La più grande point guard pura della storia NBA

Nell’NBA del terzo millennio la maggioranza dei giocatori è di colore.

Il basket rimane sport mondiale per eccellenza: come amava ripetere il tanto bistrattato Franco Lauro è “lo sport con più federazioni a livello mondiale” e di conseguenza patrimonio di tante popolazioni in tutto il mondo.

Per citarne un altro, Federico Buffa immaginava di come “c’è un universo di esseri umani capaci o nella foresta del Borneo o in via Panisperma di stare alzati nella notte a seguire su Internet un play by play di una gara 3 immaginandola”. Punto e a capo : “Le squadre mettetele voi. E ‘The Game’ che li tiene svegli”. Ci siamo capiti. Su questo pianeta questo sport lo conoscono. E lo amano.

Ma a tale seguito di pubblico e di semplici appassionati devono far seguito i giocatori. Semplicemente, i ragazzi afro-americani sono stati i migliori fino a oggi. Michael Jordan, Magic, Jabbar, Chamberlain, Big O, Doctor J e tanti altri nomi che hanno segnato la NBA negli ultimi cinquant’anni dimostrano l’assunto.

Andate nei ghetti delle grandi metropoli, a New York, a Philadelphia, a Chicago ; i “brotha” neri monopolizzano i blacktop con i loro bicipiti allo scoperto ripetendo nelle loro menti che una delle poche strade per uscire dalla vita dura della strada è proprio la pallacanestro. “A hope in a hoop”. “ Una speranza in un canestro”.

I neri dominano questo gioco a grandi livelli (Sentito LeBron ? Adesso il testimone è tuo). Ma i bianchi che questo gioco lo hanno comunque inventato qualche corpo cui incollare pantaloncini e canotta lo hanno pure prodotto. Tra quelli che hanno popolato la NBA ce ne sono stati alcuni come Doug Collins per esempio, o Steve Kerr, operai specializzati rispettivamente in difesa a al tiro ma senza grande talento e altri che pur senza mai raggiungere un Jordan sono stati comunque grandi campioni.

Alcuni delle vere e proprie leggende. A tal proposito questa è la mia lista dei migliori 10 “Calimero” della storia, a titolo puramente personale. Il perché del Calimero lo troverete in fondo a quest’articolo se avrete la voglia di scorrere leggendo questa classifica. Sono esclusi in giocatori ancora in attività.

1. – THE LEGEND – LARRY BIRD
E’ stato il più grande con la pelle color latte. L’America intera annotò il suo nome sul taccuino in una magica sera di inizio primavera del 1979 quando perse la prima battaglia con un figlio nero della Detroit operaia a nome Earvin Johnson.

Era il primo episodio di un duello che ha segnato gli anni ’80 come i Beatles hanno firmato i ’60. E’ stato il più grande per la sua classe immensa di tirare, di passare la palla, di giocare di squadra ma soprattutto è stato il simbolo, lui, campagnolo dell’Indiana dove il basket è religione, del lavoro duro per arrivare al successo.

Forse è per questo che anche in Italia sorgono club a nome suo e a nome Celtics a scapito dell’estetica (che comunque personalmente preferisco) di uno showtime in gialloviola. Perché ha saputo plasmare un grande talento con il lavoro in palestra come nessun’altra superstar ; se lo incontrate oggi asciugategli la fronte perché sta lavorando giorno e notte per diventare owner di qualche franchigia NBA.

2. – IL RE DEL PASSAGGIO – JOHN STOCKTON
Sarebbe deriso oggi come lo è stato ieri perché questo bianco non salta, non tira nemmeno ; la dà via che è una meraviglia ma non lo fa dietro la schiena né tantomeno no-look o meglio, non è sua prima intenzione dare spettacolo che poi comunque volente o nolente gli riesce lo stesso. Quando anche sotto la stazione Termini venderanno le VHS sull’arte del passaggio con lui a spiegarci due o tre cose sul fondamentale che forma una squadra io andrò a comprarla. Il miglior passatore e il più prolifico ladro di palloni della storia della NBA merita questo e altro ancora.

3. – LA POESIA DEL BASKET – PETE MARAVICH
Con lui il basket ha conosciuto la fantasia, l’improvvisazione di un passaggio in mezzo alle gambe in contropiede, la follia di 44,2 punti a sera al college quando il coach era papà, la poesia di un suo schiaffeggiare la palla tra tre avversari. Pistol Pete è tutto ciò che si può immaginare di bello in questo gioco.

Ti viene la voglia di sdraiarti sul divano e rileggerti a tuo modo quelle immagini un po’ sbiadite degli anni ’70 che mostrano un basket diverso dalle tattiche di tutti gli stupidi allenatori che popolano le nostre giovanili, per i quali è un buon giocatore chi passa bene dietro un blocco o chi esegue nei tempi giusti un back-door.

No, il basket vero è Pistol Pete Maravich, un ragazzino estroverso con i capelli alla John Lennon in “Help” che il jazz a New Orleans lo suonava davvero e lo faceva in campo. Prima di morire come Earl Manigualt, newyorchese che ha anche lui a suo modo è stato la bellezza del basket, per un attacco di cuore in una palestra californiana, ha girato un paio di VHS. Lui sì, lo ha fatto veramente e se le trovate datele agli allenatori delle nostre giovanili. Dite loro che se vogliono che i loro ragazzi diventino dei grandi campioni hanno bisogno di stimoli forti. Pistol allieterà tante notti per molti liceali.

4. – IL PROFETA – BOB COUSY
A 13 anni cadde da un albero e si ruppe il braccio destro. Nonostante questo incidente diventò il primo grande playmaker della storia. Di titoli ne vinse 6 con Boston diventando il mito del gioco veloce dei Celtics che da una stoppata di Russell dipendeva quanto Jimi Hendrix dalla droga nei suoi ultimi giorni. A Red Auerbach serviva un playmaker che potesse condurre quel contropiede, tutto qui.

Si ritrovò invece un fenomeno che in campo aperto serviva i compagni dietro la testa, ad una mano no look, schiacciato per terra da metà campo. Non c’è che dire. Il pre-adolescente Bob dall’albero era caduto veramente. Aveva fatto conoscenza con le radici del gioco, le stesse di oggi e per sempre. Ma fu lui il primo a scoprirle.

5. – LOGO MAN – JERRY WEST
Era chiamato “Mr. Clutch” perché quando le partite non avevano ancora un vincitore nei suoi minuti finali lui saliva in cattedra col suo jumper mortifero.

Se oggi si gioca con il logo che lo raffigura nelle maglie ci deve pur essere una spiegazione ; questo era un talento assurdo per i suoi tempi, uno “scienziato” del basket che si applicava ogni sera su ogni aspetto del gioco in modo forse fin troppo eccessivo tanto è vero che sono famose le su crisi depressive all’indomani di una sconfitta.

Non penso che vi sia altro giocatore che abbia saputo amare il basket. Ne fa da prova la sua trentennale ultravincente carriera da GM dei Lakers con i quali si è conquistato la fama di uno dei migliori di sempre, insieme a Red Auberbach. Ma con una differenza. Il vecchio Red non ha mai vinto un MVp delle finali quando la sua squadra aveva appena perso il titolo.

6. – L’ESTROSO ROSSO – BILL WALTON
Quando uscì da UCLA con tre MVP tutti si aspettavo che questo californiano col gusto di divertirsi, il fan scatenato dei Grateful Dead con i capelli rossi e lunghi da hippy, avesse tutte le carte in regola per dominare i 10 anni a venire della NBA.

Nel 1977 vinse il suo primo campionato a Portland e l’anno successivo fu l’MVP ma questi primi successi furono purtroppo anche gli ultimi. Complici tanti infortuni Bill si ristabilì solo per diventare miglior sesto uomo con i Celtics, nella squadra di Bird, Mchale e Parish. Un paradosso per lui, che è nato a La Mesa, ha studiato a LA, a giocato da Pro a San Diego, a Los Angeles sponda Clippers e se vogliamo anche nella vicina Portland nell’Oregon.

7. – DADDY RICK – RICK BARRY
Se Bill Walton è un tipo estroso Rick Barry allora esce fuori anche da questo canone. La Baia di San Francisco sul finire degli anni ’60 era un pullulare di manifestazioni anti-war e di sfilate di slogan e propositi di pace. Non poteva capitare in un posto migliore e in un periodo migliore il giocatore più anticonformista che la NBA abbia conosciuto.

Rick tirava i liberi caricando la palla dal basso dall’altezza praticamente dei suoi genitali per far finire la palla nel cesto dopo una parabola al rovescio alquanto efficace. Nel 1975 vinse quasi da solo un titolo che lo consacrò definitivamente come una delle più complete e spettacolari ali piccole della storia. Non si è fermato qui se è vero che ha trasmesso il suo DNA di genio controcorrente della pallacanestro anche ai suoi figli.

Brent su tutti, che ha realizzato quello che in “Chi non salta bianco è” si poteva solo immaginare, vincendo addirittura la gara delle schiacciate. Gli altri due pro sono John, giramondo con tanta grinta e Drew, talento molto grezzo come play. Poi ci sarebbe anche Scooter ma ha sempre giocato in Europa. Tutti e quattro accomunati però da un grande spirito competitivo, lo stesso che portò papà a diventare il più odiato giocatore per i suoi stessi colleghi.

8. – IL PRIMO DOMINATORE – GEORGE MIKAN
La giovanissima NBA dei primi anni ’50 aveva bisogno di un suo simbolo da mostrare al pubblico per accrescere la sua popolarità. Lo trovò in un ragazzone di 2,08 per 110 kg che all’epoca equivalevano più o meno a uno Yao Ming con la stessa altezza ma con i chili di Shaq.

Fu il primo grande centro della lega e nonostante oggi non avrebbe nessuna possibilità di scherzare gli avversari come ha fatto mezzo secolo fa, la sua importanza in quel contesto storico fa sì che si parli di lui non solo come il più grande giocatore della prima metà del ‘900, ma anche come uno dei giocatori che hanno cambiato la lega e il basket. A causa della sua squassante potenza vicino a canestro fu infatti allargata l’area verniciata per cercare di limitarlo.

Per intenderci, è qualcosa che equivale al divieto assurdo di schiacciare nella NCAA per colpa di Lew Alcindor. Mikan giocava con il numero 99 e con un paio di occhiali e un giorno, negli spot pre-partita, si sostituì agli interi Lakers ,di cui era il centro, per sfidare da solo i Knicks al Garden. Erano altri tempi, è vero. Ma non è mai più successo.

9. – HONDO – JOHN HAVLICEK
Ha iniziato come sesto uomo e ha finito come go to guy. Dal 1962 al 1978, sempre con Boston, con cui ha vinto 8 titoli. Hondo era un’ala piccola versatile, sapeva tirare come una guardia e passare come un play, andava a rimbalzo come un’ala forte e giocava di squadra come nessuna superstar. Era figlio di un immigrato ceco, aveva un modo di fare discreto, dava l’impressione di essere un ragazzo a posto, uno tranquillo. Red Auberbach confessò a un giornale che se avesse potuto scegliere avrebbe voluto che Hondo fosse suo figlio tanto era ordinato e rispettoso in campo e nella vita.

E’ stato autore del furto del secolo contro Philadelphia nel 1965, nelle finali della Eastern. Mancava una manciata di secondi, Phila effettua una rimessa in zona d’attacco sulla linea di fondo ma il passaggio è intercettato da Hondo che poi si invola sulla fascia, subito sepolto da una massa enorme di tifosi che intanto si è precipitata in campo. Prosciugato dalla folla. E’ stata così la sua carriera. Non ha fatto piangere nessuno ma ha fatto esultare tanta gente, all’insegna della più consolidata tradizione biancoverde. Ora et labora.

10. – WHITE CHOCOLATE – JASON WILLIAMS
Non si merita di stare con i nomi sopra citati e forse nemmeno con Bob Pettit, Kevin McHale, Rex Chapman, Chris Mullin e Dan Majerle ma per quello che ha fatto vedere in pochi anni molti si augurano il meglio per lui. Il compaesano di Jerry West e del ricevitore Randy Moss, con i Kings ci ha fatto vedere cose mai viste prima.

All’All Star Game di Oakland nel 2000 inventò addirittura l’elbow pass, il passaggio all’indietro di gomito. A Sacramento era uno showman e ci piacevano tanto i suoi assist impossibili dietro la schiena a velocità di un razzo e altre genialate simili. A Memphis invece è diventato uno che gioca per la squadra e si limita a costruire gioco per i compagni.

Sono tutti “Calimero”, ragazzi che se ne vanno in giro pitturati di nero mostrando la classe dei fratelli di colore.

Se personalmente dovessi aprire un circolo sul mio più grande vizietto, il basket NBA, due o tre poster di qualche “Calimero” sopra citato non esiterò ad attaccarli sul muro.

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