Quando il grande Red Auerbach tirava fuori il sigaro e cominciava a fumare, significava solo una cosa: i suoi Celtics avevano già vinto, la partita era ai titoli di coda.

Per rimanere sul tema, nell’ippica si dice che un cavallo vince con la pipa in bocca quando ha superato tutti gli altri e si permette di tagliare il traguardo con la massima calma.

Guardate i Cleveland Cavaliers di questo inizio stagione: sembra che stiano fumando sigari, pipe e pure dell’erba da rollare a giudicare dal senso di sicurezza che trasmettono, dai nervi distesi che derivano dalla fiducia nei propri mezzi. Giocano da campioni in carica, niente di più, niente di meno.

Alla fine della parata estiva, quella affollata da un fiume di persone, si aprivano due strade. Per una città grigia, conosciuta come Mistake on the Lake, sarebbe stato facile accontentarsi, accettare di buon grado il primo titolo assoluto in NBA e il primo successo cittadino dai tempi d’oro dei Browns. Abbassare la cresta, tornare nell’anonimato.

Invece i Cavs si sono appoggiati ai loro leader, coach Lue e LeBron James, e hanno scelto la strada più difficile. La high road di cui parlava, profetico, lo stesso James.

La clamorosa rimonta nelle scorse Finals non l’hanno interpretata come un miracolo sportivo; è stata la legittimazione di un percorso vincente, un premio ai loro meriti.

Così LeBron è tornato in palestra per primo, Love e Irving hanno calzato le scarpe da lavoro, JR Smith si è rimesso la maglietta (non prima di aver staccato il contratto plurimilionario che esigeva per il disturbo).

I Cavs scendono in campo ogni sera in qualità di squadra da battere, poco si curano di quel che è accaduto in off season dall’altro lato del Missisippi, in particolare dalle parti della Bay Area.

Se i Golden State Warriors sono eccitati dalla novità Durant e assomigliano a una ragazzina delle superiori che non vede l’ora di andare al prom col cavaliere dei suoi sogni – anche se Klay Thompson, a volte, ha la faccia del compagno friendzonato -, i Cavs ricordano più uno studente all’ultimo anno di college, quello che salta le lezioni e passa le mattinate a sorseggiare beveroni al gusto caffè; tanto la materia la conosce a menadito, aspetta solo la consegna del tocco per far felici i parenti.

“Il concetto di skip pass elevato a arte”. Olio su parquet, Quicken Loans Arena,1280x720

James, L. R. – “Il concetto di skip pass elevato a arte”. Olio su parquet, Quicken Loans Arena,1280×720

Guardate Kevin Love e Kyrie Irving che si scambiano cortesie. Una sera ne metto trenta io, quella dopo ne metti trenta tu. Se le difese avversarie sono d’accordo, facciamo anche insieme.

Da quando ha visto the shot sorvolare le dita protese di Steph Curry e depositarsi in fondo alla retina della Oracle Arena, Uncle Drew gioca con la convinzione che ogni suo tiro descriverà la stessa, inesorabile parabola. Ha abbracciato il ruolo di nemico pubblico numero uno, quello a cui consegnare la palla quando c’è da mettere punti a referto.

La serendipità di Kevin Love è una storia altrettanto zuccherosa, che non sfigurerebbe in un film con Hugh Grant. Mentre cercava una cosa, nello specifico un modo per impedire a Steph Curry di chiudere gara 7 con una tripla delle sue, ne ha trovata un’altra; l’identità che aveva smarrito al suo arrivo sulle sponde del lago Erie.

L’anello di campione NBA al suo dito ha sortito l’effetto opposto di quello di Sauron, l’ha reso di nuovo visibile. Viaggia in scioltezza oltre quota 20 + 10, negli highlights ora lo troviamo in campo a segnare quando conta, non in panchina a dare il cinque, per la gioia di chi al fantabasket lo ha scelto al ribasso. Qualche sera fa, se non ve ne foste accorti, ha realizzato 34 punti nel solo primo quarto.

I Cavs di quest’anno spingono ancora più forte sul tema dello spacing, sul tiro da tre punti che rappresenta il 37% della loro produzione offensiva. Soltanto i Rockets della Barba & Baffi Connection abusano di più del fondamentale. Per due partite consecutive hanno superato le 20 triple, un record, e mandano a bersaglio 10.5 conclusioni in catch and shoot di media con una particolare predilezione per le corner threes – solo i Celtics fanno meglio.

Non so in Lettonia, ma qui a The Land il backdoor lo eseguiamo così

L’efficienza dell’attacco va di pari passo e schizza alle stelle, sono terzi nella lega per offensive rating. Inutile fare corsa con le cifre da fantascienza dei Warriors, pompate da un attacco degno di un All Star Game.

I Cavs fanno capolino nel gruppetto degli immediati inseguitori in tutte le categorie positive, spesso in compagnia di Celtics, Rockets, Raptors, Spurs, Clippers. Le squadre che giocano la pallacanestro migliore. La riprova più affidabile? I punti generati da assist sono 59.3, il terzo miglior dato in assoluto.

Tutti contribuiscono col loro mattone. In questi primi mesi di minutaggio elastico persino gli imberbi Kay Felder, DeAndre Liggins e Jordan McRae vedono consistenti porzioni di campo, mentre l’apporto di Richard Jefferson, Mike Dunleavy e Channing Frye è più sostanzioso: quest’ultimo tira da 3 col 48%.

Come scriveva Tolkien, "in tre si è in compagnia"

Come scriveva Tolkien, “in tre si è in compagnia”

E poi, che lo diciamo a fare, c’è LeBron James. Si parla tanto, e a ragione, degli exploit di Westbrook ma non è che il prescelto vada molto lontano dalla tripla doppia di media, specie con quei 9.7 assist a partita con cui premia l’intraprendenza dei compagni.

Gioca comunque 36 minuti, immaginiamo che Lue lo farà riposare quando ci si avvicinerà a marzo, ma il ritmo è compassato. Mai come quest’anno si ha l’impressione che James conduca il gioco a velocità di crociera, per prevenire stanchezza e infortuni – il dato dello usage è ai minimi storici, 28%.

Twitta di rado e parla ancora meno, per parafrasare Celentano, la sua stagione 2017 è tutt’altro che un victory lap per mostrare le spoglie di guerra al pubblico di trenta arene diverse. It’s all about business. D’altra parte ha un impegno nei confronti del proprietario Dan Gilbert; insieme all’agente Rich Paul, in modalità il gatto e la volpe, l’ha convinto a sprofondare fino alle ginocchia nella luxury tax pur di mantenere intatto il core della squadra.

He's Uncle Drew, and he's better than you

He’s Uncle Drew, and he’s better than you

In estate James si è concesso il tempo per riflettere sullo status quo, ha assaporato il dolce e l’amaro dell’aver superato i trent’anni. Ha considerato il ritiro: la prossima generazione a passare la torcia dopo quella di Kobe, Duncan e Garnett sarà la sua, ha ricordato. Saranno i figli a decidere quando dire basta, ma gli piacerebbe restare in giro il più a lungo possibile.

Se LeBron James Jr. si sbriga – gli scout già lo tengono d’occhio – padre e figlio potrebbero trovarsi da compagni o avversari in campo.

Poi però ha rammentato quel fantasma che gli sta sempre davanti, nonostante tutti i suoi sforzi, che lo sprona a fare sempre di meglio.

Quello che si chiama Michael Jeffrey Jordan e che vestiva il suo stesso numero di maglia. Forse è troppo presto per la pace dei sensi; forse c’è ancora tempo per lottare, qualche altra vittoria di cui essere testimoni.

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