La notizia è stata un fulmine a ciel sereno, ma d’altronde è in linea con il personaggio, uomo d’altri tempi, interessato a far parlare solamente i fatti, anziché i soliloqui tanto di moda in un’epoca di parole al vento e “talenti” portati a destra e a manca.

Larry Joe Bird non è più presidente degli Indiana Pacers, la squadra della quale, da allenatore prima, e da dirigente poi, è diventato una costante nell’arco di tre decenni, interrotti brevemente a causa degli iati imposti dalle sue imperfette condizioni di salute.

Il Bird giocatore è inevitabilmente legato al verde dei Boston Celtics, la sua unica franchigia professionistica, con la quale ha alzato al cielo tre titoli NBA, 2 titoli di MVP delle Finals, 3 MVP di Stagione Regolare, dando vita, assieme a Magic Johnson, ad una delle più esaltanti epopee cestistiche di tutti i tempi. Bird è stato uno dei più grandi giocatori di ogni epoca, un talento e un leader che non teme confronti nemmeno coi Michael Jordan o con i LeBron James, ma il suo acume cestistico gli ha consentito d’avere successo in ogni ambito di questo sport.

The Hick from French Lick però è innanzitutto un ragazzo dell’Indiana, Stato rurale a base di covoni di fieno e campi a perdita d’occhio, nel quale il basket è sacro quasi quanto la Messa domenicale. Anzi, forse anche di più. Tornare a Indianapolis, nel 1997, è stato un passo naturale, per lui che era già stato il portabandiera del suo Stato già ai tempi del triennio a Indiana State University, tra il ’76 e il ’79.

Dopo aver allenato la squadra (reduce dalla mancata qualificazione ai Playoffs) per tre anni, in un percorso culminato nelle Finals del 2000 (perse contro i primi Lakers iridati targati Kobe & Shaq), Bird si prese tre anni di sabbatico, per poi tornare a Indiana come Presidente delle Operazioni Basketball, gestendo le glorie e le miserie dell’epoca di Ron Artest, Jermaine O’Neal, Jamaal Tinsley e Stephen Jackson.

Bird si dimise nel 2012, dopo aver perso al secondo turno contro i Miami Heat poi campioni NBA, ma a distanza di 12 mesi tornò in sella, riconquistando la Finale di Conference, per poi veder svanire, tra le incertezze di Hibbert e l’addio di Stephenson, l’ennesima versione dei Pacers (una delle quattro franchigie provenienti dalla defunta ABA) capace di sfiorare il bersaglio grosso.

Oggi Bird ha sessant’anni, e non è meno brusco di quando riprendeva Kevin McHale per l’eccessiva leggerezza in allenamento, o di quando andava a dirne quattro a Julius Erving. Solo pochi giorni fa, aveva guidato per le strade di New York una vettura della Formula Indy, per pubblicizzare il circuito della sua città, e nulla lasciava presagire una decisione che invece era evidentemente da tempo al vaglio, e che spiega l’aria più tormentata del solito con la quale appariva in pubblico.

Secondo quanto riportano Adrian Wojnarowski e Marc J. Spears, lo sostituirà il GM, Kevin Pritchard, 49 anni, nativo di Bloomington, Indiana, campione NCAA nel 1988 con Kansas, e titolare di un’onorevole carriera da professionista che l’ha visto anche in quel di Reggio Calabria a metà anni novanta, prima di assumere incarichi dirigenziali ai Portland Trail Blazers.

Pritchard dovrà gestire lo 0-4 subito dai Pacers per mano dei Cleveland Cavaliers, e le voci che da mesi danno per partente il giocatore più rappresentativo (e più forte) che questa franchigia possa vantare dai tempi gloriosi di Reggie Miller: parliamo ovviamente di Paul George, l’ala californiana che non ha mai fatto mistero della sua passione per i colori giallo-viola dei Lakers.

Non possiamo escludere che Bird si sia fatto da parte proprio per non dover essere l’uomo dell’ennesima ricostruzione e dell’inevitabile tanking che seguirà. La nostra non vuole essere nulla più che una supposizione, ma d’altronde sarebbe strano (non impossibile, ma semplicemente strano) se Bird avesse lasciato le redini con un Paul George disponibile a restare ed entusiasta di compagni, ambiente e di coach McMillan.

Se PG13 fosse stato anche solo incerto circa la sua permanenza alla Bankers Life Fieldhouse, la presenza di Larry Legend (l’unico uomo con in bacheca MVP, premio per Allenatore ed Executive dell’anno e che rimane ai Pacers come consulente) sarebbe stata una importante garanzia circa la serietà del progetto. In questo senso, l’addio di Bird potrebbe essere il preludio ad ulteriori ribaltoni in termini di filosofia, composizione del roster, e forse anche di staff tecnico.

Paul George è in scadenza del 2018 (per essere precisi, ha una player option per uscire anticipatamente dal contratto), ma come abbiamo visto l’estate scorsa con Russell Westbrook, nessuna franchigia è disposta ad andare in scadenza con un giocatore forte, potenzialmente scontento; Sam Presti chiese alla stella di OKC di scegliere se prolungare o se essere scambiato subito, e Wesbrook optò per la permanenza di Oklahoma.

Pritchard agirà sulla falsariga di Presti; chiederà a George se ha davvero intenzione di uscire dal contratto e se lo farà per ri-firmare a cifre più alte (quanto più alte, dipenderà dalla sua eventuale inclusione in uno dei primi quintetti NBA, su cui si fonda la Designated Player Exception) o se lo farà per contemplare nuove avventure lontano dal midwest, che lo ha cullato in tutti questi anni, assistendo alla sua irresistibile ascesa da riserva di Danny Granger a superstar NBA.

L’aspetto contrattuale non è secondario; parliamo pur sempre di contratti milionari, certop, ma qualora George dovesse qualificarsi per la DPE, sarebbe eleggibile per un contratto da 210 milioni circa (in 5 anni), mentre senza questa questa qualifica, potrebbe ambire ad una settantina di milioni in meno, posto che se l’obiettivo è la competitività, forse converrebbe lasciare un po’ di soldi sul tavolo per ottenere rinforzi, DPE o meno.

È però probabile che PG13 non rientrerà in nessuno dei quintetti All-NBA, e questo altera radicalmente le prospettive: sostanzialmente, Indiana si troverà a poter offrire all’ala di Palmdale solamente un anno in più di contratto rispetto alle altre 29 franchigie (cinque anziché quattro) e a quel punto George potrebbe davvero annunciare urbi et orbi l’intenzione di fare le valigie a luglio ’18, costringendo Pritchard a trattare con Pelinka e Magic Johnson, che già s’era fatto avanti a febbraio.

Indiana potrebbe cadere in piedi, e ritrovarsi con Brandon Ingram o con la futura scelta dei Lakers (solo il 16 maggio sapremo se Los Angeles terrà la propria selezione, o se la perderà in favore di Philadelphia), ma quasi certamente anche con un “albatros” da scegliere tra Luol Deng e Timofey Mozgov (per pareggiare il contratto di George), destinati ad affossare i Pacers per anni. Insomma, la situazione potrebbe farsi assai ingarbugliata.

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