo turno di Playoffs, perché questi giovani Lakers non sono affatto scarsi come qualcuno insiste a descriverli (35 vittorie, sì, ma con tantissimi infortuni) ma Rockets e Warriors restano assai distanti.

Nel frattempo Los Angeles ha puntellato il roster con una serie di manovre che aumentano il tasso d’esperienza, senza però compromettere la flessibilità salariale nella prossima estate; Kentavious Caldwell-Pope ha firmato un altro contratto annuale da 12 milioni, e sono arrivati Lance Stephenson e JaVale McGee, oltre a Rajon Rondo, che contenderà lo spot di play titolare a Lonzo Ball.

L’idea è quella di sviluppare per un altro anno i giovani (Ball, Ingram e Kuzma) mettendo loro quella pressione indispensabile per crescere e maturare. Se KCP è una firma congeniale allo stile di gioco di LeBron, c’è grande curiosità di vederlo vicino a Stephenson e in fondo anche a Rajon Rondo, che ha una reputazione di pessimo tiratore in parte immeritata (le ultime tre stagioni da dietro l’arco recitano 36%, 37% e 33%).

L.A. ha manifestato interesse per Clint Capela in quella che sembra più che altro una manovra di disturbo (Daryl Morey può pareggiare ogni offerta e non crediamo se lo farà sfuggire dopo aver già perso Trevor Ariza), mentre sul fronte Kawhi si è arrivati ad uno stallo; l’MVP delle Finals ’14 ha detto a chiare lettere che nel 2019 firmerà per i Lakers, e questo ha scoraggiato ogni altra franchigia interessata ai suoi servigi.

Chi infatti, scambierebbe i propri pezzi pregiati, nella speranza di fargli cambiare idea? È andata bene ai Thunder con Paul George, ma Sam Presti aveva disperatamente bisogno di una stella, e a ben vedere, per averla cedette quelle che in quel momento sembravano pedine sacrificabili e dallo scarso appeal –Domantas Sabonis e Victor Oladipo– mentre San Antonio pretende una contropartita altissima.

 

La sfida a poker tra Lakers e Spurs rimarrà sullo sfondo, oscurata dalle tante considerazioni che la firma di LeBron impone; la supposta “normalizzazione” dei Los Angeles Lakers –grazie ai nuovi contratti collettivi– si è rivelata un’operazione di malaccorto wishful thinking. Una volta recuperata credibilità a livello dirigenziale, Los Angeles è tornata ad essere una meta concupita –perché si potrà pur essere celebrità globali anche da Cleveland, ma vivere a Brentwood è un’altra cosa.

Attenzione però: non è solo e soltanto una questione di soldi, o di visibilità, e tantomeno di stile di vita. Si può abitare in qualche splendida villa sulla spiaggia di Santa Monica anche giocando per i Clippers, ma la franchigia del mitico Steve Ballmer non offre (per ora) quel contesto vincente che tanto stuzzica e affascina le stelle più brillanti del firmamento NBA.

Giocare ai Lakers significa respirare la storia del basket a stelle e strisce come può capitare solo ai Boston Celtics; significa frequentare figure leggendarie del Gioco, patrimoni inestimabili di sapienza cestistica che si identificano col club e ne rappresentano la storia (non solo i giocatori; basti pensare a Gary Vitti, Rudy Garciaduenas, Bill Bertka) ed è probabilmente questo ad aver colpito l’immaginazione di LeBron James.

A trentatré anni, senza più nulla da dimostrare e senza debiti di riconoscenza verso Cleveland, LeBron ha abbracciato una nuova sfida: affidarsi ad una franchigia che ha la vittoria nel sangue, lasciando che siano Magic e Pelinka a costruirgli attorno un gruppo col quale conquistare altra gloria, e che potrebbe rivelarsi il suo retaggio più duraturo.

3 thoughts on “I Lakers, LeBron e il fascino della Storia

  1. concordo con l’utente precedente veramente un aritcolo ben scritto

  2. Insomma, bentornati ai Lakers che, non subito, torneranno contenders per il titolo. Ero sicuro che Lebron sarebbe finito a LA sponda Lakers: destinazione più che prevedibile per rilanciare la piazza, per i suoi affari e per il business in generale. L’articolo è perfetto e descrive esattamente cosa sia e cosa sia stato Lebron finora. In ogni caso, chiunque lo vorrebbe nella propria squadra. Non so se però sia Walton l’allenatore giusto per questi Lakers…., non ha né l’esperienza né il carisma per regolare Lebron. Finirà che quest’ultimo farà anche a LA il coach….

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