In questi sei anni, Jeanie Buss ha fatto spesso buon viso a cattivo gioco, adeguandosi alla scelta del patriarca della famiglia Buss, il compianto dottor Jerry, che aveva lasciato in eredità al figlio Jim la responsabilità delle decisioni legate alla squadra, e a Jeanie la gestione economica dei suoi adorati Los Angeles Lakers, dei quali è stato proprietario dal 1979 al 18 febbraio 2013, data della sua dipartita.

Jeanie è stata a lungo in silenzio, tollerando decisioni e metodi non condivisi e forse non condivisibili
(la chiamata notturna a Phil Jackson per avvisarlo che i suoi servigi non sarebbero stati necessari, il licenziamento di tutti i dipendenti sgraditi durante la serrata del 2011), accettando anche di ricevere la sua parte di critiche (“troppo rinunciataria”, “non capisce niente di basket”).

Con il trascorrere delle stagioni però, era diventata evidente l’assenza di sostanza e progettualità dietro agli annunci e ai proclami di Jim, mentre i Lakers si inabissavano sempre più in una mediocrità inedita per il secondo club più vincente della NBA, capace di vincere ben 10 titoli durante la gestione di Buss senior, schierando stelle del calibro di Shaquille O’Neal, Kobe Bryant, Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar.

A volte descritta (a torto, come vedremo in seguito) come un’impulsiva sconclusionata, la cinquantacinquenne Jeanie è uscita dall’impasse elaborando un piano assai logico, approfittando dell’approssimarsi della scadenza che Jim Buss si era incautamente auto-imposto. Com’è ben noto infatti, il figlio prediletto di Jerry aveva promesso le dimissioni se i Lakers non fossero tornati da corsa entro il 2017 (o al massimo entro il 2018), un risultato che, stante la situazione attuale (il record recita un impietoso 19-39), è largamente fuori portata.

Jeanie Buss ha così consultato Magic Johnson, e, ottenutane la disponibilità ad impegnarsi nell’attività della franchigia, lo ha nominato suo consigliere. L’ex numero 32 dei giallo-viola ha immediatamente iniziato un ciclo di colloqui con tutte le figure cardine del club, dal GM, Mitch Kupchak, fino all’allenatore Luke Walton.

Era opinione comune che la compagine dirigente di El Segundo sarebbe rimasta al suo posto fino a giugno, ma la svolta era dietro l’angolo: concluso il giro d’interviste utile ad acclimatare Magic, Jeanie lo ha nominato Presidente delle Operazioni Basketball, rimuovendo contestualmente il fratello Jim, il GM, Mitch Kupchak, e, un po’ a sorpresa, anche lo storico portavoce, John Black, sostituito da Tim Harris.

Lungi dall’essere una pura operazione di marketing, la nomina di Magic a consigliere era il preludio necessario per reintrodurlo nella franchigia (fatte le dovute proporzioni, il Presidente Giorgio Napolitano fece la stessa cosa quando nominò Mario Monti Senatore a vita, per poi offrirgli l’incarico di formare un nuovo Governo!), e, a distanza di poche ore, è arrivato anche il nome del nuovo General Manager della franchigia angelena: Rob Pelinka, stimato e potentissimo agente, che annovera nella propria scuderia Kobe Bryant, Andre Iguodala, Dante Exum, Avery Bradley e James Harden, e che ora abbandonerà la sua attività per dedicarsi ai Los Angeles Lakers. L’opzione numero uno dei giallo-viola era, per la verità, Bob Myers (anche lui con un passato da agente), GM dei Golden State Warriors, ma la recente estensione contrattuale firmata coi Dubs ha reso impossibile l’operazione.

Il quarantasettenne Pelinka ha un background cestistico di ottimo livello, non solo per i trascorsi come agenteil che non guasta, perché significa saper tenere i rapporti con i giocatori, con le dirigenze avversarie, e districarsi abilmente tra contratti e opzioni– .

Rob, nativo di Santa Monica (ma cresciuto nell’elegante sobborgo di Lake Forest, vicino a Chicago, dov’è ambientato lo splendito film “Gente Comune” di Robert Redford), si distinse come giocatore di High School, per poi divenire riserva nel celeberrimo team dei “Fab Five” di Michigan University (quelli dei pantaloncini sotto al ginocchio e delle due finali NCAA di Jalen Rose, Chris Webber e Juwan Howard) e laurearsi in giurisprudenza, iniziando una brillante carriera che l’ha portato a lavorare con l’agente Arn Tellem (proprio come Bob Myers), grazie al quale ha conosciuto Kobe, suo main sponsor ad El Segundo.

Oggi ho intrapreso una serie di azioni che, sono convinta, restituiranno i Lakers al livello preteso dal dottor Jerry Buss e che in nostri fans giustamente si aspettano” ha detto Jeanie, riservando un’implicita stoccata all’incapacità del fratello Jim di tener fede alle aspettative del genitore, aggiungendo che “le mie decisioni odierne mirano ad un obiettivo: ora tutte le persone che lavorano per i Lakers remeranno nella stessa direzione, quella stabilita da me e da Earvin“.

Dal canto suo, Magic ha dichiarato: “Sono parte della Laker Nation dal 1979, e ho passione per quest’organizzazione. Farò tutto quello che posso per costruire una cultura vincente in campo e fuori; abbiamo un grande allenatore in Luke Walton e dei buoni giovani giocatori. Lavoreremo senza sosta per riportare i Los Angeles Lakers al titolo NBA“.

Nell’NBA odierna non basta essere “uomini di basket” per ottenere successo a livello dirigenziale; Doc Rivers ai Clippers, Vlade Divac ai Kings, e Stan Van Gundy ai Pistons hanno tutti faticato nel gestire il nuovo CBA, che ha cambiato le carte in tavola rispetto al passato e, a dispetto dell’innalzamento del salary cap, impone maggior attenzione alle risorse economiche. Oggi è più difficile muovere i giocatori (il contratto collettivo è figlio delle esigenze dei proprietari dei piccoli mercati, che volevano scoraggiare le fughe via free-agency) e questo ha aumentato il valore delle scelte al draft, utili per scovare nuova linfa a basso costo.

Pelinka conosce molto bene l’attuale struttura contrattuale dell’NBA, e si occuperà di allestire trade, coordinare lo scouting (e quello dei Lakers, nonostante i terremoti societari, rimane eccellente) e il draft. Dovrà consultarsi con Magic, che agirà da parafulmine e uomo-immagine, lasciando un ruolo fattivo al suo nuovo GM, che non sarà un mero “esecutore materiale” (sulla scorta di quanto avveniva con il binomio Buss-Kupchak).

Fatto assai incoraggiante, Earvin Johnson ha parlato apertamente di tutto quel che dovrà imparare, dalla gestione degli analytics alla struttura del salary cap, ammettendo con umiltà e pragmatismo che, rispetto ai suoi tempi, tante cose sono cambiate e che i Los Angeles Lakers non avranno lo stesso successo dei tempi andati; non senza una cultura vincente e una strategia, la grande assente di questi ultimi anni, trascorsi in attesa di una grande free-agency eternamente rimandata a data da destinarsi.

Nel frattempo, sfumato l’arrivo di DeMarcus Cousins (non abbiamo la scatola nera della trattativa, ma Vlade Divac voleva Brandon Ingram), è arrivata la prima mossa di mercato della nuova dirigenza: Lou Williams, candidato Sesto Uomo dell’Anno e miglior realizzatore della squadra, è stato scambiato con gli Houston Rockets , in cambio di una prima scelta futura e dell’ala Corey Brewer, sotto contratto fino all’estate 2018 (a 7.5 milioni a stagione). Brewer è un veterano dall’atteggiamento positivo, non bollito fisicamente, e soprattutto, propenso a sporcarsi le mani nella propria metà campo, specialità nella quale alcuni giovani Lakers non sembrano particolarmente versati.

Si tratta di un buon affare per tutti: Daryl Morey ottiene un giocatore pronto e adattissimo al gioco dei Rockets dantoniani, in grado di dividere il campo sia con Harden che con Pat Beverley, mentre i Lakers ottengono una prima scelta (che non sarà altissima, ma è comunque una chiamata al primo giro, dove L.A. ha dimostrato di scegliere bene) e un veterano un po’ ondivago, che porta qualità utili ad una formazione tacciata di leggerezza e scarsa attenzione, specialmente in difesa.

Potremo valutare pienamente questa trade solo tra qualche anno, quando la scelta ottenuta da L.A. si sarà convertita in un giocatore fatto e finito; quel che possiamo dire sin d’ora, è che si tratta di un movimento concettualmente opposto rispetto all’eventuale acquisizione di Cousins, che sarebbe stata improntata ad un improbabile e velleitario miglioramento immediato del record.

L’addio di Williams guarda doppiamente al futuro, sia perchè Los Angeles ha ottenuto una scelta in un draft molto appetitoso, sia perché senza l’ex Sixer ci sarà più spazio per Jordan Clarkson, destinato ad essere attentamente scrutinato da qui al termine della Regular Season, come tanti altri giovani, ai quali ora si chiede di iniziare a tradurre il potenziale in miglioramenti empiricamente verificabili sul parquet.

Tanti anni di delusioni e false partenze hanno creato un clima di diffidenza attorno alle “novità” di marca giallo-viola, e va detto che i Lakers potrebbero inizialmente pagare l’inesperienza a livello manageriale sia di Johnson che di Pelinka, che però non sono due sprovveduti senz’arte ne parte, quanto piuttosto uomini di sport le cui rispettive qualità si completano piuttosto bene.

Kupchak e Buss hanno lasciato un’eredità fatta di giovani interessanti (D’Angelo Russell, il già menzionato Ingram, Julius Randle, e poi Tarick Black, Larry Nance jr, Clarkson, Ivica Zubac) accompagnati dalla cronica incapacità nella gestione della free agency: lo stile di Kupchak è stato descritto come gelido da molti giocatori interessati a firmare per L.A. e approdati ad altri lidi, da Kyle Lowry, a Isaiah Thomas, senza dimenticare Kent Bazemore. L’estate scorsa Mitch e Jim provarono ad invertire la rotta, regalando un quadriennale a cifre principesche sia a Luol Deng che a Timofey Mozgov (scivolati nel frattempo fuori dal quintetto di coach Walton).

Pelinka e Johnson si trovano dinnanzi ad una sfida affascinante, ricca di opportunità e insidie; solo il tempo ci dirà se sono loro gli uomini giusti per attrezzare i sedici volte campioni NBA alle sfide dell’NBA del terzo millennio.

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