La stagione del campionato più bello del mondo si è appena conclusa, e noi siamo già divisi tra la nostalgia e l’impazienza per quello che succederà a novembre.

Se avete vissuto senza Wi-Fi e vi siete persi qualche dettaglio, o se come noi avete solo voglia di ripassare e celebrare, ecco la nostra selezione dei momenti migliori dell’anno: questa è l’NBA edizione 2016/2017

 

Ma gli androidi sognano pecore elettriche?

Ci sono pochi dubbi sul fatto che Giannis Antetokounmpo rappresenti una buona porzione del futuro della NBA, un modello di atleta che, semplicemente, non si era mai visto: coach Kidd lo cresce come un nuovo LeBron e il greco acquisisce informazioni con velocità degna di un automa, mentre i Bucks coltivano prospettive interessanti. Nel 2017 falliscono l’obiettivo playoff, ma promuovono Giannis a play/ala/lungo tuttofare della squadra e lui ricambia con prestazioni da stropicciarsi gli occhi. Se c’è un momento della consacrazione, non può che trattarsi di questo: il Madison Square Garden come palcoscenico di lusso, un tiro in fade away per un buzzer beater da antologia.

 

Cupcakes

L’atteggiamento passivo-aggressivo di Westbrook nei confronti dell’ex compagno di squadra Kevin Durant, e del resto dei Warriors per estensione, ha tenuto banco da novembre a maggio. Le dichiarazioni d’indifferenza di Russ, che pretende di non sapere chi sia Steph Curry, non andavano di pari passo con le provocazioni sul campo e fuori: vedi l’outfit da fotografo sfoggiato in occasione del primo scontro nella baia e le infinite variazioni sul tema cupcakes – pare che fosse l’insulto preferito di Kendrick Perkins, ai tempi dei Thunder, verso chi giocava in maniera molle.

Tortine o non tortine, i confronti tra le due squadre hanno deluso sulla prova del campo, coi Warriors in pieno controllo nonostante il solito one man show di Westbrook. In occasione del ritorno di KD a Oklahoma City i due mettono un po’ di pepe sulla faccenda e hanno un cordiale scambio di pareri.

 

Space Jam

I nuovi Lakers di Luke Walton si sono spenti sulla distanza, ma erano partiti forte e parevano lanciatissimi con un sistema di scuola Warriors. Gli interpreti però, sono quel che sono – in attesa di Lonzo Ball, quantomeno. A Los Angeles si possono consolare con la prima candidata a schiacciata dell’anno: Larry Nance Jr. spicca il volo da centrocampo, resiste alla difesa dei Monstars – qui impersonati da Brook Lopez – e segna allungando il braccio gommoso per la gioia di Bugs Bunny e soci. I believe I can fly.

 

Frankenstein, o “La Creatura”

La prima metà della stagione verrà ricordata per la redenzione postuma di Sam Hinkie, allontanato da Philadelphia per salvare i Sixers dai loro stessi peccati e improvvisamente riqualificato agli occhi dell’opinione pubblica ora che il suo machiavellico Process inizia a mostrare i risultati sperati. Per rilanciare l’entusiasmo non serve nemmeno la prima scelta Simmons, fermo ai box per tutta la stagione: basta Joel Embiid. Il camerunense esce da due anni di inattività e sembra un prototipo creato in laboratorio.

È grosso, forte, agile, tecnico. Segna da tre punti, segna sotto canestro, difende, guida i compagni; riesce persino a fare amicizia con DeMarcus Cousins a suon di schiaffi sulle chiappe. Poi, come tutte le cose troppo belle per essere vere, s’infortuna e lo staff lo tiene a riposo fino a giugno: si torna in officina, a ritoccare i parametri e oliare gli ingranaggi.

 

Benvenuti a West(brook)world

Westbrook rincorre le statistiche. Westbrook non coinvolge i compagni. Westbrook tira troppo. Westbrook non fa vincere la squadra. Questo il rosario che una parte del pubblico ha ripetuto per tutta la regular season, mentre sotto agli occhi di tutti si materializzava un record apparentemente impossibile da battere nell’NBA moderna. Nasce come un’idea ambiziosa, poi si concretizza col passare dei mesi. Westbrook mette in cassaforte la tripla doppia di media e le 41 totali di Oscar Robertson sono sempre più vicine. Le supera in grande stile il 10 aprile, affossando le speranze playoff dei Denver Nuggets: 50 punti, 16 rimbalzi, 10 assist e questo tiro per la vittoria. Perché Russell Westbrook è così, prendere o lasciare.

 The Truth will set you free

Col ritiro di Paul Pierce la cerchia dei giocatori anni ’90 si restringe a Nowitzki, Vince Carter e Jason Terry e noi ci sentiamo tutti un po’ più vecchi. Che Double P volesse appendere le sneakers al chiodo era nell’aria, tuttavia il suo farewell tour l’ha vissuto in ciabatte, contrariamente al collega Bryant, contribuendo il minimo indispensabile alla mogia stagione dei Clippers; d’altronde, è nel suo stile. Non è mancato qualche battibecco, giusto per ricordarci quanto siano mosce le nuove generazioni, ma il momento da registrare negli annali è questo: l’addio al suo pubblico, quello di Boston, coi Celtics che si sono impegnati a rifirmarlo per un giorno in modo che si possa ritirare in maglia verde. Livello nostalgia: Ron Artest quando ancora si chiamava Ron Artest.

 

Ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser

Se per suggellare il trionfo dei Warriors sono servite le giocate individuali di Kevin Durant, a portarli in pole position fino alla Finals è stato il gioco di squadra, sorprendentemente fluido per avere a roster così tanti campioni. In questo canestro c’è la dichiarazione d’intenti futurista con cui Golden State ha scosso la lega: il pallone non tocca mai terra, i passaggi disegnano traccianti sorvolando il parquet come raggi laser.

 

Hail Mary

Che la stagione dei Cleveland Cavaliers fosse destinata a picchi di grandezza era chiaro a tutti, nonostante i dubbi di un 2017 iniziato sotto pessimi auspici. I Boston Celtics ne approfitteranno per passare in testa alla Eastern Conference, ma LeBron e compagni non se ne preoccupano e guardano già avanti, in direzione playoff – dove infatti faranno terra bruciata. Anche i Washington Wizards avevano alzato la cresta dopo l’All Star break, e qui mettono i campioni in carica alle corde. Ma Kevin Love è il quarterback che lancia la preghiera, James il wide receiver che la cattura: la tripla in allontanamento – di tabella – oltre le mani di Bradley Beal è il suo personalissmo touchdown. Come dire: a est del Mississipi non ce n’è per nessuno.

 

Pacman

La rimonta dei Miami Heat è stata una delle storie più intriganti dell’anno. Partiti con un record che lasciava immaginare il tanking più sfrenato – e un quintetto che non avrebbe sfigurato in D-League -, Erik Spoelstra ha tirato fuori il coniglio dal cilindro: James Johnson reinventato in senso lebroniano, Goran Dragic che si riscopre giocatore di pallacanestro, Tyler Johnson a schiacciare con arroganza, Dion Waiters che condanna i Warriors con un buzzer beater e poi sbaglia due citazioni in fila, Luke Babbitt che… vabbè, Luke Babbitt. In questo universo variopinto, che per poco non valeva una qualificazione ai playoff e una candidatura a coach dell’anno per Spoelstra, il centro di gravità è Hassan Whiteside. Qui entra in graduatoria per la dunk of the year: si crede protagonista di un cabinato anni ’80 e mangia il pallone come fosse un power-up.

KA-WOW

Tutto si può dire della stagione 2016/2017 tranne che siano mancati i candidati MVP. San Antonio compie il solito percorso netto lontano dai radar, mentre tutti si concentrano su Cavs e Warriors, e con la solita sterzata dopo il rodeo trip azzardano pure il sorpasso nei confronti di Golden State. Al primo anno dell’era volgare, vale a dire post Duncan, gli Spurs si scoprono felicemente dipendenti da un Kawhi Leonard che fa tutto, in attacco e in difesa, accumulando un dato di usage mai visto sotto la gestione democratica di coach Pop. Ho scritto “felicemente” perché sul parquet si vedono giocate come questa: da aggiungere al glossario della pallacanestro alla voce “two-way player”.

 

Bros before h**s

Il fotogramma della svagata regular season dei Cavs. JR Smith è quel giocatore in grado di segnare col 63% dall’arco nelle ultime tre partite delle Finals, con canestri sconsiderati come questo, ma è anche quel personaggio che si allontana in direzione della panchina avversaria, a partita in corso, per scambiare una bella dap con l’amico Jason Terry: i due punti subiti sono poca cosa in confronto al sodalizio rinsaldato, si sa mai che il Jet non venga a vestire la maglia dei Cleveland per due spiccioli.

 

Tombstone Piledriver

Gara 3 è stata la più bella delle Finals, forse degli interi playoff. Cleveland è al comando tra le mura amiche, per la prima volta nella serie riesce a mettere in difficoltà gli Warriors che vacillano ma non si lasciano distanziare, aggrappati alle giocate individuali di Kevin Durant. Bastano due errori di Korver e Irving, su tiri ottimamente difesi, che i Warriors impegnano la corsia di sorpasso a un soffio dal traguardo. Nell’anno in cui Undertaker si ritira dalle scene del wrestling, KD veste i panni del becchino e pianta il chiodo nella bara dei Cavs con un tiro privo di logica – e per questo bellissimo. LeBron, che gli aveva concesso quel metro di spazio per indirizzarlo verso l’aiuto, osserva sconsolato. Sa bene di cosa si tratta, ci è già passato: così si mettono a tacere gli haters.

 

Ultimo tango a San Antonio

Troppo Kawhi-dipendenti per impensierire Golden State privi del proprio miglior giocatore, gli Spurs si sono arresi ai rivali con un deludente 4-0. Ma c’era almeno da salvare l’onore: con Aldridge e Gasol che già organizzavano le vacanze e Parker azzoppato nella serie contro Houston, l’incombenza non poteva che spettare a Emanuel David Ginobili da Bahìa Blanca, Argentina, 39 primavere sul groppone e una carriera da contusioni in tripla cifra. Ne mette 17, 21 e 15, si esibisce in giocate che mandano indietro le lancette dell’orologio. Coach Pop gli concede partenza in quintetto e standing ovation sul parquet amico. C’è aria di ritiro in Texas. Quando sono passati questi dieci anni, che non ce ne siamo accorti?

 

Sulle spalle dei giganti

Isaiah Thomas è il giocatore più poetico dell’NBA attuale. Viene da Seattle, è già questo racconta molto della sua storia. È alto meno di sei piedi, è entrato nella lega come ultima scelta del draft e si è creato una reputazione da piantagrane tra Sacramento e Phoenix. Poi approda a Boston e diventa il volto di quell’opera d’arte firmata da Brad Stevens. Accumula statistiche che lo proiettano, in un solo anno, tra i grandissimi della franchigia più titolata della lega, si guadagna il soprannome di “King in the fourth” perché nessuno segna più di lui nell’ultimo quarto.

Alla vigilia dell’esordio ai playoff, l’apice catartico della sua ballata si traduce in dramma: la sorella Chyna, 22 anni, muore in un incidente stradale. Isaiah gioca gara 1 tra le lacrime, vivisezionato dalle telecamere, e la perde, pur segnando 33 punti. Al turno successivo ne rifila 53 ai Washington Wizards. Ammetterà di aver meditato di lasciare il basket, e di avere invece proseguito con la risoluzione di dedicare ogni risultato personale alla memoria della sorella. Se ve lo steste chiedendo: sì, c’è vita oltre la pallacanestro.

 

A pensar male si fa peccato

Spiace parlare di un episodio che poco ha a che fare con la pallacanestro, ma si tratta pur sempre della giocata più discussa della serie tra Golden State e San Antonio – sì, quella che aspettavamo da tre anni e che si è risolta in un nulla di fatto. Leonard si presenta con una caviglia già in disordine, ma guida i suoi a un primo tempo da urlo che caccia i Warriors a venti punti di distanza. Poi, su un close out poco coordinato, Zaza allunga il piedone e infligge alla caviglia di Kawhi il colpo di grazia. Lui, col consueto savoir faire/indifferenza, sostiene di non essersela presa. Coach Pop invece è furente col georgiano, mentre gli appassionati di vecchio corso si affrettano a ricordargli le prodezze di Bruce Bowen in maglia Spurs; sui social network, intanto, impazzano disamine che spaziano dall’NBA al campionato UISP nella palestra sotto casa. Volontario o no, una cosa è certa: a forza di rivedere le movenze sgraziate di Pachulia in slow motion, ci è venuto il mal di mare.

 

Franchi tiratori

L’abbiamo già detto che nel 2016/2017 si sono lette statistiche da capogiro? Triple doppie, tiri da tre, e di colpo ci scopriamo tutti esperti di offensive rating. Si è segnato tanto, tantissimo – un po’ per colpa delle difese e un po’ per merito degli attacchi. In dicembre Klay Thompson dà di matto e in un’autentica shooting spree segna 60 punti in 29 minuti. La partita si chiude in anticipo e coach Kerr lo fa riposare in panchina: fate un po’ voi la proiezione sui 48 minuti, io ho paura del risultato.

Eppure la prestazione individuale più ricca porta la firma di Devin Booker, in una sfida di fine marzo inutile per i destini dei suoi Suns, ma buona per la propria reputazione. Il palcoscenico è quello del Boston Garden; poteva sceglierselo peggio. Tutta la partita è un inseguimento del canestro, col risultato compromesso da subito in favore dei Celtics e i compagni che fiutano l’odore di storia e riforniscono Devin a ogni azione. Non sarà bellissimo da vedere, ma segnateli voi 70 punti. Meglio di lui solo David Robinson, Elgin Baylor, David Thompson, Kobe Bryant e Wilt Chamberlain.

 

Tutti i colori di Craig

Il 15 dicembre 2016, dopo una lunga battaglia col cancro, ci lascia Craig Sager. Il tributo con cui l’NBA intera gli rende omaggio è emozionante: abiti sgargianti a tema, beneficenza per la sua fondazione SagerStrong, parole commosse dell’amico/nemico Gregg Popovich. Ma preferiamo ricordarlo com’era in vita, così come merita un personaggio così solare. La sua ultima intervista sul parquet, nonché la prima in carriera nelle Finals: gara 6 del 2016, dimagrito e un po’ sofferente, con LeBron che se lo coccola. E soprattutto sul palco degli ESPY Awards, dove tiene un discorso talmente gioioso che sembra più un benvenuto che un addio: “time is something that cannot be bought; it cannot be wagered with God, and it is not in endless supply. Time is simply how you live your life”.

 

Barba & Baffi

I Rockets di Mike D’Antoni si sono infranti sul muro Spurs, ingrassando il bottino di coach Pop nei confronti diretti col buon Mike, ma l’accoppiata tra il nuovo coach di Houston e James Harden ha ingranato da subito. Più che un canonico run ‘n gun come ai tempi di Phoenix, il Baffo (che però non ha più i baffi) fa giocare ai suoi ragazzi un rhytm ‘n blues sulle lunghezze d’onda preferite dal Barba, serissimo candidato al premio di MVP. Non ci fosse stato Westbrook di mezzo, staremmo tutti parlando di Harden e delle sue triple doppie da record: quella contro New York, per esempio, prima di sempre con almeno 50 punti, 15 rimbalzi e 15 assist. Sì, le cifre sono giuste. L’annata 2017 è stata un viaggio folle.

 

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