Quella che leggerete è una storia vera.

I fatti esposti sono accaduti tra San Antonio Spurs-Los Angeles Clippers del 5 novembre e Charlotte Hornets-San Antonio Spurs del 23 Novembre 

 

Niccolo’

“Non penso neanche a quello che succederà l’anno prossimo. Non mi interessa neanche. Sto solo pensando giorno per giorno a come riportare questa squadra dove deve stare.”

Queste parole pronunciate da Popovich non risalgono ad un intervista recente, bensì ad una delle prime dichiarazioni della sua carriera da head coach sulla panchina degli Spurs. In un bel articolo uscito di recente su Bleacher Report Jonathan Abrams ha raccontato di come e quando è iniziata l’era-Pop e la costruzione della Dinasty e quella frase credo rappresenti molto bene quello che è il pensiero del capo allenatore anche adesso, a oltre vent’anni di distanza. La voglia di migliorare la squadra per renderla il più competitivo possibile è la stessa, anche se è cambiato il metro di giudizio (e dopo 5 RINGZZ è capibile). Carriera ultra-ventennale che tra le altre cose ha portato il serbo a passare il maestro nel numero di vittorie in regular season, ed arrivare a quota 1’100 vittorie, con tanto di dedica sdolcinata al termine della partita contro Dallas.

Sì, in effetti la partita è stata bruttina. Anzi, inguardabile. Onestamente non diversa dalle altre che l’hanno preceduta nell’ultimo periodo: le due vittorie contro Miami e Detroit sono servite a mettere a posto il record ma non hanno offerto prestazioni memorabili. Ancora meno le due sconfitte con Houston e Clippers. La partita con la parte meno nobile della città degli angeli ha esposto platealmente tutti i limiti degli Spurs ― nonostante in questo periodo i Clippers siano una squadra in missione ―, scuotendo bruscamente il titolo di contender in questa stagione; non che lo sia il contrario, ma i dubbi restano almeno per ora.

Novembre è sempre un meno strano, un mese di sperimentazioni e quadrature ancora acerbe. Ma non c’è la notizia. Pare si stia lavorando molto sulla figura del 4-facilitatore e infatti nelle ultime partite sono emersi Gasol e David Lee con tutti i loro pregi (fase offensiva) e difetti (difesahah). Se c’è una cosa certa, oltre ai long-2s di LaMarcus, è che Popovich si fida dei veterani, soprattutto se sono in grado di giocare all’interno del sistema. Ma non mi stupirei se nel corso della stagione trovasse più minuti Bertans, che oltre alla mano delicatissima sta mettendo anche tanta intensità in difesa e potrebbe diventare interessante. Nonostante l’infortunio patito contro gli Heat si è visto molto meno Dedmon, anche se ― nonostante io sia una persona senza decenza morale ― mi sembra un po’ presto per gridare al #FREEDEWAYNEDEDMON.

È (quasi) sparito dalle rotazioni anche Simmons. Tenderei a non preoccuparmi, riapparirà, ma un esterno con quella fisicità ed intensità è una mosca bianca nel roster degli Spurs e nonostante Popovich internamente lo odi come ha odiato prima di lui Parker e Ginobili, lo sa benissimo che sarà una delle armi X quando la temperatura salirà. Ah, ovviamente quando parlo di mancanza di fisicità e intensità nel reparto esterni lo faccio escludendo ― volontariamente ― Leonard. Essendo composto della stessa sostanza di cui sono fatti gli automi tendo (e tenderò) ad escluderlo da una qualsiasi classificazione che abbia all’interno una qualsiasi componente umana.

Leonard che comunque, dopo aver dato prova di poter stoppare gli avversari col pensiero e aver decido di diventare il miglior tiratori di liberi della lega, ha visto il suo Usage ridursi rispetto alle prime uscite. Dopo aver appurato che può essere uno dei migliori scorer della lega ― nelle prime otto partite ha collezionato 4 trentelli, gli stessi che aveva realizzato sinora in carriera ― Popovich ha preferito lavorare su altro, disattivandogli la patch Kobe-Mode. Merito comunque va anche a Parker, tornato su livelli che ci fanno bene al cuore.

Gli Spurs sono una squadra strana. Può una squadra con un record di 12-3 essere strana? Probabilmente sì, se sono gli Spurs. Ho come la sensazione che questa squadra sia troppo forte per non vincere, troppo rodata ed esperta per non trovare un modo di compiere il proprio obiettivo, ma che non riesca a trovare il punto di rottura della propria crescita; come se ristagnasse in un’acqua rassicurante ma avvilente che le impedisce di compiere quello step fondamentale per rimettersi davvero sullo stesso livello delle Cleveland e Golden State di questo mondo.

San Antonio sia una squadra fortissima per una regular season, forse la più forte: non ha bisogno di giocare al 120% tutte le sere e rompere ogni r73-9cord per dimostrarlo, lo è e basta. È Novembre, il cielo è grigio, piove e gli Spurs hanno vinto su qualche campo del Midwest. Suona tutto così armonico, pacifico, naturale. L’ordine della vita sta facendo solo il suo ciclo. Ma se come l’anno scorso poi lo step non lo compi ti mettono in un museo, diventi materiale buono solo per salotti borghesi e vieni spazzato via da una mandria di esagitati pieni di baffi e magline strappate. Ma è solo novembre e nonostante la mia natura pessimistica ammetto che il naufragar mi è sempre dolce in questo mare.

 

Francesco

Tony Parker è un personaggio squisitamente affine al mondo della letteratura. Volendo forzare qualche similitudine, lo possiamo considerare da qualche stagione una rappresentazione in chiave moderna di una celebre fatica del drammaturgo Samuel Beckett: “Aspettando Godot”. Uno spettacolo che ha fatto epoca negli anni 50’ e che ruotava attorno alla mistica attesa di un personaggio che poi effettivamente non compare in scena. Nella cultura popolare è presto diventato sinonimo di una situazione di attesa, di un qualcosa che in teoria è imminente, ma che nella realtà non accade mai.

Ogni tifoso degli Spurs ha una visione di Parker e del tipo di apporto che secondo logica dovrebbe fornire alla causa in questo momento della sua carriera. E’ la stessa di Popovich, un ideale tecnico che viene invocato a più riprese e che spesso viene annunciato poco prima della partenza della stagione. Tutti si aspettano un facilitatore, un gestore di compagni ed un acceleratore di inerzia della prima unità di gioco (gli starter effettivi e cioè la versione con i due lunghi super-offensivi) ma il francese puntualmente disattende le attese, rimanendo ben lontano dal tipo di veterano pronto a supportare i compagni con un abnegazione simile a quella di un Bonora o di un Ossola. Troppo presto per quel tipo di effort?

 

Tutta la leadership (e la classe) di Tony Parker nel canestro che ha deciso la gara contro Charlotte.

 

Tony vuole ancora trascinare, non è psicologicamente pronto a recitare completamente il ruolo del portatore d’acqua, non ha ancora metabolizzato un processo che ha in qualche modo coinvolto anche Duncan e Ginobili prima di lui. Qualche volta il tentativo di traino della squadra non va a buon fine (col risultato di veder comparire anche Mills sul cubo ideale del cambio), irritando principalmente i tifosi under 20, poco avvezzi alla versione tripla A del play transalpino. Atipico quanto basta per trasformarsi in uno dei play più anticonvenzionali dell’era moderna, ormai vive un rapporto complicato con il suo fisico e il rendimento sul parquet. Se nel momento migliore della carriera (arrivato intorno ai 30) era a buon titolo uno dei primi dieci giocatori NBA capitalizzando al meglio la naturale diminuzione di velocità (di solito accade il contrario…) ha poi conosciuto un feroce e repentino declino intorno alle 34 primavere quando il fenomeno degenerativo si è ulteriormente evidenziato.

La singolare capacità di spezzare le difese in due per vie orizzontali è andata scemando, costringendolo a rimodellare il suo approccio in modo sostanziale. Approccio che è ancora abbastanza lontano da una sintesi convincente. Fioccano gli alti e bassi ma la sperimentazione procede senza sosta.

Non c’è mai stato nulla di lineare nella carriera del talento franco-belga. Ha sempre risalito la corrente contro tutto e tutti; ha convinto il primo Popovich a puntare su di lui poco più che maggiorenne, privo di reali asset tecnici e ancora tutto da costruire. Ha fatto una brutta impressione nel primo provino in Texas, per poi stupire tutti nel secondo e strappare la selezione al primo giro. Ha conquistato lo spot di titolare dopo le prime 5 gare nella lega, soppiantando il povero Antonio Daniels. E’ senza dubbio un monumento vivente della squadra e a buon titolo il miglior interprete del ruolo nella storia della franchigia. Ha messo su con tanto lavoro (non necessariamente sempre riconosciuto) un gioco assolutamente efficace intorno alla sua naturale velocità, inserendo a poco a poco un tiro letale dal mid-range e maturando una visione pura di pallacanestro in molti casi vastamente sottovalutata. Per oltre un decennio ha scattato 5-6 polaroid virtuali a sera lasciando immobili i difensori avversari come fermi in posa mentre attaccava il ferro in grande stile ed eccellenti risultati.

 

 

Dopo un piccolo periodo di riposo ha invertito il pessimo rendimento offerto nelle prime uscite del 2016/2017 tornando ad aggredire come ai bei tempi la partita ed offrendo saltuariamente qualche giocata di stampo vintage con qualche cambio di direzione nel pitturato che resta un caposaldo del suo bagaglio tecnico. A prescindere dalle statistiche prodotte, Parker si è riscoperto efficace ed è tornato a fare la voce grossa, il leader vocale del primo quintetto pronto a catechizzare i suoi lunghi di riferimento per migliorare le spaziature necessarie a fare rendere al meglio una macchina offensiva efficace quanto delicata. Sono tornati a far capolino i tradizionali movimenti sapienti di penetra e scarica con Gasol pronto a rilevare Duncan nella classica esecuzione del tiro al gomito della lunetta che era diventato un must per il caraibico. Tony merita credito e rispetto anche nelle sue serate peggiori, considerando lo straordinario 52% dal campo maturato in carriera, il rendimento offerto con la nazionale e l’abbacinante ruolino nero-argento che ha il suo picco nel titolo di MVP delle finali conquistato nel 2007.

Questa potrebbe essere la stagione chiave per l’ultima parte della sua storia NBA, ci sono chiari indicatori di quanto sia ancora importante per questa squadra, soprattutto come creatore di gioco a patto riesca a calarsi in modo convinto in una realtà diversa, lontano dal chiasso attorno a Leonard e compagni. Anche il rendimento difensivo (nota dolente della scorsa stagione) della seconda metà di novembre lascia in qualche modo sperare in un importante progresso.

Il signor Godot non arriverà mai. Il Parker celebrale e calcolatore forse potrebbe uscire dal guscio quanto prima. Si tratta di un processo mentale e tecnico che è una sfida vera e propria, il pane e burro per un fuoriclasse sottovaluto per un buon 60/70% della carriera, parzialmente eclissato dal riverbero mediatico dell’argentino e del nume col numero 21.

5 thoughts on “Educazione Spursiana S01E02

  1. bellissima rubrica, in tutti e due gli episodi mi sono divertito molto leggendola! parlando di tv shows, leonard sinistramente simile all’indiano di fargo a livello di carattere ahah

  2. Che gli spurs faranno un’altra grande stagione regolare da 60 vittorie anche senza Duncan ci avrei scommesso anche 3 mesi fa. Ma in effetti sembrano mancare di quel qualcosa per essere alla pari degli altri due mostri.
    Comunque vi voglio bene ma quegli errori di battitura no, dai

  3. Ascolta, i contenuti non sono così orridi, ma la grammatica, caxxo…non ce l’hai un’amichetta brava in italiano che se l’accompagni a comprare la cover per l’i-phone ti corregge gli strafalcioni? Su, dai!
    “Carriera ultra-ventennale che tra le altre cose ha portato il serbo ha passare il maestro nel numero di vittorie in regular season…” HA PASSARE? Mio Dio!

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