Dopo tanti dubbi maturati sulla scorta di una Regular Season men che impeccabile (e a tratti, sinceramente preoccupante), i Cleveland Cavaliers di LeBron James si sono scrollati la polvere di dosso, e assieme con essa, anche Indiana, capitanata da Paul George, capace di restare in partita per tutte e quattro le gare della serie, senza vincerne una.

È finita in uno sweep, un cappotto (il decimo della carriera di James), ma attenzione a non lasciarsi trarre in inganno dal risultato, che dice poco, e anzi, forse inganna, rispetto a quel che s’è visto sul campo della Quicken Loans Arena e della Bankers Life Fieldhouse.

Abbiamo assistito a quattro gare decise da appena 16 punti complessivi (è stato lo sweep col più ridotto scarto nel punteggio di sempre), con un thriller in Gara 1, deciso all’ultimo tiro dopo che i Cavs si erano trovati a condurre di 12 lunghezze, confermando la cronica discontinuità.

In Gara 3, sono stati i Pacers a dilapidare il vantaggio; avanti di 25, in casa, sembrava l’occasione giusta per riaprire la serie, ma i 41 punti, 13 rimbalzi e 12 assist di LeBron James (che ha anche scalzato Kobe Bryant dal podio dei realizzatori di Post Season) hanno invertito l’inerzia della partita, mentre Myles Turner e compagni si perdevano in un bicchier d’acqua, chiedendo nervosamente un aiuto alle zebre.

In questa carambola di parziali e contro-parziali, in Gara 4 è stata Cleveland ad andare avanti di 13 lunghezze, per poi ritrovarsi ad inseguire con 1:31 sul cronometro dell’ultimo e decisivo quarto, venendo poi salvata dalla tripla di LBJ, chiamato agli eroismi già nel corso di un primo turno oggettivamente facile.

Quali conclusioni possiamo trarre da questi quattro incontri?

QUI CLEVELAND

Comunque la vogliate girare, i Cavaliers hanno vinto “sweeppando” i malcapitati Pacers, portando a casa il risultato e garantendosi qualche giorno extra di riposo in attesa di scoprire il nome del loro prossimo sfidante (al momento di scrivere, Toronto conduce 3-2 su Milwaukee). Cleveland ha dimostrato la consueta inarrestabilità offensiva, quasi inevitabile, quando si schierano cestisti del calibro di Kyrie Irving, Kevin Love, LBJ, e una pletora di veterani dal tiro implacabile.

Allo stesso tempo però, la loro rivedibile difesa non consente a coach Lue di gestire con tranquillità nessun tipo di vantaggio, e la grandissima serie di James, che chiude con 32.8 punti di media, 9 assist, 9.8 rimbalzi, 3 rubate, 2 stoppate e il 54% dal campo (con un impressionante 45% da dietro l’arco), fa il paio con i suoi 43.8 minuti di media; non proprio l’ideale, considerando il cammino ancora da percorrere e le 32 primavere del figlio di Gloria James.

Permangono insomma i dubbi che ci portiamo dietro dalla stagione regolare, quando i Cavaliers si sono dimostrati capaci di ogni cosa, nel bene (115.9 punti su 100 possessi) e nel male: i cambi difensivi, le rotazioni dal lato debole, e la debolezza a rimbalzo di chiunque non si chiami Thompson (con il suo 22.5% di rimbalzi offensivi catturati, è il migliore di tutti durante i Playoffs) o James, attestata dal 71.7% di rimbalzi difensivi catturati, dopo essere stati 22esimi in Regular Season.

Lo strepitoso Kyrie Irving (35.3% di UsgRt, con 25.3 punti di media ma con un insolitamente basso 41.9% dal campo e nessun assist in Gara 4) e King James hanno fatto la differenza in modo netto nel confronto coi Pacers, ma la musica dovrà necessariamente cambiare già dal prossimo turno, quando rifugiarsi nelle proprie certezze offensive potrebbe rivelarsi una strategia esiziale per le ambizioni della franchigia dell’Ohio.

Rispetto all’anno scorso, quando subentrò in corsa, beneficiando dell’impianto ereditato dal vituperato David Blatt, coach Tyronn Lue quest’anno ha dovuto costruire rotazioni e meccanismi da zero, e come se non bastasse, l’andirivieni continuo in spogliatoio ha complicato ulteriormente il lavoro del suo staff tecnico, che parte dal rebus difensivo della coesistenza di due difensori rivedibili come Love e Irving:

Il risultato è una formazione indecifrabile, capace di fare grandi cose con nonchalance da Pre-Season, e di disfarle con altrettanta irrisoria facilità. Cleveland è una macchina offensivamente inarrestabile, priva dei difetti di due anni fa, quando LeBron si trovò a cantare e portare la croce (complici gli infortuni a Irving e Love), ma è anche una formazione senza più tigna difensiva, com’è inevitabile quando si perde un Della Vedova e si aggiungono i Deron Williams e i Channing Frye.

Non manca solo l’intensità difensiva (perché come recita il brocardo, è davvero tutta questione d’energia) quanto le idee e la strategia di fondo; nel corso di una partita e di una serie possono capitare incomprensioni e rotazioni sbagliate, ma l’impressione, guardando giocare Cleveland, è che ci sia un’approssimazione nella preparazione che si riverbera sull’esecuzione di chi scende in campo.

Forse Cleveland ha solo bisogno di una sfida vera per salire di colpi, come ha detto un Deron Williams in netta ascesa; quel che è certo, è che contro i Warriors non si potrà difendere a gettone, e a volte, a forza di accedere e spegnere, si finisce col fulminare la lampadina!

QUI INDIANA

Una stagione regolare da 42 vittorie e 40 sconfitte non era certamente il viatico per una Post Season di grandi successi, e i tifosi che dopo Gara 4 rincasavano lungo Pennsylvania Avenue lo sapevano benissimo.

Al termine di una stagione difficile, Indiana arrivava ai Playoffs con il vento in poppa, forte di cinque vittorie consecutive, mentre le difficoltà dei Cavs avevano illuso chi si augurava, se non altro, di assistere a una serie lunga e combattuta, che invece, è stata solo combattuta.

Al netto del diverso calibro delle due franchigie, resta l’amaro in bocca per aver perso non una ma ben quattro occasioni (due delle quali tra le mura domestiche, dove i Pacers hanno vinto 29 partite perdendone 12) per evitare il cappotto contro i campioni NBA in carica.

L’Indiana di Nate McMillan è un gruppo talentuoso, come attesta il quinto rating offensivo nei Playoffs, ma discontinuo e inaffidabile (palle perse, pause mentali e troppi tiri liberi sbagliati, oltre al peggior rating difensivo tra le magnifiche 16), con un Myles Turner troppo timoroso dei contatti per fare davvero la differenza in verniciato, e con un Paul George che, con tutto il suo talento, non è una misura certa: può scendere in campo e dominare, oppure attorcigliarsi sui suoi errori (nell’ultimo episodio della serie, 5-21 per 15 punti).

PG13 chiude la sua Post Season con 28 punti di media, conditi da 8.8 rimbalzi e ben 7.3 assist (ma con appena il 38.6% dal campo), cifre incredibili, adeguate al suo status di stella di prima grandezza nel ricco firmamento NBA; sarà in scadenza nel 2018, ma il suo destino è in bilico, e dipenderà dalla sua volontà di ri-firmare con una franchigia che sembra lontana dall’eccellenza cui aspira.

Gli Indiana Pacers sono una squadra con un buon nucleo, destinata a crescere attorno ai miglioramenti di Turner, di Glenn Robinson III (sia sempre lode al legislatore italiano, che impedisce al padre di dare il suo stesso nome al figlio!), e al contributo di giocatori sottovalutati, come Thad Young e l’home-boy Jeff Teague, che dopo un inizio stentato in quel di Indianapolis, si è rimesso in carreggiata e quest’estate sarà free-agent.

Il giocatore che più di tutti ha contribuito a plasmare l’identità d’Indiana è pero Lance Stephenson, newyorkese prediletto da Larry Joe Bird, che l’ha rivoluto in squadra, e ha vinto la sua scommessa. Stephenson ha dei limiti innegabili (c’è chi non si stanca mai di sottolinearli, e vede solo quelli) dal punto di vista della tenuta mentale e del tiro (Cleveland l’ha spesso sfidato), ma, si parla tanto del suo stile di gioco fuori controllo, e nessuno fa notare come abbia perso appena 4 palloni in 107 minuti.

Born Ready ha degli altrettanto innegabili pregi: porta energia e non fa un passo indietro. Se sbaglia (e sbaglia…) lo fa per eccesso, mai per difetto. In estate, recupererà le sue cose (vive in un hotel, e i suoi effetti personali sono in un deposito a New Orleans) e rimetterà radici nella città e nella franchigia cui è legato per un altro anno di contratto (e i Pacers possono estendere per un’altra stagione).

Se i vari Draymond Green e JaVale McGee si sono sentiti inclusi e capiti in quel di Oakland, lo stesso è successo a Stephenson con Bird, diametralmente opposto per estrazione, età, approccio e stile, che pure, stravede per lui e riesce a estrarre il meglio dalla guardia di Coney Island (che, a sua volta, ha il poco invidiabile dono di tirar fuori il meglio da LBJ!).

È ancora troppo presto per scommettere sulle mosse di Larry Bird, ma la prossima sarà chiaramente una stagione decisiva per il futuro dei Pacers: McMillan (che ha perso Gara 2 anche per aver tenuto Stephenson su Love nel terzo quarto, quando l’ex UCLA ha segnato 10 punti in due minuti) resterà in sella, o si cercherà il terzo allenatore in altrettante stagioni?

Bird e il suo GM Kevin Pritchard insisteranno su questo nucleo, puntellandolo (Indiana ha la 18 pesca nel prossimo, ottimo draft, e avrà una ventina di milioni da spendere, inclusi i soldi che serviranno per ri-firmare Teague) oppure azzarderanno un cambiamento più radicale?

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