La serie tra Raptors e Bucks era tra le principali candidate all’upset, e in effetti si era aperta con una vittoria in trasferta di Milwaukee. 

É bizzarro come Toronto non abbia ancora guadagnato presso gli esperti del settore il rispetto dovuto a una squadra così solida. Nei piani altissimi della Eastern Conference da un paio d’anni, capaci di strappare due partite ai Cavs campioni 2016, lanciatissimi all’inizio della nuova stagione con un DeRozan alla migliore annata in carriera, persino rafforzatisi in corso d’opera con le preziose aggiunte di PJ Tucker e sopratutto Serge Ibaka. 

L’ex Thunder, reduce dal fallimentare trasferimento ai Magic, incarna in una sola figura due pezzi mancanti nello scacchiere di Dwayne Casey: un terzo realizzatore alle spalle di Lowry e del Compton’s finest, e un 4 titolare che unisca il tiro di Patrick Patterson alla presenza nel pitturato di Valanciunas. 

Eppure i Raptors sono un pasto che lascia l’amaro in bocca, vuoi per un progetto che sembra aver raggiunto il suo culmine, vuoi per il cammino sempre faticoso nella post-season – servirono 14 partite per approdare alla finale di Conference nel 2016.

Dei Bucks, al contrario, è facile innamorarsi o quantomeno averli in simpatia, dopo i due gravi infortuni al ginocchio di Jabari Parker. Proprio con l’abbandono del prodotto di Duke – o, se vogliamo, con il ritorno di Kris Middleton – è coincisa la riscossa di Milwaukee che ha conquistato la sesta piazza a est interpretando una seconda metà di stagione in continua crescita.

 Coach Jason Kidd è in quella fase in cui gli esperimenti danno i risultati sperati, e ciò che tocca diventa oro. Giannis Antetokounmpo è la next big thing della lega, lo sappiamo, ma Kidd gli ha insegnato come esercitare controllo sulla partita anche quando gioca a ritmi altissimi, quasi westbrookiani

Nel rocambolesco ultimo quarto di gara 6, con la rimonta da oltre 25 punti di svantaggio che si concretizzava prima della zampata Raptors nel finale, il greco era in debito d’ossigeno. Stampava tre tiri liberi sul primo ferro, con le ginocchia dritte, ma non mollava di un centimetro mentre Kidd lo incoraggiava dalla panchina, ispiratissimo. 

“It has to hurt, if you want to win” predicava, con una catch-phrase più poetica, ma meno d’impatto, del take that for data fitzdaliano. 

“Who’s willing to die to win this game?” rincarava durante un time-out, alla ricerca dell’estremo catartico nella metafora. Nessuno è morto e nessuno si è fatto male. Ha semplicemente vinto quella che – per ora – è la squadra più forte.

Le sei partite, prese singolarmente, hanno mostrato meno equilibrio di quanto non suggerisca il 4-2 finale.

 Quando Milwaukee ha vinto lo ha fatto dominando, specialmente nella gara 3 chiusa sul +27 tra le mure amiche. Allo stesso modo, Toronto ha preso il largo con due netti successi nelle sfide numero 3 e 4.

 Solo l’ultimo confronto è rimasto in bilico fino a pochi istanti dalla sirena, ma con un percorso degno delle montagne russe e i Raptors che s’impigriscono sul +25 aprendo la porta al ritorno di fiamma dei cervi. Fino a quel momento, la partita non aveva avuto storia. 

Buona parte del merito va agli aggiustamenti di coach Dwane Casey. Di fronte alla fisicità e alla versatilità dei Bucks abbandona il progetto delle due torri schierando la seconda ala, Norman Powell, a fianco di Ibaka.

 Così facendo toglie Valanciunas dalle attenzioni di Thon Maker, che lo trascinava lontano da canestro, e permette al lituano di imporsi sulla second unit avversaria senza sacrificarne il minutaggio – nelle vittorie di gara 4 e 5 le sue percentuali al tiro, fino a quel momento deficitarie, s’impennano. 

Powell, poi, dev’essere una sorta di feticcio per coach Casey quando tira aria di playoff. Già lo scorso anno prese per mano i Raptors fuori dalle sabbie mobili col suo atletismo. A questo giro ha messo a referto uno strepitoso 100% al tiro dall’arco in tutta la serie, 10-10, con 25 punti in gara 5 per festeggiare la promozione in quintetto. 

Esattamente l’iniezione d’energia che serviva per ravvivare la squadra, con Lowry reduce da un infortunio e a tratti poco incisivo, anche a causa delle noie alla schiena. La firma sul successo, come da copione, la pone DeMar Derozan.

 Il suo stile di gioco risente delle difese più serrate che si vedono da metà aprile, e lo testimoniano il 7-21 di gara 1 (ma con un brillante 13-14 ai liberi) e l’inquietante 0-8 del massacro di gara 3 al Bradley Center. Ma quando c’è bisogno di togliere le castagne dal fuoco, who you gonna call? 

DeMar risponde alla chiamata come un Ghostbuster e in gara 6 scivola tra le linee di Milwaukee con iniziative personali di puro talento. Ne mette 32, 4 dei quali nei decisivi istanti finali.

I Bucks incassano un passivo più pesante rispetto alle aspettative, ma escono a testa alta. In pochi mesi coach Kidd è riuscito a tirar fuori qualcosa di buono da un Terry al canto del cigno e ha trasformato Tony Snell in un onesto starter.

 Thon Maker è la sorpresa più piacevole di questi playoff. Corona il minutaggio in crescendo degli ultimi mesi di regular season reggendo il parquet per 20 minuti abbondanti. 

Del suo talento sapevamo già tutto grazie ai mixtape su youtube. I movimenti sono ancora lenti se paragonati a quelli di unicorni come Towns e Porzingis, ma Maker è già una minaccia legittima dall’arco e sa mettere palla per terra. L’ideale per aprire la scatola in favore delle galoppate di Antetokounmpo – i due, poi, sembrano buoni amici

Stupisce la naturalezza nel comprendere il gioco, dai passaggi smarcanti alla corretta posizione in difesa. C’è un pizzico di Kevin Garnett in lui, non solo per il fisico slanciato che dovrà irrobustire di almeno una quindicina di chili, ma anche nel modo di occupare gli spazi intorno al canestro. 

Apre gara 6 esibendosi in 4 stoppate nel solo primo quarto. Il greco ha accusato un paio di battute d’arresto – il 9-24 di gara 2 grida vendetta – ma nei successi e nelle due sconfitte conclusive ha bazzicato intorno ai 30 punti superando in due occasioni il 70% dal campo. Tutto questo, gioverà ricordarlo, al cospetto di una difesa Ratpors tutta incentrata su di lui, ottimizzata per negargli le corse in campo aperto e sfidarlo al tiro.

 Spesso Antentokounmpo si è messo in ritmo andando a conquistarsi i due punti con le cattive maniere, uno contro uno in post come se fosse un centro. Se l’esperimento Giannis vuole continuare sul solco tracciato da LeBron, servono tiratori più abili, o quantomeno più decisi, a raccoglierne gli scarichi.

 I vari Middleton, Snell e Brogdon dispongono di buone mani ma apparivano titubanti a lanciare le triple, anche sul parquet di casa. Più l’azione si faceva ragionata, più le maglie della difesa Raptors si stringevano.

Ci siano finalmente convinti di quanto sia competitiva Toronto? La rivincita contro i Cavs, che prenderà il via da stanotte, ci aiuterà a decidere.

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