Derrick Rose non è la superstar che ti aspetti. Non lo era negli anni d’oro di Chicago, quando battagliava coi più forti ai playoff e riceveva il premio di MVP più imbronciato di sempre, tantomeno lo è adesso che il suo status è sceso di diversi gradini.

 L’analisi del giocatore inizia e finisce con le sue ginocchia, e nel suo percorso agonistico c’è un anno zero che coincide con la rottura del legamento crociato, aprile 2012 contro i 76ers: attaccante al ferro più esplosivo della lega e difensore di razza prima dell’operazione, guardia con le marce ridotte, senza tiro né doti playmaking, negli anni successivi. Un pesce fuor d’acqua in una NBA che nel frattempo era diventata una point-guard dominated leagueDi carriere tormentate dagli infortuni ne ricordiamo a bizzeffe, in certi casi persino condotte a un precoce ritiro: dal Bill Walton dei tempi andati fino ai più recenti Grant Hill, Brandon Roy, Yao Ming. Derrick Rose rientra di diritto nella casistica, eppure nei suoi confronti non c’è quell’affetto di cui godono i suoi compagni di sventure. 

La parabola discendente del prodigio da Simeon High si è consumata nell’indifferenza di un anonimo stint ai Knicks, con una punta di risentimento da parte di Chicago, la stessa Chicago nei cui sobborghi meno nobili Derrick era cresciuto. 

La notizia di un paio di settimane fa ha dato una scossa alla situazione. Rose sta valutando il ritiro. Più che la distorsione alla caviglia, di difficile guarigione, i suoi problemi si chiamano stanchezza e fiducia, quella nei propri mezzi, erosa dai continui infortuni. 

D’improvviso tutti si ricordano e si dispiacciono. Ah già, è stato MVP. 

Ah già, quell’highlight dove schiaccia sulla testa al malcapitato Goran Dragic l’ho visto qualche decina di volte. 

Ah già, una volta era il simbolo di una città abituata a vincere da un certo Jordan e che di colpo non vinceva più; uno di quei simboli belli, perché umili ed emersi dal basso. Da Englewood, South Side. 

Per parlare di ipocrisia, credo, non ci sono gli estremi. Perché se sul campo Derrick Rose è un giocatore cristallino per pregi e difetti, lontana dal parquet la sua persona è introversa e controversa, difficile da decifrare, che non si lascia amare volentieri. Un protagonista che si rivela assente quando si alza il sipario. 

Secondo gli ultimi aggiornamenti Derrick Rose ci ha ripensato e manterrà fede al contratto coi Cavs, appena rimessa in sesto la caviglia. È stato già avvistato nelle strutture di allenamento a Cleveland, a discutere con lo staff. Vuole mostrare al figlio PJ, ha detto, che nella vita gli ostacoli si superano lottando. 

Sembra la risoluzione di un uomo in cerca di redenzione, ma in realtà Derrick Rose non ha nulla da farsi perdonare; nella sua Chicago la pensano diversamente, e chissà se queste riflessioni sul ritiro faranno suonare un campanello nelle teste della Windy City.

 Aprile 2012, dicevamo. Il ginocchio di Derrick Rose fa crac, e con esso le speranze dei Bulls che quell’anno puntavano in alto sulle spalle dell’MVP in carica. 

Per i malpensanti era solo questione di tempo prima che il fisico del numero 1 cedesse, vessato da uno stile di gioco esasperatamente atletico e da una serie di preoccupanti problemi pregressi.

 Il rientro è previsto nel corso della stagione successiva. L’operazione chirurgica va a buon fine, la riabilitazione procede secondo la tabella di marcia e i media di Chicago gonfiano l’hype nell’attesa. 

C’è una serie di spot, firmata da Adidas, che veicola l’iconografia dominante del periodo: Derrick Rose è ritratto come il messia di una città smarrita, il punto di riferimento per migliaia di blue collar che ogni mattina si rimboccano le maniche in fabbrica per poi assieparsi, la sera, sui seggiolini più economici dello United Center. 

Solo che lui non ha mai avuto il sorriso accattivante del profeta, e forse nemmeno il carisma del leader. La sua faccia, sempre incupita e assorta, raccontava di un atleta che caricava l’avversario a testa bassa, un lavoratore silenzioso che spremeva ogni goccia d’energia dai propri muscoli; un membro di quella classe operaia, più che il suo alfiere. 

Cosa sia successo a Derrick Rose in quei 12 mesi non è dato saperlo con precisione; probabilmente qualcosa si è guastato nel tragitto che collega il ginocchio alla testa. Fatto sta che the return, come titolava lo spot, per l’annata 2012/2013 non avviene. Si rimanda alla stagione successiva, mentre i Bulls disputano comunque degli onesti playoff. 

A fine ottobre Derrick Rose è finalmente pronto sul parquet, ma ci vuole un po’ per scrollarsi di dosso la ruggine. C’è qualche lampo di classe, qualche giocata di puro atletismo, ma è chiaro da subito che D-Rose è un cestista differente. 

Deve riadattare il suo gioco, dicono gli esperti, concentrarsi su difesa e letture, sviluppare il tiro e allargare il raggio d’azione lontano da canestro. Lui non ci prova nemmeno, anzi: è convinto di essere tornato più esplosivo di prima

Le articolazioni ne fredderanno la testardaggine con un secco no, mentre compensano col superlavoro un ginocchio con cui, evidentemente, non si sente a proprio agio. Dopo appena 10 partite cede il menisco della gamba opposta. 

Si può scegliere tra una riparazione veloce, che gli consentirebbe di tornare in campo in poco tempo, o una più elaborata, preferibile nel lungo termine, ma che segnerebbe l’ennesima stagione da abortire. 

L’opzione selezionata è la numero due, ed è giusto così; per fortuna sono lontani i giorni in cui per un menisco scheggiato si toglieva tutto il pezzo senza esitare (vero, Dwayne Wade?). Ma il pubblico di Chicago non s’intende di artroscopia e ha esaurito la pazienza. 

Quando Rose ritorna l’anno successivo trova un ambiente freddo, poche celebrazioni e scarse aspettative sul suo rendimento. Mentalmente debole, lo accusano sottovoce, non ha abbastanza love for the game, non sa giocare sul dolore come i più grandi. 

Lui, forse stizzito, non si mette d’impegno per recuperare un rapporto ormai incrinato. Lo accusano di non esporsi in prima persona per la squadra, come quando nel 2010 fu assente ingiustificato a una cena per reclutare il free agent Carmelo Anthony, con tanto di sedia lasciata vuota al ristorante. 

Le sue dichiarazioni alla stampa sono talvolta astruse, ma mai banali. Nel 2014 ammette che sta pensando alla propria salute per la vita successiva alla pallacanestro, vuole essere in grado di camminare sulle proprie gambe alla laurea del figlio. 

Opinioni sacrosante di un uomo che non nasconde le proprie priorità, ma siamo alla goccia che fa traboccare il vaso. I blue collar di Chicago s’infuriano: loro non guadagnano i suoi stessi milioni e non godono di simili lussi, se lavorando in fabbrica si procurano un ginocchio malandato, se lo devono tenere.

 

Il divorzio è inevitabile, complice l’addio di coach Thibodeau ai Bulls e gli attriti della dirigenza con Jimmy Butler, nel frattempo emerso come star della squadra. 

Lo salutano con poche cerimonie: e pensare che pochi anni prima Derrick Rose era per Chicago quello che Allen Iverson è stato, e per alcuni è ancora, per Philadelphia. 

Ai Knicks mostra un’insospettabile continuità, ma vive anche momenti di disorientamento. Il team non ha ambizioni di alta classifica, non è supportato dai tifosi e soffre di una gestione tecnica confusa. 

A febbraio 2017 non si presenta in spogliatoio per una partita contro i New Orleans Pelicans, citando non giustificate motivazioni personali. Verosimilmente, sta già considerando se vale ancora la pena giocare a pallacanestro. 

Le statistiche però, truffaldine come certe volte sanno essere, parlano di un ritrovata efficacia in difesa e nelle conclusioni nel pitturato. Su una cosa i numeri non mentono: Derrick Rose ha imparato a fare i conti col proprio fisico, sa cosa può chiedergli e cosa no. 

I Cavs pensano che sia abbastanza per assoldarlo come playmaker di riserva, pagandolo con gli spiccioli per la merenda. 

Dopo lo scambio di Kyrie Irving e la riabilitazione complessa di Isaiah Thomas, si ritrova titolare per la opening night. D-Rose sembra tornato sulla mappa del basket, e nelle presentazioni ufficiali sorride più del solito. 

Si è lasciato crescere i capelli in quello che lui definisce, bizzarramente, un atto di libertà. Con la stampa dell’Ohio parla già dell’orgoglio che nutre per il figlio, e di come gli sia rimasto qualcosa da dimostrare per sistemare i conti in sospeso con Chicago. 

La realtà è che Cleveland parte malissimo, i quintetti con Rose in campo non funzionano e al primo atterragio duro la caviglia sinistra dice basta. Un abbozzo di rientro, poi un altro stop, poi l’idea del ritiro, poi il ripensamento.

Probabilmente rivedremo D-Rose in campo nel 2018, magari a lottare per un anello, Warriors permettendo e col beneplacito dell’onnipotente LeBron James. 

Sembra strano a dirsi, ma non ha nemmeno trent’anni – quattro in meno dello stesso James. Strano, perché Rose sembra in circolazione da una vita e la sua campagna da MVP – non a caso, il più giovane di sempre – è già roba da nostalgici. 

Nel mezzo, l’NBA ha attraversato almeno un paio di cambi di paradigma. Sotto al rumore Derrick Rose è passato quasi inosservato, lui che gioca a testa bassa. 

La sua carriera è appesa al filo delle motivazioni, più che a due ginocchia ormai simili a bombe a orologeria. Si può tentare di apprezzarla, per una volta, prima del ritiro; prima che sia, per l’appunto, solo nostalgia.

One thought on “Derrick Rose: una carriera a testa bassa

  1. Uno dei giocatori più emozionanti che abbia mai visto,cresciuto con i Bulls di Jordan,vedere D. Rose lottare a testa bassa come scrivi tu era un qualcosa di unico e stupendo…ora di quel giocatore rimane il suo sguardo serio e lavoratore…quasi come un arcobaleno che purtroppo quando torna il sole dura troppo poco…

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