Al netto dei risultati sportivi pessimi, non ci sono molte franchigie NBA dotate dell’abilità esibita in sede di draft dai Los Angeles Lakers. Le ultime stagioni –trascorse a ritoccare i record negativi di franchigia– sono state un autentico stillicidio, ma L.A. ha continuato imperterrita a far buon uso delle proprie chiamate, da Brandon Ingram a Julius Randle, da Larry Nance Jr. a Jordan Clarkson.

Prima di passare a miglior vita il 18 febbraio di 5 anni fa, lo storico proprietario Jerry Buss si era accomiatato lasciando ai giallo-viola un’eredità a doppio taglio: li ha azzoppati, assegnando le decisioni cestistiche al prediletto figlio Jim, ma allo stesso tempo, ha costruito un nucleo storico di “gente di basket” rivelatosi l’antidoto giusto per consentire alla franchigia di sopravvivere ad un lustro di gestione scriteriata.

Così, mentre Jim Buss e Mitch Kupchak combinavano disastri in free agency (i pessimi contratti di Luol Deng e Timofey Mozgov, senza dimenticare le firme che L.A. aveva in tasca e si è lasciata sfuggire, da Kyle Lowry a Kent Bazemore, per non parlare dell’indegno trattamento riservato a Pau Gasol) il resto del front office ha continuato a lavorare con competenza, al netto dell’addio di Adam Filippi e Ronnie Lester, rispettivamente responsabile per lo scouting internazionale, e assistente General Manager.

Quando, poco più di un anno fa, Jeanie Buss (che del team è plenipotenziaria) esautorò il fratello dalla guida della franchigia per affidarla a Magic Johnson e Rob Pelinka, questi ultimi si trovarono in dote un gruppo di giovani promettenti, preziosi per impostare la ricostruzione del club senza partire da zero, come sarebbe capitato in altre organizzazioni meno solide sotto il profilo delle risorse umane.

Si è fatto un gran parlare di come il nuovo CBA (il contratto collettivo che divide i profitti tra proprietari e giocatori) abbia depotenziato i Lakers, e le figuracce rimediate con LeBron James (nel 2014 l’ala da Akron nemmeno parlò con gli emissari della franchigia californiana) e LaMarcus Aldridge non hanno fatto altro che confermare la sensazione di una Los Angeles lontana dai cuori delle superstar.

Mark Cuban o David Gilbert possono pensare che la forza dei Lakers fosse solo economica –e quindi d’averli azzoppati una volta per tutte col nuovo CBA– ma i Lakers sono un club che siede sulle spalle di giganti come Pete Newell, Bill Sharman (Hall of Famer sia come giocatore che come allenatore) senza dimenticare il venerabile Bill Bertka, che va per i novantun anni d’età, e l’estate scorsa ha scovato Kyle Kuzma, lasciando al palo tanti volponi sabermetrici.

Bertka al lavoro: novant’anni e non sentirli…

Nonostante la “grande purga” iniziata nell’estate del 2011 (unici nel panorama NBA, i Lakers pensarono bene di fronteggiare l’incombente lockout lasciando a casa i dipendenti) le radici storiche della franchigia sono sopravvissute, e oggi, tolti di mezzo Buss e Kupchak (lacustre dal 1981, ma troppo compromesso con Jim per rimanere in sella) sono tornate a prevalere.

Se i Los Angeles Lakers riusciranno a uscire dalla fossa che si sono scavati non sarà tanto per i lustrini della capitale mondiale dell’intrattenimento, quanto per quella competenza che ha portato a scegliere, in un solo draft, Lonzo Ball (e fin qui…), Kuzma e Josh Hart, rivelatisi un prepotente innesto di talento e personalità in un roster quanto mai bisognoso di una scossa.

Convinto com’era che bastasse il brand per trovarsi i campioni in fila alla porta, Buss jr. trascurò il player development, creando un contesto tossico nel quale sguazzare senza costrutto, accontentandosi di un fumoso “potenziale” che s’intonava perfettamente al sempiterno ritornello della “prossima free agency”, cui ormai nemmeno la stampa locale faceva più finta di credere.

È esattamente il genere di contesto criticato recentemente da Dirk Nowitzki, chiamato a commentare le dichiarazioni di Cuban a proposito di tanking. Secondo Wunder Dirk, “Una cultura sportiva in cui ci si arrende e non si gioca duramente non è mai auspicabile. È importante che i nostri giovani imparino a competere, e a farlo sempre; Devi giocare i minuti a tua disposizione con intensità, è l’unico modo in cui si migliora”.

Sin dal loro esordio nei ruoli di Presidente e GM, Magic e il quarantottenne Rob Pelinka hanno dettato un’agenda meno attendista; l’opzione “max-contract” resta sullo sfondo, ma nel frattempo L.A. ha responsabilizzato i propri giovani, chiarendo che un’altra stagione sulla falsariga delle ultime non sarebbe stata considerata accettabile, sia perché i Lakers hanno ceduto la loro prima scelta (che spetterà a Celtics o Sixiers), sia perché una mentalità vincente si costruisce… vincendo.

Non sarebbe stato realistico attendersi una stagione da 50 vittorie, e infatti i Lakers (undicesimi con 26-34 al momento di scrivere) stanno faticosamente inseguendo l’ottava piazza, ma dopo anni di stasi, questo gruppo è stato finalmente chiamato a reagire alle mille insidie della Regular Season NBA, dagli infortuni alle voci di mercato, e questo porterà inevitabilmente ad una cernita tra chi sa stare sul pezzo e chi invece si accontenta di vivacchiare.

Dopo un’estate trascorsa ad allenarsi allo UCLA Health Center, Julius Randle (in contract-year) sta trovando continuità e, udite-udite, una buona tenuta difensiva nel ruolo ibrido di centro sottodimensionato ma poliedrico, che può prendere rimbalzo e condurre il contropiede (rigorosamente di mano sinistra, e questo resta il suo principale limite), fare a spallate in post-basso, o finire nel traffico.

Al suo quarto anno da professionista (da rookie però giocò solo una manciata di minuti prima di rompersi una gamba) e rientrato in quintetto, Randle è finalmente diventato qualcosa più di un prospetto, e sebbene sia ancora unproven ad alto livello, i suoi 14.8 punti, 7.6 rimbalzi e 2.5 assist costituiscono un enorme miglioramento rispetto a 12 mesi fa, quando le cifre erano superiori, ma l’impatto sulle partite risultava largamente meno incisivo.

Luke Walton ha lavorato molto anche col sophomore Brandon Ingram, seconda scelta assoluta nel draft ’16, che dopo una prima stagione difficoltosa sta confermando tutto il talento che l’aveva portato alla corte di Mike Krzyzewski prima, e dei Lakers poi. Complice la lunga assenza di Lonzo Ball (ci torneremo in seguito) coach Walton gli consegna spesso palla in mano dalla rimessa nel tentativo di svilupparne le doti di palleggiatore.

Ingram è un buon passatore (3.8 assist di media, con 1.54 di ratio assist-turnover: si può fare meglio) ma soprattutto un talento tecnico-atletico con tante armi in faretra: dal tiro alla difesa, il ventenne nativo di Kinston sa fare tutto pur non eccellendo ancora in nulla, ma quando è aggressivo e attacca il canestro è già in grado di far succedere cose, e questo è incoraggiante.

Sin dal primo giorno lo staff atletico dei Lakers ha lavorato con lui per tentare d’irrobustirne le lunghe leve senza caricarle di muscoli in eccesso, che avrebbero aggiunto peso su giunture sollecitate dai movimenti repentini tipici dei giocatori NBA moderni, inadatti ai fisici da culturisti. L’idea è di tenerlo alla larga dagli infortuni patiti dai vari Gallinari e Porzingis, seguendo la lezione impartita da Kevin Durant, capace di dominare (e durare) nonostante il fisico smilzo.

Troppo veloce per esser marcato dai lunghi convenzionali e troppo alto per gli esterni, ad oggi il range ideale per Ingram è la media distanza, dalla quale il suo jumper in allontanamento (scoccato ad altezze vertiginose) miete vittime, mentre in verniciato non sempre riesce a tener botta coi lunghi NBA, sebbene vanti un incoraggiante 61.4% nella restricted area (che però scende al 23% nel resto del verniciato, segno che qualche difficoltà a finire c’è).

Dicevamo della capacità dei Lakers di scegliere bene al draft, ed è quindi d’obbligo dedicare qualche riga a Kyle Kuzma, l’ala il cui rendimento sta superando le più rosee attese, anche al netto del classico slump primaverile dei rookie. L’ex Utah, scelto a giugno alla 27, si è integrato benissimo in campo e fuori (è il miglior amico di ‘Zo Ball in squadra), esibendo un repertorio di conclusioni in avvicinamento che ne hanno fatto l’autentico steal of the draft.

Laureato in sociologia, Kuz è diventato rapidamente uno dei beniamini dello Staples Center, ma è lungi dall’essere il giocatore fatto e finito che aspira ad essere. Le sue go-to-move non sono ancora automatiche e dovrà diversificare l’arsenale di tiri, imparare a leggere meglio i raddoppi e trovare più continuità per riuscire a fare la differenza, sera dopo sera, a questo livello.

Rispetto agli one-and-done, tre anni di college l’hanno preparato meglio al grande salto tra i Pro, ma Kuzma ha ancora tanti margini di crescita, com’è normale per un cestista ventiduenne dalla mentalità decisamente tosta (d’altronde è nativo di Flint, Michigan) la cui voglia di sgobbare ha contagiato i compagni, in campo come in allenamento.

Kyle è una delle voci più ascoltate all’interno dello spogliatoio, e dopo la brutta sconfitta contro OKC per 133-96, non ha esitato a richiamare all’ordine anche i veterani: “Ci siamo arresi; gli abbiamo concesso canestri su canestri, senza offrire resistenza in difesa o in attacco. Le cose si sono fatte difficili, e abbiamo provato a fare tutto individualmente, ma in questa lega è impossibile”.

Completa il quartetto di giovani promesse angelene l’home-boy Lonzo Ball, che, al netto della presenza ingombrante del padre (cui forse, si potrebbe smettere di porgere continuamente il microfono) ha mantenuto le premesse, confermandosi autentico uomo-squadra e sorprendendo per le qualità difensive, esibite in modo perlomeno alterno nella scorsa stagione a UCLA.

Se Zo sarà oppure no una superstar è questione assai dibattuta ma lascia il tempo che trova, e forse non è neppure il modo giusto per valutare il contributo di un atleta che fa dell’altruismo la propria precipua caratteristica. Parliamo di un classe ’97 che ha cambiato radicalmente il modo di giocare dei Lakers grazie al proprio atteggiamento team-first.

Allergico ai palleggi superflui e titolare di una capacità di lettura con pochi eguali, Ball ha tanti difetti sui quali lavorare. Il conditioning atletico andrà rivisto, e la sua meccanica di tiro è destinata a farne un tiratore di striscia inaffidabile; per giunta, non dispone di un gioco intermedio degno di questo nome e quindi si limita a tiri nel verniciato e conclusioni da tre punti, riducendo l’entropia del suo gioco.

Il fatto che riesca ad incidere al netto di questi limiti (tutt’altro che marginali) lascia ben sperare per il prosieguo di carriera, quando, inevitabilmente, maturerà esperienza e ridurrà le sue lacune tecniche. I numeri di questa sua prima Regular Season (10.2 punti, 7.1 rimbalzi e 7 assist) sono in linea con le attese e lasciano intravedere un futuro brillante per la guardia da Chino Hills.

Anche i veterani aggiunti al roster stanno facendo del loro meglio per dare una mano; Kentavious Caldwell-Pope, tornato a pieno regime dopo essersi ritrovato in carcere per 25 giorni (con il permesso di uscire solo per lavorare e senza poter seguire la squadra fuori dai confini della California) è la guardia disciplinata che serviva per ricondurre Jordan Clarkson al più congeniale ruolo di sesto uomo.

Caldwell-Pope, da Thomaston, Georgia, è arrivato ad L.A. con un contratto annuale assai lucroso (18 milioni) e con l’opportunità di mettersi in mostra per quello che è: una guardia polivalente e affidabile, che spazia il campo (segna da tre col 37%, miglior dato in carriera), difende e fa il suo salendo di colpi all’evenienza, come nella recente vittoria sui derelitti Kings, quando ha messo a segno ben 8 triple, per un totale di 34 punti.

Brook Lopez (grande appassionato di fumetti Marvel e D.C. che a tempo perso tira da tre col 33.5%) era l’altra grande scommessa estiva di Magic Johnson, interessato al suo contratto in scadenza, certo, ma anche al suo apporto tecnico affidabile e definito. L’ex di Stanford e Nets non è un rimbalzista nel modo più assoluto (cattura appena il 9.1% dei rimbalzi disponibili), ma quando trova ritmo riesce a produrre punti sia in post che da dietro l’arco.

Nel corso della stagione 2017-18 il parterre angeleno ha fatto conoscenza con altri giocatori sorprendenti, come il tostissimo Josh Hart (guardia difensiva che non ha paura di cambiare con nessuno, e che in attacco sa rendersi pericolosa coi piazzati e con aggressive incursioni al ferro) e quell’autentico personaggio di culto che è Alex Caruso.

Titolare di un contratto two-way, Caruso si è messo in mostra in Summer League dopo essere finito undrafted nel 2016 e aver trascorso la passata stagione nel purgatorio della G-League. A seconda delle esigenze entra ed esce dalla rotazione di Walton, ma la sua è una presenza importante per tutto quel che rappresenta in termini di dedizione e sacrificio.

Caruso, al pari di Hart e Kuzma (o di Tyler Ennis e Corey Brewer), è un giocatore con più cuore che talento che non si spaventa davanti alla prospettiva di dover lavorare duramente, e segna una marcata differenza rispetto a D’Angelo Russell, talento cristallino che però tendeva ad accontentarsi delle sue cifre, come ha lasciato intendere lo stesso Johnson, dopo averlo spedito a Brooklyn nello scambio Mozgov-Lopez.

Los Angeles è però anche Hollywoodterra del tutto e subito– e il nuovo duo Pelinka-Johnson non è riuscito a sottrarsi alla tentazione della caccia al grande free agent, già costata svariate decine di migliaia di dollari a Magic (per le dichiarazioni su Paul George e Giannis Antetoukounmpo, al quale a ben vedere pronosticava un grande futuro in Wisconsin, ma tant’è) e in passato foriera di nefasti equivoci tecnici.

Gli equilibri interni ad uno spogliatoio NBA sono sempre fragili, e il continuo vociare di free agency ha nuociuto molto nel recente passato; così, in dicembre, le dichiarazioni di Andrew Bogut sono state lette come una lamentela, ma a ben vedere l’australiano invitava i giovani compagni alla responsabilità: “Non puoi lasciarti influenzare da queste distrazioni (le voci di trade); è parte della lega, sono decisioni che spettano ai front office e agli allenatori. Se ci si lascia distrarre, sarà così per tutto il resto della carriera, perché questa è la natura della NBA”.

Proprio quando L.A. sembrava aver rimesso la barra a dritta dopo un dicembre sanguinoso (11 sconfitte e 3 vittorie), è arrivata quella trade nell’aria da tempo, e che ha portato in California Isaiah Thomas, la prima scelta dei Cavaliers e Channing Frye, in cambio di Larry Nance Jr. e Jordan Clarkson, finiti a rimpolpare la rotazione dei vice-campioni NBA. I Lakers (reduci da 8 vittorie e 2 sconfitte) hanno patito l’aggiustamento, perdendo le successive tre gare, ma si sono ricompattati aprendo un’altra striscia di 3 vittorie.

Thomas è solamente l’ombra del candidato MVP di 12 mesi fa, e coach Walton lo adopera in uscita dalla panchina (nel ruolo che fu di Clarkson, anche in termini di tipologia di giochi chiamati per lui). Isaiah si è rivelato disponibile ad accettare un ruolo ridotto (per quanto sia chiara la sua agenda personale, perseguita indipendentemente dai risultati di squadra), perché la sua permanenza in giallo-viola difficilmente si protrarrà oltre questa Regular Season.

Stringe il cuore vederlo tirare col 39.3% e faticare a tenere il campo, ma per il momento, la soluzione di compromesso promossa da coach Walton conviene a tutti, perché quello di Sesto Uomo alla Louis Williams è probabilmente la collocazione ideale per il resto della carriera di Thomas (non ha più un impatto offensivo tale da giustificare la sua inconsistenza difensiva) e perché non costituisce un ostacolo insormontabile allo sviluppo del movimento giovanile dei Lakers, che anzi, grazie a lui ha rispolverato Ivica Zubac, rivelatosi un ottimo roller.

Zubac aveva illuso nell’ultima parte della scorsa stagione; dopo una Summer League tragica, è finito in fondo al pino, ma in quest’ultimo mese è tornato a frequentare il parquet; la maturazione dei lunghi è sempre più lunga rispetto agli esterni, e Zubac difficilmente diverrà mai un arcigno rim-protector, ma può rivelarsi utile, anche perché non ci sono in circolazione tantissimi “sette piedi” con quella tecnica e coordinazione. Dovesse fallire definitivamente, alle sue spalle è già pronto Thomas Bryant, che si allena da stretch-five!

Comunque vada a finire, a giugno i Lakers saluteranno sia Thomas che Frye, liberando altro spazio salariale per la corsa ai free agent. Già. La free agency. I nomi dei papabili candidati continua a restringersi, perché dopo il rinnovo di Russell Westbrook, l’infortunio patito dallo sfortunato DeMarcus Cousins (probabilmente nel miglior momento della propria carriera) ne ha depennato il nome dal novero dei giocatori concupiti, lasciando i soli LeBron e Paul George nel ruolo di possibili salvatori della Patria (cestistica, ça va sans dire).

Intuita la malparata, il front office ha ricalibrato le prospettive, iniziando a parlare di due sessioni estive per dare la caccia al free agent, aprendo alla possibilità di ingaggiare una stella quest’anno e un’altra l’anno prossimo, quando il contratto di Luol Deng potrebbe diventare più facile da scambiare, e magari nel frattempo si sarà riusciti a trattenere Randle, in scadenza ma con restrizione.

Stanti i miglioramenti di questo nucleo, sarebbe un peccato smantellarlo per costruire l’ennesimo Team LeBron (tutti uguali, come i negozi in franchising) posto che non capiamo perché James, interessato a spodestare i Warriors, dovrebbe scegliere di trasferirsi ad ovest, per giunta in una squadra di giovani che finora hanno visto i Playoffs dal divano.

L’arrivo di Paul George pareva cosa fatta, ma l’ala dei Thunder ha ventilato l’ipotesi di prolungare la sua permanenza in Oklahoma; sono le solite frasi di circostanza? I Lakers non possono darlo per scontato, motivo in più per pensare al presente e ragionare della crescita di Ingram, Ball, Randle e Kuzma. Se manterranno le premesse, allora sì, i free agent si accalcheranno all’uscio dello Staples Center.

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