La Finale NBA 2018 vedrà in scena il quarto episodio della rivalità tra Golden State Warriors e Cleveland Cavaliers, franchigie capaci di riproporsi sul massimo proscenio cestistico mondiale con una costanza mai vista prima, perché persino le leggendarie sfide tra Celtics e Lakers degli anni sessanta e ottanta non erano mai andate oltre la doppia finale consecutiva prima che un terzo incomodo facesse capolino, interrompendone il dominio.

Molti commentatori sui principali siti e network americani (e non solo) si chiedono se questa ripetitività sia un bene per l’NBA, ma ci sembra più corretto constatare il dato di fatto senza volerne trarre indebite conclusioni, anche perché restiamo ancorati al principio per cui gli eventi sportivi non possono essere valutati nell’ottica dell’audience televisiva (come una serie TV) quanto piuttosto sotto un profilo squisitamente tecnico.

Questo clamoroso dominio dipende dalla forza di due franchigie dotate d’inusitata forza mentale e tecnica, per quanto non si possa nascondere che a battere le varie pretendenti al trono (Spurs, OKC e Rockets) ci abbia sempre pensato G-State, che, per motivi geografici, è destinata a battagliare con gli squadroni della Western Conference.

Nondimeno, anche i Cavs sono riusciti a trovare motivazioni ed energie anche quando sarebbe stato facile accontentarsi e accampare scuse, che pure ci sarebbero state: basti pensare agli infortuni occorsi allo sfortunatissimo Kevin Love, che nei Playoffs del 2015 diede forfait al primo turno contro Boston, e che si è ritrovato a fare lo spettatore anche negli ultimi due episodi della Finale di Conference appena conclusa, sempre contro i Celtics. LeBron James si è sincerato che nulla di tutto questo avvenisse, garantendo ache alla versione meno convincente della sua Cleveland di approdare alle Finals.

Le due dominatrici dell’NBA moderna sono storiche ex franchigie-barzelletta, gestite in modi molto diversi tra loro ma capaci di perseguire (in ultima istanza, ottenere) il successo seguendo traiettorie e metodi quasi opposti, ad ennesima conferma di come non esista una sola strada per raggiungere gli stessi obiettivi, per lo scorno di chi ama immaginare che il mondo segua regole prestabilite ed immutabili.

I Dubs sono il frutto della visione di Peter Gruber e Joe Lacob (proprietari della franchigia dal 2010), messa in atto da Larry Riley prima, e poi dall’attuale GM Bob Myers, sempre all’insegna di scelte quanto più possibile condivise dall’intero front-office (che per sua fortuna diede retta a Jerry West quando questi si oppose allo scambio Klay Thompson – Kevin Love) e di flessibilità tattica sul parquet, grazie alla quale coach Steve Kerr può giostrare la Death Lineup, oppure pescare nei meandri della propria panchina il centro Kevon Looney per affidargli i galloni da titolare.

Cleveland è invece la franchigia di Dan Gilbert, miliardario del settore assicurativo che ha legato il suo nome a LeBron (si convinse a diventare proprietario di maggioranza durante l’anno da rookie di King James, proprio a causa della presenza del nativo di Akron) nel bene e nel male: si va da la famigerata (e incauta) “The Letter” scritta da Gilbert dopo l’addio di LBJ in direzione South Beach, sino alla gelida indifferenza di quest’ultimo verso il suo “capo” durante i festeggiamenti post-Game 7.

La Cleveland di Gilbert non è mai riuscita a pensarsi in modo autonomo rispetto alla personalità polarizzante di LeBron, contribuendo a sua volta a forgiarne la personalità accentratrice non solo in campo (dove le decisioni di LBJ sono poetiche) ma anche fuori, dove non avrebbe dovuto avere così tanta voce in capitolo, e dove per giunta non s’è rivelato particolarmente accorto (dal team-building alla scelta di non farsi allenare da nessuno).

Se quindi G-State è arrivata ai vertici grazie alla lenta ascesa degli Splash Brothers, con draft (anche Draymond Green e Harrison Barnes sono scelte dei Dubs) e qualche scambio (soprattutto Bogut per Monta Ellis), il percorso dei cavalieri dell’Ohio è stato assai più netto: costretti loro malgrado a ricostruire dopo l’addio di James nel 2010, avevano ritrovato la quadra con il GM David Griffin e con Kyrie Irving nel ruolo di franchise player, pronti ad innaugurare un nuovo corso con David Blatt come nuovo allenatore; quando poi James comunicò la decisione di tornare a casa, le prospettive cambiarono radicalmente.

I Cavaliers, il cui orizzonte fino a pochi giorni prima non si estendeva oltre la qualificazione ai Playoffs, orchestrarono lo scambio che spedì a Minneapolis la prima scelta assoluta ’14, Andrew Wiggins, e forgiarono una nuova edizione dei Big Three, con Irving e Kevin Love al posto di Dwyane Wade e Chris Bosh, trasformandosi dalla sera alla mattina in una delle franchigie candidate a vincere il titolo NBA.

Mentre LeBron James e coach Blatt si scrutavano in tralice, Golden State varava l’era targata Steve Kerr, conclamato vincente chiamato a portare la franchigia al “next level” dopo l’ottimo lavoro di Mark Jackson, l’attuale commentatore di ESPN che aveva costruito un’ottima difesa, un buon sistema di gioco, ma allo stesso tempo era riuscito nell’impresa di mettersi contro tutta l’organizzazione.

 

I 2014-15 Golden State (67-15) 4 – 2 Cleveland (53-29)

La lenta ascesa dei Warriors, iniziata cinque anni prima, li condusse ad una stagione memorabile, con un clamoroso 21-2 al cancelletto di partenza e con Steph Curry subito da corsa per il titolo di MVP, mentre Thompson si guadagnava l’All-Star Game e Draymond Green si prendeva lo spot di PF titolare. Cleveland invece andava incontro alle (comprensibili) difficoltà tipiche di una squadra appena assemblata e poi potenziata in inverno con l’aggiunta di JR Smith, Iman Shumpert e Timofey Mozgov. Questo non impedì a LeBron di mettere assieme cifre straordinarie (25.3 punti, 6 rimbalzi, 7.4 assist), trascinando i Cavs ai Playoffs.

Giunti alle Finals senza Kevin Love, i Cavaliers persero subito anche Irving per una frattura alla rotula, trasformandosi in una squadra corsara, tanto da impensierire i piĂą forti Warriors, portandosi avanti 2-1 nella serie e costringendoli ad inventarsi quel quintetto a cinque esterni (per avere in campo contemporaneamente Green e Iguodala, marcatore designato su LBJ e MVP della serie) indispensabile per cambiare le carte in tavola, spalancando le porte della storia a un modo di giocare che fino ad allora era etichettato come intrinsecamente perdente.

Se la garra di Tristan Thompson e Matthew Della Vedova è valsa loro un posto nel cuore di tutti gli appassionati per i quali lo sport non è solo esecuzione o talento, le Finali 2015 diventarono la celebrazione del gruppo di Steve Kerr, capace di cambiare pelle a seconda delle esigenze (Iguodala guadagnò minuti a scapito di Andrew Bogut, fino a quel momento imprescindibile àncora difensiva) oltre che di mettere in campo una pallacanestro entusiasmante sia in attacco che in difesa, concedendo tanto a James (chiuderà con 35.8 punti, 13.3 rimbalzi e 8.8 assist) ma senza concedere tiri facili agli “altri”.

 

II 2015-16 Cleveland (57-25) 4-3 Golden State (73-9)

G-State iniziò la stagione da campione in carica con un impressionante 24-0, arrivando all’All-Star break (dove schiererà Thompson, Curry e Green, alla prima selezione nella gara delle stelle) con un ineguagliato record di 48-4 nonostante la protratta assenza di coach Kerr, sostituito da Luke Walton. Cleveland invece un allenatore ce l’aveva, ma i rapporti pessimi con LBJ porteranno al licenziamento di Blatt nonostante un record di 30-11 (maturato senza l’infortunato Kyrie Irving) e alla sua sostituzione con il più malleabile Tyronn Lue.

Intanto, ad ovest, i Warriors proseguivano nell’esaltante cavalcata con cui avrebbero superato il record (ritenuto imbattibile) dei Chicago Bulls del 1996, spendendo energie preziose, che poi avrebbero rimpianto nel corso dei Playoffs. Curry saltò innumerevoli partite delle serie contro Rockets e Blazers, e gli OKC Thunder di Westbrook e Durant li portarono sull’orlo dell’eliminazione; con i Thunder avanti 3-1, G-State reagì da squadra campione, rimontando ed eliminando i ragazzi di coach Donovan.

Cleveland invece conobbe un percorso più netto, sbaragliando agevolmente (8-0 complessivo) Detroit e Atlanta, per poi battere 4-2 i giovani Toronto Raptors e accedere così alle Finals, questa volta con tutte le proprie star abili e arruolabili per la tenzone. Inizialmente sembrò tutto facile per i Dubs, padroni di Gara 1 e 2 tra le mura amiche della Oracle Arena, sconfitti in Gara 3 e capaci di espugnare la Quicken Loans in Game 4.

Le energie spese per dare la caccia al record dei Bulls (energie non solo fisiche ma anche mentali) e per rimontare contro OKC presentarono però il conto, coi Warriors incapaci di chiudere in cinque, e Curry decisamente meno incontenibile del solito. Il doppio quarantunello di Irving e LBJ (che si ripeterà in Game 6, quando un nervossissimo Curry verrà espulso) tenne in vita le flebili speranze di Cleveland, per poi pareggiare i conti alla sesta davanti al pubblico in visibilio della QLA e spedire la contesa ad una settima partita destinata a divenire leggendaria.

Con il punteggio della serie e della partita in parità 89-89, LBJ trovò il tempismo per una memorabile stoppata chasedown rifilata al malcapitato Andre Iguodala, che tanto bene lo aveva marcato un anno prima; a completare l’opera ci pensò la tripla impossibile di Kyrie Irving, e infine la difesa di Love su Stephen Curry congelò il punteggio sul 93-89 finale, che incoronò Cleveland campione NBA, mentre gli onori dell’MVP spettarono ad un James capace di mettere a referto una tripla doppia in Gara 7 di Finale e una catarsi da leggenda.

III 2016-17 Golden State (67-15) 4-1 Cleveland (51-31)

Scottata dalla sconfitta e dalla propria hybris (altresì detta tracotanza) ben espressa dalle parole di Lacob, vantatosi di come i Warriors fossero “anni luce” avanti alla concorrenza, Golden State riuscì a garantirsi i servigi di Kevin Durant (rinunciando a Bogut e Barnes, in netta difficoltà durante le Finals ’16) e raggiungendo per la terza volta consecutiva almeno 67 vittorie in Regular Season.

L’innesto di Durant fu particolarmente impressionante per la facilità con cui KD si calò nel suo nuovo ruolo, mettendo in mostra qualità difensive magnificate dallo splendido congegno messo a punto da Kerr, Mike Brown e Ron Adams. Cleveland non stette certo a guardare, pungolata anche dalle stoccate di LeBron, e dopo un’intera estate di festeggiamenti (e di JR Smith perennemente a torso nudo) si ripresentò in autunno con il look tosto della squadra pronta a difendere il proprio territorio di caccia.

Golden State tornò in Finale sbaragliando l’ovest come solo i Los Angeles Lakers del 2001 erano stati capaci di fare (ma allora, il primo turno era al meglio delle 5, quindi i gialloviola arrivarono alle Finals con una vittoria in meno). Certo, quest’impresa era stata resa possibile anche dal piede malandrino di Zaza Pachulia (che provocò l’infortunio di Kawhi Leonard quando San Antonio vinceva Gara 1 di venti), ma nel complesso i Warriors dominarono, e ancora una volta, giunsero all’epilogo stagionale forti del pronostico, nonostante Cleveland non fosse stata da meno, compilando un 12-1 contro Pacers, Raptors e Celtics (le stesse avversarie di quest’anno).

Con un LeBron in grande spolvero e col miglior Kevin Love visto in Ohio, non sarebbe stato assurdo attendersi il back-to-back dei Cavs, ma Gara 1 e 2 andarono agevolmente nella direzione di Oakland, e la sconfitta di Gara 3, maturata nel finale dopo che Cleveland aveva a lungo condotto le danze, spense definitivamente ogni velleità di James e compagni; riuscirono a vincere una partita per l’orgoglio, evitando lo sweep, ma i Golden State Warriors chiusero la faccenda con una Gara 5 vinta in rimonta e Kevin Durant (MVP della serie) sugli scudi.

E Warriors vs. Cavs IV?

Il pronostico della serie è nettamente in favore dei Warriors, titolari di una stagione regolare largamente superiore, più talentuosi e più convincenti (anche se meno che in passato, e andati pericolosamente vicino all’eliminazione per mano di Houston) nei Playoffs, ma abbiamo imparato che Cleveland (sopravvissuta alla masnada di coach Brad Stevens) sa elevare il proprio rendimento a comando, e che ha comunque una panchina con più punti nelle mani di quella dei Warriors.

Sarà una sfida tra consumati mattatori del proscenio; forse non nel loro momento migliore, ma ugualmente capaci di sbaragliare la concorrenza, e in fondo la gara di resilienza tra LeBron (mai visto così affaticato dai tempi della terza Finale contro gli Spurs) Curry (tornato protagonista assoluto assieme a Klay) e Durant, oltre agli infortuni di Love (concussion) e Iguodala (bone bruise) aggiungono motivi d’interesse ad una Finale NBA che appartiene già alla storia per il solo fatto d’esser disputata per il quarto anno consecutivo dalle medesime formazioni.

Potrà non essere l’esperienza più elettrizzante del mondo, ma chi scrive ha la sensazione che tra qualche anno, ripenseremo a queste Finals tra LeBron James e i Warriors con una punta di nostalgia; perché quindi non godersele senza riserve?

 

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