Dite la verità, anche voi vi eravate dimenticati di Anthony Davis. Nella nomenclatura dei lunghi di nuova generazione gli erano passati davanti i più freschi Kristaps Porzingis e Karl Anthony Towns, gli articoli e i tweet estivi erano tutti per loro.

Davis era notizia vecchia e si era già giocato la sua carta hype un anno prima, coi Pelicans chiamati a ripetere la stagione 2015 coronata coi playoff e lui pronosticato per una campagna da MVP.

Invece The Brow – non è che vi siete anche dimenticati del suo soprannome, uno dei pochi fantasiosi e degni dell’NBA anni ’90? – aveva deluso le aspettative, per quanto si possa deludere mettendo a referto 24 punti e 10 rimbalzi abbondanti di media.

New Orleans non ha mai ingranato l’anno scorso, quando Davis ha chiuso la stagione in anticipo per curarsi ginocchio e spalla i buoi erano scappati da tempo. Qualche mese lontano dai radar, salta persino le Olimpiadi di Rio, poi eccolo di ritorno alla opening night contro Denver, senza tante cerimonie. Segnate pure 50 per cominciare, grazie. Come contorno 16 rimbalzi, 7 rubate, 5 assist e 4 stoppate.

The Brow is back. Ma se n’era mai andato?

Di sicuro aveva perso qualche punto in credibilità, almeno se chiediamo agli esperti di ESPN che dal secondo posto per la corsa all’MVP 2015 l’avevano declassato al gruppone degli inseguitori per la stagione corrente.

Non completare mai un’annata con più di 68 partite giocate pesa sul curriculum di un’aspirante superstar, agli occhi degli analisti spiccano di più le continue noie articolari e muscolari – lo stesso Davis ha dichiarato di convivere dalla stagione da rookie con dolori alla spalla sinistra, operata solo di recente – rispetto a un infortunio, anche grave, che rappresenti un caso isolato.

Due sere dopo il tabellino recita 45 e 17, peraltro al cospetto dei Monstars che vestono la maglia dei Golden State Warriors. Le medie di queste prime settimane di regular season sono impressionanti, meritano di essere appuntate e tenute nel portafogli come memorandum; “mai dimenticarsi di Anthony Davis”. I Pelicans, però, restano inchiodati a zero vittorie.

“È frustrante”, ha dichiarato nei giorni scorsi. “Non comunichiamo in campo, abbiamo dei vuoti di attenzione. Qualsiasi cosa vada fatta, deve cambiare in fretta”.

Parole che suonano come un ultimatum e che la dirigenza della Big Easy non prenderà sottogamba, ma sembra tardi per correre ai ripari. Quando schieri come point guard titolare Tim Frazier, che rende onore al cognome pugilistico per l’impegno profuso sul parquet ma dispone di mezzi modesti, ed il tuo secondo violino è un Lance Stephenson all’ultima spiaggia, significa che qualche cifra, nel libro paga, non è finita nella colonna giusta.

Diverse le mosse discutibili negli ultimi anni. Trevor Ariza e Al-Farouq Aminu, swingmen di indubbia utilità, lasciati partire prima di averli sfruttati a dovere, per esempio, per poi farsi accalappiare da bidoni. Non bastano due mani per contare i milioni spesi per Tyreke Evans, Omer Asik e Jrue Holiday, tutti con la tessera fedeltà del fisioterapista e con le quotazioni gonfiate dal mercato, nessuno in grado di ripetersi ai livelli delle stagioni migliori.

Se poi aggiungiamo l’overcommitment per trattenere in Lousiana lo scontento Eric Gordon, pareggiando l’offerta dei Suns di qualche estate fa, si comprende la fisionomia di un roster deficitario e con pochi margini di miglioramento. A dimostrazione del fatto, all’ultimo draft i Pelicans sono stati costretti a dedicare la loro pick numero 6 al prospetto più pronto per contribuire da subito, il cecchino Buddy Hield, uno che difficilmente vedremo a far compagnia a Davis in un All-Star Game.

I restanti milioni, invece, sono stati versati con la causale giusta. 145, per l’esattezza, che confluiscono nel conto del numero 23 da Kentucky, ma quel contratto ticchetta come una bomba ad orologeria. La data di scadenza rimanda al 2020, opzioni comprese, ma se l’attesa dovesse trasformarsi in agonia i Pelicans rischiano di perdere Davis in anticipo, così come, ai tempi, gli Hornets dovettero cedere Chris Paul ai Clippers per non protrarre un matrimonio ormai agli sgoccioli.

In questa puntata di SuperQuark, l'albatros del Pacifico... ah no, è Anthony Davis

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Anche la gestione tecnica lascia parecchie domande in sospeso in quel di New Orleans, con Monty Williams allontanato precocemente dalla panchina per far posto a un Alvin Gentry la cui idea di basket non è mai sbocciata. Dobbiamo a lui la visione di un Anthony Davis che opera a tutto campo, che amplia il range di tiro fino alla linea dei tre punti, che mette palla per terra e serve i compagni.

Un’evoluzione intrapresa nel 2015 e che è proseguita da fine ottobre, ma che non va di pari passo con le vittorie. Strano a dirsi per un giocatore dai fondamentali puliti come Davis, eppure i Pelicans non hanno ancora cucito un ruolo su misura per lui, né scovato i compagni ideali da affiancargli. Complici le prestazioni altalenanti e i continui infortuni, non sappiamo ancora se sia più efficace con un centro statico a coprirgli le spalle (Asik) o con uno stretch four ad aprire il campo (Ryan Anderson).

Se diamo uno sguardo ai dati e alle immagini delle sue prestazioni, Anthony Davis è oggi un attaccante completo e intelligente nelle scelte. Sfrutta l’agilità per tagliare a canestro e chiudere sotto misura, senza sfidare il difensore di peso.

Con la palla in mano può battere l’uomo dal palleggio, tirare in allontanamento sopra la testa di chiunque (è persino cresciuto di un pollice rispetto all’altezza dichiarata, tanto per gradire) o concludere con sottomano e tear drop degni di una guardia.

Da quando ha implementato nel suo arsenale il tiro da tre punti mantiene un’onesta percentuale del 32% ma l’ago della bilancia pende dalla parte del midrange game, esploso sotto la guida di Alvin Gentry. Nel 2016 ha selezionato metà dei suoi tiri da 10 piedi e oltre; per intenderci, un illustre interprete del tiro dalla media come LaMarcus Aldridge si ferma al 42% in carriera.

Un difensore di grido, invece, Davis lo è sempre stato, perennemente tra i primi della classe per stoppate e percentuale concessa al ferro. Quando c’è da cambiare sui pick and roll o stare dietro a un lungo agile da small ball, Davis si piega sulle ginocchia e sfrutta l’apertura alare per contenere l’avversario. Come in questa sequenza, che ha dello stupefacente.

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In una NBA dove il tema del vincere a tutti i costi è quantomai attuale, con fenomeni del calibro di James e Durant che passano da una squadra di successo a una di ancor più successo, non c’è da stupirsi che Anthony Davis sia ansioso di cambiare.

Il problema è che i Pelicans sono troppo inguaiati per offrirgli una panacea per placare la malinconia. Ha solo 23 anni, ma senza un progetto tecnico intorno a sé rischia di vedersi ingrigire davanti allo specchio mentre attraversa i cicli di tanking e rebuilding. L’alternativa è prendere New Orleans di peso e trascinarla il più in alto possibile. Quello che ha fatto nelle prime sei partite, ma la colonna delle vittorie segna ancora zero. Il contatore della sua pazienza non dev’essere molto più in alto.

One thought on “La malinconia di Anthony Davis

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