Viviamo con una data di scadenza appiccicata sulla schiena. Se esistesse il destino, e un occhio divino ci monitorasse dall’alto, potrebbe dirci esattamente quanti minuti ci restano – o, magari, sconsigliarci di attraversare la strada quel giorno.

Il trucco sta nel fare finta di niente, nel crederci immortali. A forza di provarci, siamo diventati piuttosto bravi. Finché non arriva un uomo in camice bianco a svelare il doppio fondo nel cilindro del mago. Un anno, due anni, dice. Da tre a sei mesi.

Di fronte a un futuro più breve di quello che spetta a una scatoletta di tonno, c’è chi si rassegna e accetta la malattia. Un atteggiamento lodevole, ma l’occidente è un macho che non vuole saperne di pensiero debole.

C’è chi ha passato cinquant’anni a distinguersi dal gregge – sì, anche ribellandosi al manto di lana bianca -, a costruirsi un’immagine pubblica che parla a tutti nella stessa lingua. Se ti chiami Craig Sager, quando il cancro ti incurva le spalle stringi i denti e sopporti con un sorriso la responsabilità che ti sei scelto intraprendendo un lavoro che è in primis una passione.

“Mai arrendersi”, il messaggio non può che essere questo. Lo stesso di Jim Valvano, storico coach a cui è intitolato il premio che proprio Sager si è visto recapitare lo scorso luglio. Si è scritto quelle parole sullo smartphone e le consultava ogni giorno di degenza in ospedale, per farle sue.

Sul palco degli ESPY Awards ne aggiunse altre. “Time is something that cannot be bought; it cannot be wagered with God, and it is not in endless supply. Time is simply how you live your life”. Nel frattempo, ci torneremo più avanti, indossava il suo abito più bello. Signore e signori, questo è Craig Sager.

Ernie Johnson è un suo collega alla TNT dal 1989; lui è sopravvissuto al cancro per raccontarla, dieci anni fa. Andava a trovare Craig in ospedale con un nodo alla gola e il cuore in mano, aveva il preciso intento di tirarlo su di morale.

“Com’è che invece è stato lui a farmi ridere, a riempirmi d’ispirazione?”, si chiede all’uscita. Esistono foto di Sager alle prese con la malattia, è facile trovarle, ma non ve le proponiamo. Non rendono l’idea dell’energia che continuava a trasparire nonostante la testa calva e il viso scavato.

Non sono abbastanza colorate. Erano i tempi tra la prima e la seconda diagnosi, quella più brutale. Craig si sottoponeva a una seduta di chemioterapia, poi saltava sull’aereo, indossava parrucchino e completo sgargiante ed eccolo a bordocampo.

Forse il suo sorriso è un po’ stanco, la voce più debole del solito, ma lavora con la precisione di sempre. I ragazzini chiedono l’autografo anche a lui, come fosse una stella della loro squadra preferita.

L’idea di affrancarsi dai comuni dress code gli balenò in mente per la prima volta ai tempi dell’high school, quando per la foto annuale scelse un blazer blu elettrico, ispirato alla band dei Monkees.

Da quel giorno ha collezionato abiti di ogni colore e trama, coi motivi e gli abbinamenti più disparati, e preferisce indossarli non più di due volte.

Soltanto il nero non figura nel suo guardaroba. Troppo triste, anonimo, uno spreco quando hai un’intera tavolozza a disposizione.

Non sapremo mai se diceva sul serio o raccontava una balla, ma gli piaceva ricordare che una volta un reporter perquisì casa sua per elencarli tutti e si stufò al numero 137, con ancora un paio di armadi da controllare. Se parliamo di cravatte e accessori, poi, il numero s’impenna.

“Gli sport sono divertimento, e io faccio la mia parte nel modo di vestire”, diceva. L’aveva capito al college quando si riciclò come mascotte della squadra, Willie the Wildcat, una volta abbandonati i sogni da atleta a causa di un infortunio.

I suoi datori di lavoro non sempre condividevano la sua visione, come quella volta che David Stern lo guardava storto nel suo blazer psichedelico all’All Star Game 2002. Alla moglie del commissioner però quel colore piaceva, e Craig si risparmiò la ramanzina.

Da giocatori e coach, invece, se ne è beccate tante. Celebri le scenette con Gregg Popovich, tanto ben riuscite da sembrare preparate, e nessuno come Sager incassava le risposte monosillabiche del Pop arrabbiato.

Pure Garnett lo bersagliava con poco gentili inviti a cambiarsi d’abito, lui che per manie ossessive compulsive non sopportava gli accostamenti audaci. Era tutto un gioco, caramelle regalate per ricordare allo spettatore che lo sport è divertimento.

Dietro c’era tanto rispetto. Lo testimonia Jalen Rose, prima giocatore e oggi analista, a cui peraltro non dispiace mostrare uno stile originale in giacca e cravatta.

Tutti ammiravano Craig per i suoi modi onesti e garbati, dice, ma soprattutto perché amava il mestiere e se l’era guadagnato con la gavetta. Tra anni ’70 e ’80, prima in Florida e poi alla CNN, copriva eventi sportivi d’ogni genere con un piglio all’antica, da giornalismo all’assalto.

Era rimasto uno dei pochi ad assillare di telefonate i diretti interessati per assicurarsi di possedere ogni informazione necessaria. Non si risparmiava in domande scomode e inseguiva i giocatori fin negli spogliatoi.

Gli scrittori più dotati venderebbero l’anima pur di inventare una di quelle trame che, certe volte, si diverte a intrecciare la vita.

Nel 1974 il giovane Craig Sager che compare per la prima volta su tv e giornali veste il bianco della purezza, dell’esordio. L’emittente non gli permette di sgarrare, ma lui non pecca d’entusiasmo.

Si è spostato in Georgia a sue spese per vedere Hank Aaron che impatta il fuoricampo numero 715. Nel pandemonio che si scatena, lui elude la security e si unisce alla folla che invade il diamante per strappare una parola all’eroe.

Eccolo in prima linea, col microfono in mano e la zazzera à la Beatles, mentre i cameraman gli urlano di spostarsi: è in mezzo all’inquadratura.

Craig biancovestito conquista il campo alla garibaldina.  E’ finito nel mezzo dei pixel sgranati delle prime tv a colori, ma lui ha occhi solo per la sua preda

Per il giorno più importante tra gli ultimi della sua vita, invece, quello del premio intitolato a Jim Valvano, ha scelto il nero. Quello luttuoso, che odiava, di cui non capiva il senso. Ora ne comprende le sfumature.

Già qualche tempo prima l’aveva abbinato a un elegante blu, alla sua ultima trasmissione dalla Quicken Loans Arena, gara 6 tra Cavs e Warriors. Il suo primo live coverage delle Finals.

Fa tristezza vederlo così stanco quando chiede a James di raccontare il miracolo della rimonta, a fine partita. LeBron lo abbraccia, se lo coccola, lo ringrazia di essere lì. Seduti sul divano di casa, alle sei di mattina, vorremmo pronunciare le stesse parole.

Quei fiori blu parlano di una bellezza decadente. Sul palco degli ESPY Awards c’è il nero lucido della cravatta, quello sobrio dei pantaloni, lo sfondo intarsiato della giacca. In mezzo, un’esplosione di colori e simboli.

Il giallo della camicia che ammicca a rose e teste di leopardo. Il completo di Craig Sager quella sera parla di vita, di morte e di tutto ciò che accade mentre siamo impegnati a guardare altro.

“Whatever I might have imagined a terminal diagnosis would do to my spirit, it summoned quite the opposite: the greatest appreciation for life itself”

Ci piace credere che siano state le sue gambe da corridore di fondo, non meno di 10 miglia intorno l’albergo ad ogni trasferta, ad allungargli la vita di quei pochi mesi, quel tanto che bastava perché trasformasse la sua battaglia in un messaggio internazionale di coraggio.

Forse, più di ogni altra cosa, a rallentare il corso della leucemia è stata la gioia che provava e trasmetteva in quei trenta secondi di primo piano, la passione per un mestiere che si sentiva fortunato a poter svolgere, l’amore per un gioco che unisce le persone.

Se il giorno della tua morte l’intera galassia che gravita intorno all’NBA si ferma, commossa, per ricordarti, vuol dire che hai lasciato una buona eredità a questo mondo. SagerStrong, la sua fondazione, sta già aiutando centinaia di malati.

La sofferenza, per definizione, è lunga e sbiadita. Grigia, con macchie di nero cupo negli acuti di dolore. Viene da pensare che Craig Sager non meritasse di passare lo stillicidio di una malattia invincibile prima di andarsene a 65 anni, che si fosse guadagnato una fine più espressiva. Più colorata.

Ma al contrario dello sport, la vita è ingiusta. Bara, inganna, non segue le regole. Per questo lui commentava il basket con l’aria di un bambino che ha tra le mani il suo gioco preferito. Ci ricordava che lì, dentro quel quadrilatero dipinto sul parquet, c’era il nostro posto sicuro.

Ogni cosa che si sarebbe svolta lì dentro avrebbe avuto un senso, un inizio, una fine. Anche un vincitore e un vinto, certo, ma in osservanza di regole e abilità.

Craig Sager era felicissimo di potercelo raccontare; per trenta secondi alla volta ci sentivamo felici anche noi.

2 thoughts on “Craig Sager: Living Colours

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