Per coach Pete Newell non esistevano segreti nella pallacanestro, e l’NBA è una buona esemplificazione di questa massima: ogni staff tecnico conosce alla perfezione le chiamate dell’avversaria di serata (una conoscenza oggi facilitata dai tanti supporti hi-tech creati all’uopo, come l’ormai leggendaria tecnologia SportVU) e in questo contesto, è naturale che le soluzioni vincenti divengano patrimonio comune alle 30 franchigie.

In altre parole, l’NBA è una copycat league nell’accezione migliore del termine: un proficuo saccheggio di idee che rende tutti più ricchi e incoraggia l’evoluzione del Gioco. Esiste, a ben vedere, un aspetto meno apollineo di questa natura “copycat”; talvolta, per i motivi più diversi, gli allenatori si accodano supinamente all’ultima moda nel timore di restare indietro e scontentare la proprietà, i tifosi o i media. Si ritrovano così a ricalcare superficialmente qualche idea di successo senza approfondirla, condannandosi a fraintenderla rovinosamente.

Sul finire degli anni ’90 tanti giocavano un isolamento dopo l’altro perché si era imposto il modello Michael Jordan (travisato fino all’irriconoscibilità). Le stelle dovevano giocare uno-contro-uno in un contesto nel quale si chiedeva al go-to-guy di occuparsi del 25-30% dei punti della squadra. Peccato che MJ facesse certe cose sotto l’egida dell’Attacco Triangolo, un sistema offensivo che rendeva meno prevedibili –e quindi meno anticipabili– le ricezioni dell’alieno da Chapel Hill.

Grazie ai successi dei San Antonio Spurs (edizione 2014) e soprattutto dei Golden State Warriors, il panorama oggi è nettamente diverso (e migliore, ci sentiamo di affermare). L’idea-guida veicolata da queste due formazioni è un mix di tiro da tre e penetra-e-scarica (o drive and kick) che vive di ritmo e gioco corale. Eppure, G-State continua ad essere di un altro pianeta rispetto alle tante squadre che si sforzano d’adottare i medesimi accorgimenti tattici.

Nominato capoallenatore nell’estate ’14, Steve Kerr era convinto d’avere per le mani un gruppo ideale per una pallacanestro di flusso capace di rendere meno prevedibili le ricezioni di Steph Curry e Klay Thompson, un po’ come accadde a Jordan con il Sideline Triangle. Fu provvidenziale l’infortunio a David Lee che consentì di provare Draymond Green da stretch-four, allargando ulteriormente il campo; il resto, come si suole dire, è storia.

L’apparente semplicità del pace-and-space firmato Dubs ha spinto alcune franchigie ad un lavoro di ricalco superficiale foriero di esiti perlomeno alterni. I Warriors muovono la palla per trovare conclusioni facili o armare la mano alla loro formidabile batteria di tiratori, mentre molti sembrano aver dedotto che la chiave del successo sia sparare da tre e abbassare il quintetto.

Quando questa ricetta viene adottata da squadre per le quali questo tipo di gioco non è affatto naturale (o consigliabile), sarebbe assurdo attendersi i medesimi risultati e infatti puntualmente assistiamo a lunghi brani di formazioni dedite a spingardare da tre con poco costrutto.

È nozione comune che un “long-two” sia un pessimo tiro, e che i big-men moderni debbano vantare qualche abilità nello spaziare il campo; tutti sanno che bisogna correre per alzare il numero di possessi senza perdere di vista l’efficienza, e via dicendo. Sono idee che hanno del merito, e nascono dall’esigenza di contrastare quelle difese shell (secondo la definizione preferita da Ron Adams) che coach Thibodeau ha perfezionato tra Boston e Chicago, ma vanno contestualizzate, in primis secondo le qualità del roster.

La vittima eccellente di questa rivoluzione è il tiro dalla media, rubricato come “brutto tiro” e messo da parte per compiacere i nuovi enfant prodige del professionismo sportivo americano, gli analytics, mentre all’improvviso quei tiri da tre che costavano la panchina ad Andrew Bynum vengono incoraggiati.

Nessuno sembra notare che Golden State –in linea di massima, la squadra di riferimento– non ha mai chiesto ai propri lunghi (da Lee a Bogut, da McGee a Pachulia) di tirare dalla lunga distanza. Kerr ha sublimato la lezione del suo vecchio coach Phil Jackson (che a Chicago usava Toni Kukoc come quattro tattico, e ai Lakers ebbe prima Robert Horry e poi Lamar Odom) grazie a Green, ala piccola scopertasi capace di marcare anche i lunghi avversari, andare a rimbalzo e condurre il contropiede.

Quest’enfasi sul tiro da tre è in parte giustificata dalla matematica: tirare da dietro l’arco col 33% equivale a farlo da due col 50%, lo sappiamo tutti, ma il basket è un po’ più complicato di così, e ci sono altri fattori da aggiungere al computo, oppure per allenare basterebbe una calcolatrice. Si deve poter minacciare la tripla per mantenere “onesta” la difesa, ma questo non implica che il tiro da tre debba recitare la parte del leone in ogni playbook.

L’affermazione per cui è meglio un tiro da tre rispetto ad un tiro coi piedi appena all’interno della linea è esatta, ma descrive una situazione ottimale, in cui si può scegliere che tiro prendere. È corretto insegnare al tiratore a badare alla linea da tre (tanto quanto a quella laterale) ma non sempre si può decidere dove ricevere, ed esistono situazioni in cui una conclusione da due da 6 metri è meno contestata (quindi, ragionevolmente, a più alta percentuale) rispetto ad una tripla dall’angolo.

Le difese agiscono a specchio, incoraggiando in ogni modo il long-two, tanto che, in molti casi, aiutano sul tiro da tre e poi rinculano fino al verniciato. Secondo coach Brett Brown, questo approccio va a tutto vantaggio di gente come Tony Parker, che non si fa problemi a tirare dal mid-range (o ad usare il teardrop già all’altezza del tiro libero) e converte con percentuali ragguardevoli.

Non è un caso se nella lista dei giocatori che prendono più mid-range shots incontriamo i nomi di Curry, Thompson e Kevin Durant, tutti abilissimi nello sfruttare l’1-vs-1 incuneandosi proprio laddove le difese sono condizionate ad allentare la pressione. I Warriors sono undicesimi per tiri dalla media tentati, ma il loro 46.8% è di gran lunga il miglior dato della NBA, sopravanzando nettamente il 40% delle loro triple dall’angolo.

Non è questione di volume, quanto di qualità -principio noto sin dai tempi dei Sumeri, quando ancora non esisteva il PER di Hollinger. Una buona squadra prende buoni tiri (definizione? Un tiro nel quale quello specifico giocatore ha un’alta percentuale di conversione a canestro), e lascia ad altri il compito di contare se queste conclusioni siano long-two, al ferro o dietro l’arco.

C’è chi ha derubricato il basket di Kobe Bryant a “preistoria cestistica”, non capendo che è il core di quello che fanno anche KD (50% dalla media distanza) e Steph (56.5%!), e che proprio il mid-range apre lo spazio per le loro mortifere conclusioni da tre punti, aumentando l’entropia del sistema e generando un impatto sul gioco che non riducibile al nudo dato canestro/errore.

Marcare Bryant era come stare in una pressa; Kobe Bean non faceva prigionieri, non si prendeva azioni di riposo o scorciatoie. Marcarlo era impegnativo dal punto di vista fisico e soprattutto mentale, perché ogni possesso era una piccola battaglia, nella quale le dritte dello staff tecnico (“non saltare mai sulle finte“, “cerca di mandarlo a sinistra“) diventavano echi lontani, coperti dall’incessante trash-talk della guardia nativa di Philadelphia.

Il difensore ha un notevole vantaggio quando sa d’aver dinnanzi un attaccante con poche opzioni, vantaggio che però scompare al cospetto di un realizzatore in grado d’arrestarsi on a dime e tirare da ogni punto della metà-campo offensiva. Un avversario di questo genere risulta più vario e imprevedibile (anche lontano dalla palla, perché può tagliare per ricevere ovunque), con tanti saluti al true shooting.

Però tirava poco dagli angoli…

In questo senso, vale la pena confrontare l’operato dei Warriors, intenti a costruire una conclusione ottimale (se da tre, meglio), e quello che fanno gli Houston Rockets, squadra d’alto livello che però punta a seppellire l’avversario sotto una grandinata di triple, anche costo di prendere alcuni tiri mal consigliati, con la mano del difensore in faccia.

L’idea di costruire un gruppo dedito a concludere solo dalle zone di campo più redditizie è affascinante, ma non è un caso se nei Playoffs si è (fin qui) rivelata meno fruttuosa che in Regular Season; quando, dopo 82 partite, le difese si concentrano esclusivamente sul tuo playbook, la monodimensionalità paga uno scotto acuito dalla naturale incostanza di un’arma che in singola serata può tradire anche i migliori specialisti.

I sabermetrici Rockets…

Contrariamente a quel che si sente ripetere, i numeri non dicono come si deve giocare; suggeriscono un optimum che poi va calibrato alle circostanze, alla conoscenza del Gioco e alle qualità del personale a disposizione. Houston giocava secondo queste regole anche l’anno scorso, ma gli esiti erano quasi opposti; cos’è cambiato? Ci sono un defensive-coordinator come Jeff Bzdelik, e un Chris Paul in più nel motore.

Il playmaker di Winston-Salem è ideale per le idee di Mike D’Antoni, perché oltre alle doti da sublime regista (che tolgono pressione dalle spalle di Harden) mette sul tavolo qualità difensive con pochi pari, e un ragguardevole 47.5% dalla media distanza, utile a mischiare un po’ le carte. Aggiungiamoci una difesa salita di colpi, ed ecco confezionata una seria contender per il titolo.

…e quella dei Golden State Warriors, all’insegna dell’imprevedibilità

Nel 1979-80, quando il tiro da tre veniva introdotto per la prima volta, si prendevano 2.8 triple a partita col 28%; oggi siamo arrivati a 28.6 (!) col 36.3%. C’è chi rimpiange i bei tempi andati, e non è il nostro caso. Più semplicemente, pensiamo che tra nostalgia canaglia e diktat sabermetrici, valga la pena contemplare una visione pragmatica del Gioco, con meno precetti o sentimentalismi e più buon senso.

In questo senso, è emblematica la parabola di DeMar DeRozan: a lungo oggetto di strali per la riottosità a prendere il fatidico three-pointer, oggi –imparata la lezione– è annoverato tra i “buoni”. È andata proprio così? Il nativo di Compton non si è confinato dietro l’arco a tirare piazzati; resta saldamente terzo per numero di conclusioni mid-range (oltre 7 ad allacciata, col 46%) ma ha aggiunto un’altra freccia alla propria faretra seguendo lo stesso percorso intrapreso anni addietro da Kobe.

Già, Bryant. Il Black Mamba (o Showboat, come lo chiamava Shaq, facendolo infuriare) è stato a lungo l’epitome del “giocatore sbagliato”, perché contraddiceva tutto quello che sapevamo sull’efficiency. Era un dinosauro, un retaggio di un’NBA ormai trascorsa e muffita. Nella migliore delle ipotesi, veniva considerato un pistolero che, romanticamente, si rifiutava di riconoscere la propria obsolescenza. In realtà Kobe ci consente di completare la nostra disamina; come scrisse Kirk Goldsberry (oggi in forza agli Spurs) in uno storico articolo apparso su Grantland nel 2012, certi tiri sbagliati sono meglio di alcuni canestri.

È un’affermazione paradossale, ma la marcatura di Bryant era talmente impegnativa da spostare la squadra avversaria; era, in mancanza di un termine migliore, un effetto gravitazionale. Quando Kobe andava sul lato debole, i suoi compagni sul lato forte potevano giocare 1-vs-1 perché l’aiuto non sarebbe mai arrivato. Quando Bryant tirava, c’era molto margine per un rimbalzo d’attacco (nel 2012, il 15% dei suoi errori diventava un tap-in per un compagno) e poco rischio di contropiede (perché nessuno faceva cherry-picking con Kobe nei paraggi).

Avesse giocato the right way, avrebbe avuto meno impatto, e in ogni caso, si può essere efficienti anche affidandosi al gioco dalla media, si tratta semplicemente di riconoscere il buon tiro (rapportato all’abilità del giocatore) evitando le forzature; sono concetti validi anche per chi sceglie conclusioni dalla lunga distanza.

Un altro giocatore che mette in crisi gli stilemi sabermetrici è Ben Simmons. Il fenomeno australiano è l’antitesi del giocatore moderno: non ha tiro, ma grazie al fisico e al talento riesce ugualmente ad essere determinante, e, per non farci mancar nulla, ricordiamoci che gioca nei 76ers con Joel Embiid, capace di sparare in scioltezza dalla lunga distanza.

Dwyane Wade viene seguito dal marcatore fin dietro l’arco come fosse Ray Allen, perché è un tagliante sopraffino, abilissimo nel sorprendere il difensore distratto dalla palla. Di fatto, Wade spazia il campo pur senza essere un tiratore temibile, e ce lo dice proprio STATS LLC grazie agli indici “gravity score” e “distraction score”. Lonzo Ball ha un tiro orrendo, ma con lui in campo i Lakers diventano una squadra molto migliore, e potremmo andare avanti a lungo con esempi che descrivono circostanze specifiche in cui la “regola” non vale.

Il caveat da accompagnare ad ogni manifesto analitico è che la sabermetrica nasce in seno al Baseball, uno sport frammentato da cesure nette e interazioni lineari tra pitcher e battitore che rendono più facile costruire un modello matematico coerente e inequivoco. Il Basket è un animale completamente differente: uno sport di flusso dalle variabili pressoché infinite.

La varietà del Gioco rende difficile leggere i dati di SportsVU senza perdere di vista la big picture. Ci si concentra su un dettaglio, ma nel frattempo si verificano mille altre cose che si intersecano con l’oggetto della nostra piccola analisi. I lunghi dietro l’arco aprono il campo, ma quale impatto ha la loro assenza a rimbalzo in relazione ai secondi possessi mancati?

Kevin Love a Cleveland è diventato un giocatore molto diverso rispetto a quello che era a Minneapolis, ma non è detto che in ogni situazione sia giusto chiedergli di cambiare gioco, perché non tutte le squadre hanno un LeBron James a creare gioco e opportunità per i compagni, ad esempio.

Le idee di gioco vanno sempre parametrate al sistema e al personale a disposizione, per cui può capitare che giocatori che fanno a pugni con le statistiche avanzate abbiano ugualmente un impatto. Un conto è usare le cifre per ricavarne informazioni aggiuntive, un altro è restare intrappolati nell’effetto ancoraggio, per cui un indice statistico diventa l’imprescindibile meta di ogni analisi, il porto sicuro oltre il quale non ha senso andare.

Chi ragiona così non ci si accorge che Golden State adora tirare dal mid-range, o che D-Wade spazia il campo senza saper tirare da tre. C’è differenza tra questa ottusità, e quella del vecchio Charles Barkley, al quale non piace il tiro da tre perché ai suoi tempi non si usava?

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