Ha la faccia da ragazzino, dimostra qualche anno in meno dei quaranta scritti sulla carta d’identità; un po’ come Gordon Hayward, suo pupillo ai tempi di Butler, che amerebbe poter allenare di nuovo a Boston. Raramente alza la voce, ancor più di rado parla di quel che accade fuori dal campo, non ha i modi appariscenti di certi coach abituati alle luci della ribalta. Brad Stevens si è guadagnato la reputazione di cui gode perché con la pallacanestro va forte.

Talmente forte che nei suoi quattro anni sulla panchina dei Celtics la squadra si è migliorata costantemente, nel record di vittorie e nelle principali categorie statistiche, fino a candidarsi come diretta concorrente dei Cavs. La chiamata ad allenare la Eastern Conference nell’All Star Game è una naturale conseguenza; un palcoscenico un po’ troppo luminoso per i gusti di Stevens, che nonostante la giovane età ama un basket con pochi fronzoli, ma l’onore di essere stato scelto davanti ai colleghi stuzzicherà senza dubbio il suo spirito agonistico.

La transizione dal college ai professionisti è andata liscia come l’olio per il golden boy che condusse i Bulldogs a un tiro dal trofeo nazionale, quello da metà campo di Hayward, per l’appunto. Forse nemmeno Danny Ainge sperava in un impatto di questo livello quando scelse Stevens come pietra angolare dei nuovi Celtics. Costruire un programma ispirato al basket collegiale, questa la sua idea.

Stevens non ama prendersi meriti, sostiene che i suoi successi a Butler derivino dal buon lavoro ereditato da chi sedeva sulla panchina prima di lui, ma sul passaggio da cinderella a contender la sua firma è ben leggibile. Di sicuro Ainge ha aiutato il suo coach fornendogli della buona argilla da modellare, giocatori giovani e sufficientemente umili da non forzare la mano a un allenatore poco più vecchio di loro. Nessuna pretesa di sfondare da subito, il primo anno il record è perdente e non di poco, ma già al secondo tentativo arrivano i playoff. Due eliminazioni al primo turno dopo, è già tempo di cambiare pagina.

A ottobre Brad Stevens si trova a fare i conti con un roster aggiornato e più competitivo; c’è una superstar in the making come Isaiah Thomas, che richiede attenzioni speciali, e un veterano come Al Horford che ha accettato le lusinghe di Ainge ma in cambio vuole togliersi qualche soddisfazione. A inizio stagione il motore singhiozza ma poi Stevens mette a punto gli ingranaggi; dietro alle prestazioni spettacolari di Thomas c’è la fiducia che il coach da Zionsville sa infondere nei propri uomini, i Celtics sono settimi nella lega per Offensive Rating e terzi per percentuale da tre punti, fondamentale a cui Stevens si è votato alla ricerca della migliore espressione di basket moderno.

La difesa è in crisi aperta, non è un mistero che Ainge vada cercando un rim protector, ma i risultati non ne risentono. Il record è vicino al 70% di vittorie, nove nelle ultime dieci partite, il sorpasso sui Toronto Raptors è completato. Col pensiero ai playoff preoccupano le prestazioni contro le prime della classe – solo tre W contro Rockets, Jazz e Raptors negli scontri al vertice -, ma per il momento Stevens si presterĂ  ai riflettori dell’All Star Game, almeno per una sera.

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