Questa sfida tra Raptors e Cavs rappresentava un esame importante per ambedue le franchigie coinvolte, al netto delle diverse ambizioni; per Toronto era l’occasione di misurarsi con una potenza di primo livello, per pesare la competitività del roster assemblato da Masai Ujiri, mentre l’enigmatica Cleveland cercava risposte circa la propria reale capacità di accedere a piacimento.

Il perentorio 4 a 0 iniziato sul parquet della Quicken Loans Arena e conclusosi su quello dell’Air Canada Center sancisce l’inizio di una lunga off-season per i Raptors, mentre i Cavaliers potranno allenarsi e riposarsi, in attesa di conoscere il nome della loro prossima sfidante (al momento di scrivere, Washington ha appena pareggiato la serie con Boston sul 2-2).

Toronto è stata spazzata via da una squadra nettamente più forte (dodicesimo close-out game vinto consecutivamente da LBJ e compagni), con un differenziale medio di 15.3 punti a gara, e la costante sensazione (poco sabermetrica, ma decisamente reale) che LeBron James fosse in totale controllo delle operazioni, capace di fare e disfare a piacimento, con i suoi 36 punti di media, 8.3 rimbalzi, 5.3 assist, 1 stoppata e 1.3 rubate, con il 57% dal campo e l’ormai classico 48.1% da tre, e un inusitato 83.3% dalla linea della carità.

Il paragone con l’impatto di DeMar DeRozan e di Kyle Lowry (per giunta infortunato negli ultimi due episodi dello sweep) è impietoso, e costringerà i canadesi a riflettere su come migliorare questa franchigia. Come ha detto DeRozan, “avessimo avuto LeBron avremmo vinto questa serie”; la guardia californiana scherzava amaramente, ma in fondo, come il pazzo shakespeariano, diceva la pura e semplice verità.

Il problema per i Raptors è che non si vedono dei King James all’orizzonte capaci di arrivare a Toronto e cambiare la cultura, e quindi, va bene aggiungere i P.J. Tucker e i Serge Ibaka di questo mondo, ottimi professionisti e fantastici uomini-spogliatoio, ma è arrivato il momento di chiedersi se questo roster non necessiti di un restyling più profondo.

QUI TORONTO

I dinosauri dell’Ontario avevano chiuso la stagione regolare in crescita, con un 51-31 complessivo, recuperando per giunta l’importantissimo Lowry; non è mai facile affrontare i Playoffs con un gruppo che ha condiviso il campo per così pochi minuti (tra infortuni e acquisizioni alla trade deadline), e i Raptors, dopo aver faticato al primo turno contro i giovani Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo, si sono schiantati contro una corazzata troppo profonda, talentuosa e abituata a questi livelli.

Toronto ha lottato con armi impari (almeno a certi livelli) dopo essersi confermata traballante anche con avversari decisamente più abbordabili rispetto ai fenomeni dell’Ohio; il percorso di DeRozan e compagni non è stato rettilineo nemmeno contro i Bucks, proprio come non lo fu l’anno scorso, quando servirono sette partite per eliminare i Miami Heat, così falcidiati dagli infortuni da ridursi a schierare Justise Winslow come improbabile pivot.

Parlare di aspetti tecnici della sconfitta, esaminando magari statistiche avanzate, usage, mappe di tiro, miss-match e quant’altro, appare in questo caso un esercizio superfluo, tanta e tale era la superiorità di una compagine sull’altra. Può sembrare strano, visto che parliamo di un secondo turno di Playoffs, ma è andata proprio così.

Fatichiamo ad identificare tra i responsabili coach Dwane Casey, l’ex giramondo che ha messo radici in Canada (allena i Raptors dal 2011), e che schiera in Regular Season una formazione complessivamente solida e conscia dei propri pregi e difetti, ma che in Post-Season tende a smarrirsi, seguendo le incertezze delle stelle, DeRozan e Lowry, e un roster che non sa improvvisare, e fatica a punire certe scelte difensive.

Casey guida un gruppo unito, che ha portato per la prima volta ad alto livello il basket canadese, ma con dei limiti difficili da limare con qualche trade di contorno, o con qualche giocatore pescato nella parte bassa del primo giro del draft. L’impressione, è che Toronto abbia toccato il proprio “ceiling”, il tetto di rendimento, esemplificato dal 2-8 rimediato in due stagioni di Playoffs contro l’unica vera contender della Eastern Conference.

La tentazione potrebbe essere quella di buttare la croce addosso a DeRozan (che ha tenuto in piedi la baracca, anche nelle due partite senza il suo playmaker) e a Lowry (che è free-agent), o ancora, si potrebbe pensare di invertire la rotta licenziando coach Casey, il che però ha senso solo sopravvalutando un roster che poteva giocare solo come ha fatto. Cacciare Dwane Casey non trasformerà magicamente i Raptors in una squadra offensivamente temibile (nella serie, 27 su 90 da tre punti, con i Cavs che hanno segnato 102 punti in più dalla lunga distanza), non allungherà le rotazioni, e non migliorerà le prestazioni down-the-stretch dei due leader tecnici della franchigia.

Toronto è una formazione di buoni giocatori dal grande cuore che piacciono al pubblico ruvido di queste parti, gente abituata all’Hockey NHL, ma è un gruppo privo di quei passatori qualitativi che fanno drive-and-kick o che sanno agire da “facilitatori”, alla Boris Diaw. Per giunta, mancano anche i tiratori per sfruttare gli extra-pass. Lowry e DeRozan sono ottimi giocatori, ma, a meno di sopravvalutarli, non gli si può chiedere di fare tutto da soli, ed ecco perché, nei PO, i Raptors hanno segnato 9 punti di media su 100 possessi in meno, rispetto a quanto fatto in Regular Season, quando l’avversario ti conosce meno approfonditamente.

Tra meno di due mesi, Kyle Lowry lascerà sul tavolo gli ultimi 12 milioni del suo vecchio contratto, per ritornare free-agent e guardarsi attorno. Lo ha detto subito, fin dal training camp d’ottobre, senza creare false illusioni nei tifosi di Toronto. Lowry sostiene di essere aperto ad ogni possibilità, ed è legato alla città e alla franchigia nella quale è diventato un All-Star, ma l’obiettivo, l’ha detto lui stesso, è vincere un anello, e questo apre un pertugio per tanti scenari alternativi.

Toronto può offrirgli 5 anni a 200 milioni, ma a 31 anni, con questi risultati nei Playoffs, avrebbe davvero senso strapagarlo, di là dal trattenere quello che, con Vince Carter e Chris Bosh, è certamente la stella più importante nella storia dei Raptors?

Perdere Lowry potrebbe mettere in moto una valanga: saranno infatti free-agent anche Tucker, Ibaka e Patrick Patterson, e allora la possibilità di un ribaltone totale va presa in considerazione, anche perché Ujiri (che viene dalla gavetta: ha iniziato da scout non pagato per gli Orlando Magic) è un manager capace e spregiudicato, e ha già parlato dell’importanza della prossima estate, infatti se Lowry cambia indirizzo, che senso ha trattenere dei role-player, chiudendo la porta ad ogni flessibilità futura?

Rifirmare tutti significherebbe andare 30 milioni circa oltre il salary cap: una follia, per un gruppo che ha abbondantemente dimostrato di non poter competere per l’argenteria. Che fare allora? Scaricare DeMarre Carroll per contenere i costi? Provare a scambiare Jonas Valanciunas? Difficilmente le contropartite saranno tali da cambiare radicalmente le prospettive di DeRozan e compagni, questo è chiaro.

L’alternativa sarebbe ripartire dal dolorosissimo tanking, dicendo addio ai giocatori pronti, e dando minuti ai Poeltl, ai Siakam, ai Norman Powell, magari scambiando anche DeRozan in cambio di talento giovane o di scelte e contratti in scadenza, ma DeMar non è così facile da “tradare” perché ha dei limiti (assenza di playmaking e tiro da tre) che ne fanno un giocatore forte ma limitabile, con uno stipendio da MVP; sono fattori che ogni franchigia con un front-office degno di questo nome soppesa accuratamente.

Esiste ovviamente anche una terza via, quella meno popolare nella NBA del championship-or-bust, e del mito delle franchigie buone che non diventano mai buonissime –ma non esiste nessun automatismo tra tanking e titoli NBA; se non altro, Utah, Atlanta, Washington, Boston, giocano benissimo e divertono. Ujiri potrebbe continuare a scegliere buoni talenti dietro le quinte, mantenendo al contempo la squadra in linea di galleggiamento con Lowry e DeRozan (e magari aggiungendo un veterano con esperienza ad alto livello, che possa aiutare le stelle), restando alla finestra per cogliere ogni opportunità.

QUI CLEVELAND

Quella contro i Raptors è stata una serie quasi più agevole di quella contro i Pacers, sulla carta meno impegnativi rispetto ai canadesi, ma capaci, tra rimonte subite e inflitte, di tenere in bilico quattro partite, pur perdendole tutte. I dubbi sulla tenuta difensiva dei Cavs, retaggio della stagione regolare, stanno perdendo consistenza, ma è anche vero che Toronto era la squadra perfetta per mascherare i difetti in rotazione e close-out di Channing Frye, Kevin Love e compagnia.

Cleveland non si è mai trovata costretta a fare scelte difficili, limitandosi a tamponare l’opzione A dell’attacco di Toronto, senza pagar dazio. Tucker, Patterson, e gli altri role-players non sono certo sentenze da dietro l’arco, e questo ha consentito ai Cavs di chiudere l’area senza doversi troppo preoccupare dei giocatori appostati in visione, o di eventuali taglianti.

Serge Ibaka è stato battezzato per tutta la serie, e il lungo congolese, che non è più il defensive-stopper capace di cambiare la geografia delle partite ad OKC, non ha adoperato lo spazio a disposizione per infliggere danni autentici alla difesa Cavs, limitandosi a qualche tiro dalla media (che lo tagliava fuori dalla lotta a rimbalzo), o, peggio, interrompendo la circolazione di palla esponendo ancor di più i limiti offensivi di questo gruppo.

Insomma, i Cavaliers non potevano davvero perdere una serie del genere, ma sono stati ugualmente bravi ad eseguire senza distrarsi troppo, mentre James e Irving (che ha confermato il titolo di miglior “closer” in circolazione nei quarti periodi mettendone altri 9 proprio quando Toronto iniziava a sperare) chiarivano agli astanti che DeRozan e Lowry sono forti e volenterosi, ma le stelle di Cleveland sono davvero di un altro livello.

Lebron James, reduce da una serie monumentale contro Indiana, ha piazzato un’altra quaterna di gare d’altissimo livello, sorprendenti per il dominio fisico che questo autentico scherzo di natura continua ad esercitare, nonostante le 32 candeline spente a dicembre. Per di più, King James ha trovato fiducia e continuità nel tiro dalla lunga distanza, il che lo rende un rebus impossibile da risolvere: chi lo marca da vicino verrà bruciato dal suo primo passo e l’aiuto verrà spazzato via. Chi invece gli concede il tiro per evitare il canestro in avvicinamento, ha il 48% di possibilità di dover scrivere “3” nella casella dei punti segnati.

Pick your poison”, si dice in questi casi: scegli il tuo veleno. Va anche detto che prima o poi sarà opportuno parlare anche del peso che la Eastern Conference sta avendo all’interno della carriera di LBJ, che ormai domina psicologicamente i suoi avversari come faceva Michael Jordan ai tempi belli (a volte scadendo nell’arroganza, come quando ha finto di bersi una birra a bordo campo). Se i Cavs vinceranno anche la prossima serie, LeBron approderà alla sua settima finale NBA consecutiva, ma sono numeri da mettere in prospettiva.

Non avremo mai la riprova del contrario, ma dubitiamo che LBJ avrebbe inanellato la medesima striscia di apparizioni alle Finals giocando ad ovest del Mississippi; questo non toglie nulla al supremo valore del giocatore, che (questo è il nostro punto) non può essere ricondotto ai numeri o ai record: James non è uno dei più grandi giocatori di sempre perché ha disputato sette Finali, quanto piuttosto per il modo in cui ha portato le sue squadre a quel traguardo; con leadership, difesa, intensità, talento e lavoro, tantissimo lavoro.

Vicino a lui, un Kyrie Irving da 27 punti e 9 assist in Gara 4 (con una sola palla persa) è ormai entrato nell’Olimpo dei giocatori che conoscono la strada per la vittoria, e sanno scegliere quando affondare il fendente con lucida e teatrale crudeltà sportiva. Oltretutto, Irving ha chiuso la serie con 8.5 assist di media, il suo massimo in carriera nei Playoffs; aggiungere alla dimensione d’attaccante spezza-caviglie (costruita lavorando con Kobe Bryant) anche quella di facilitatore per i compagni (per la quale si sta spendendo LeBron), può rappresentare un ulteriore passo verso l’assoluta grandezza di un giocatore troppo spesso sottovalutato.

Con due trattatori di palla di questo calibro, letali in uno-contro-uno e abilissimi ad armare la mano del nutrito plotone di tiratori in forze ai Cavs (hanno segnato o assistito 92 dei 109 punti di Cleveland in Gara 4!), il destino della serie era segnato. Resta da stabilire se la vincente tra Boston Celtics e Washington Wizards sarà capace di invertire la tendenza, magari impegnando difensivamente una squadra che non è ancora testata nella propria metà campo, o cercando di limitare le penetrazioni delle due superstar.

Quel che impressiona di Cleveland, apparsa afasica e incline a distrarsi in Stagione Regolare, è la continuità mentale esposta in queste otto partite di Playoffs, nelle quali, di riffa o di raffa, si è sempre trovato il modo di portare a casa la doppia V. Può darsi che il livello dell’avversario fosse talmente inferiore da non impensierire i ragazzi di coach Lue, ma ci sembra piuttosto che tutti, inclusi gli ultimi arrivati, come Deron Williams e Kyle Korver, abbiano fatto propria la mentalità all-business della squadra intenzionata a vincere senza sprecare energie, anche se non soprattutto mentali.

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.