Il deprimente epilogo della permanenza di Chris Bosh a Biscayne Bay (a base di polemiche, accuse e cartelle cliniche), non è stato all’altezza dei sei anni vissuti sulla cresta dell’onda, prima con i Big Three –quattro volte in Finale NBA e due volte titolati– e poi da conclamato uomo-franchigia e chioccia per i giovani, in combinato disposto con Dwyane Wade.

Nel 2014 Bosh firmò con Miami un prolungamento quinquennale che scadrà nel 2019, quando avrà 35 anni, per l’ammontare complessivo di quasi 119 milioni. In quel momento, complice il ritorno in Ohio di LeBron James, gli Heat avevano assoluto bisogno di rifirmare il loro lungo di riferimento anche a costo di strapagarlo, ma da allora, molte cose sono cambiate.

Pat Riley ha scelto ottimi giocatori, rimediando Tyler Johnson e Justise Winslow al draft, e pescando Hassan Whiteside nei meandri della lega di sviluppo. Contemporaneamente però, Chris Bosh ha saltato 67 partite in due anni, a causa di coaguli sanguigni che nel 2015 lo costrinsero ad un precipitoso ricovero in ospedale, quando uno di questi coaguli si depositò in un polmone, rischiando di provocare una pericolosa embolia polmonare.

La terapia indicata per questa patologia consiste nell’uso di farmaci anticoagulanti che rendono più fluido il sangue, ma, a dire degli esperti, si tratta di una cura che presenta un enorme rischio per chi pratica sport di contatto: il sangue più fluido infatti coagula meno, e in caso di colpi violenti (ad esempio una caduta sul parquet) un normale e banalissimo ematoma rischia di trasformarsi in un’emorragia difficile da controllare.

A causa di questi coaguli Chris non è stato in grado di portare a termine le ultime due stagioni, arrendendosi di malavoglia all’opinione dei medici del club e di quelli consultati privatamente, tanto che già a maggio 2016, secondo quanto riportato da Brian Windhorst di ESPN, lo staff medico degli Heat e il front office iniziavano a chiedersi se non fosse il caso di costringere Chris al ritiro per motivi medici, con o senza il suo benestare.

L’anno è il 1990, e Erik “Hank” Gathers è un nome popolare per chi segue l’NCAA. Gathers ha 23 anni ed è ormai arrivato al termine del suo percorso di studi. Nel 1989, da junior, ha guidato la Division I sia per punti (32.7) che per rimbalzi (13.7) nonostante superi di poco i due metri ed è chiaramente lanciato verso un futuro radioso in NBA.

Gathers non è un talento raffinato o un finissimo dicitore, fa fatica coi liberi, ma sa stare in campo ed è un atleta devastante ed esplosivo, che trova i suoi punti di pura potenza, oppure grazie alla sua clamorosa presenza a rimbalzo. Il suo coach, Paul Westhead, lo cavalca usando un gioco basato su corsa e intensità che prevede tiri veloci e difesa press a tutto campo.

Pochi mesi prima, nel dicembre del 1989, Hank si è sentito male in campo, e gli esami medici riscontrano una tachicardia che va tenuta tassativamente sotto controllo mediante un farmaco (Inderal). Solo che con in corpo quella roba Gathers sente di non avere la solita energia, non è esplosivo, non ha dinamismo, e i suoi numeri ne risentono.

L’ennesimo tentativo di recupero estivo, seguito da un documentario intitolato Rebuilt, è stato accolto con scetticismo da Riley e da coach Erik Spoelstra, che si sono visti dare ragione dal referto medico dell’ultimo “physical” sostenuto da Bosh il 23 settembre. L’esito non lasciava adito a dubbi, e ancora una volta, Chris era considerato non idoneo a praticare sport agonistico. Il vecchio Riley a questo punto ha rotto gli indugi, dichiarando, sulla scorta delle opinioni mediche, di non voler riportare nel roster di Miami l’ala texana.

L’ex Raptor (e ormai ex Heat) non scende in campo dal 9 febbraio scorso. Secondo le regole del contratto collettivo, se non farà ritorno sul parquet entro il 9 febbraio 2017 sarà un medico indipendente (nominato dalla lega e dall’associazione giocatori) a stabilirne o meno l’idoneità a giocare in una delle 30 franchigie NBA.

Se questa visita dovesse decretare la fine della carriera di Bosh, gli Heat sarebbero autorizzati a togliere il suo oneroso contratto dal monte salariale. Dovrebbero cioè versargli i 75.8 milioni che ancora gli spettano (quasi certamente il costo sarebbe coperto dall’assicurazione) ma potrebbero liberare molto spazio dal Salary Cap.

Gli Heat non sono disposti ad assecondare i propri giocatori più rappresentativi quando questo significa compromettere il futuro della franchigia, anche a costo di inimicarseli (Dwyane Wade docet) e Chris Bosh, a sua volta, non sembra a contatto con la realtà di un problema medico che, senza con questo voler fare i melodrammatici, va monitorato e seguito con estrema cautela.

Hank e il suo amico Bo Kimble, che lo ha seguito nel controverso trasferimento da Southern California, hanno un obiettivo comune: la NBA. Non è solo per passione del Gioco, quanto anche un mezzo per garantire sicurezza economica alle rispettive famiglie (Hank ha già un figlio di 6 anni, Aaron), ed è per questo che Gathers decide di diminuire gradualmente il dosaggio dei farmaci che stabilizzano il suo battito cardiaco, e che stanno influendo negativamente sulle sue prestazioni.

Ritorna in campo, e dopo qualche partita stentata, ne piazza 48 (con tredici rimbalzi!) in diretta Tv contro la LSU di Shaq e soprattutto del mitico Stanley Roberts. Sembra tornato il vecchio Hank, devastante e dinamico, mentre LMU vola con un record di 23-5. Quel che il pubblico non sa, è che Gathers non si è presentato a un controllo medico, e pare che per ritrovare la brillantezza, abbia completamente smesso di assumere farmaci quando gioca, ovvero proprio quando il suo organismo ne ha più bisogno.

Gathers ha addosso tantissima pressione. La famiglia e la fidanzata dicono quanto basta per fargli capire che tutti contano su di lui per uscire dalla povertà, e Hank non vuole deluderle. Sa di giocare un gioco rischioso, ma ha un obiettivo in testa, e per raggiungerlo si deve convincere che i farmaci non servono, che il suo fisico potente e il suo cuore da leone non lo tradiranno proprio ora, a pochi mesi dal draft. Andrà tutto bene, basta crederci.

Chris Bosh non ha alcuna convenienza economica a tenere la “linea dura”, perché percepirà fino all’ultimo centesimo del proprio contratto qualunque cosa faccia, ed è tutto men che uno scriteriato (tanto che, quando il problema si ripresentò a febbraio di quest’anno, fu lui a indicarlo ai dottori). Studente modello e persona dai molteplici interessi, sorprende la cocciutaggine con cui Chris rifiuta di prendere atto di una situazione che non si supera con la forza di volontà, come lascerebbero intendere le parole con le quali inizia il primo segmento del suo documentario.

Dal canto suo, Miami non ha interesse ad accampare problemi medici farlocchi che sarebbero inevitabilmente smascherati dal parere dello specialista scelto dalla NBA (col risultato di ritrovarsi Bosh a pesare sul cap fino al 2019, dopo averne demolito il valore).

Tre lustri orsono, gli Heat si trovarono a far fronte ai problemi di salute di un altro loro lungo, Alonzo Mourning. Nel 2000, di rientro dalle Olimpiadi di Sidney, Zo iniziò a soffrire di Glomerulosclerosi Segmentaria e Focale, una sindrome che affligge i reni e che lo tenne lontano dal parquet per quasi tutta la stagione (disputò solo 13 incontri).

Mourning rimase in Florida fino alla naturale scadenza del contratto, al termine del 2002-03 (durante il quale non giocò per il riacutizzarsi della patologia). Alonzo non rinnovò con Miami, accasandosi ai Nets di Jason Kidd, ma Riley non provò affatto a scaricarlo anticipatamente, tanto che Mourning, nel frattempo sottopostosi al trapianto di un rene, tornò in squadra per vincere il titolo del 2006 da riserva dell’ex grande rivale Shaquille O’Neal, e oggi la sua maglia numero 33 fa bella mostra di sé tra i rafters dell’AmericanAirlines Arena.

È il 4 marzo quando Loyola scende in campo al Gersten Pavilion contro University of Portland per il secondo turno del West Coast Conference Tournament, e Erik Spoelstra, che di quella Portland era il tignosissimo playmaker, ricorda d’aver dato un’occhiata al campo d’atletica, e d’aver visto Gathers correre, con dietro un paracadute aperto. Nelle sue parole: “Gathers aveva un fisico incredibile, era Amare’ Stoudemire prima che esistesse Amare’ Stoudemire”.

Dopo una schiacciata però, Gathers, che comanda la difesa press di LMU, si ferma, sembra incerto, e cade sulla schiena. Prova a rialzarsi, dice a Chip Shaefer (che allora faceva il trainer per Loyola) “non voglio restare seduto”, ma sono le sue ultime parole prima di perdere conoscenza.

Al Pavilion cala il silenzio, Spoelstra è a pochi metri, e assiste impotente, come tutti gli altri. Provano a rianimarlo con il defibrillatore, e subito dopo viene portato in ospedale, ma non c’è niente da fare. L’autopsia dirà che nel suo organismo non c’era traccia dei farmaci che avrebbe dovuto assumere.

Dopo i funerali nella nativa Philadelphia, fu tutto un susseguirsi di cause intentate dalla famiglia Gathers, e non si trattò di uno spettacolo particolarmente edificante. Ottennero un milione e mezzo dall’università, e un’altro milione dal cardiologo che aveva Hank in cura, per poi provare a trascinare in aula anche coach Westhead. La scomoda verità però, è che la scelta di sospendere le cure era stata di Gathers, mentre la madre e la fidanzata, ora intente a puntare il dito verso tutti, non avevano certo tentato di dissuaderlo.

Pat Riley non vede la possibilità di un sicuro ritorno in campo di Bosh, e quindi ritiene il ritiro la logica conclusione alle premesse poste dalle circostanze, mentre l’ex di Georgia Tech dice: “Il mio ritorno è sicuro, si tratta solo di vedere quando avverrà”.

Su questa differenza di vedute tra Presidente e giocatore si è consumato un dissidio che non aiuta Miami a liberarsi della nomea di club “irriconoscente” verso i giocatori. Ci sembra un’etichetta ingenerosa, visto che Riley si limita a perseguire l’interesse della franchigia (dal punto di vista economico, ma anche da quello della salute dei propri dipendenti), esattamente come fanno quei giocatori che giustamente si accasano dove credono, come Lebron James, Kevin Durant, e lo stesso CB4, ma tant’è.

Giunti al muro-contro-muro, quali sono le alternative? Difficile che si negozi un buyout, perché peserebbe comunque sul Salary Cap e quindi non interessa minimamente gli Heat, e secondo Adrian Wojnarowski del sito “The Vertical” è improbabile una trade, perché Bosh non supererebbe i test fisici richiesti dalla sua nuova franchigia. È una semplice analisi costi-benefici, molto cara ai “venture capitalist” che costituiscono buona parte degli attuali proprietari NBA: poter schierare Chris Bosh giustifica il contestuale rischio per la sua salute?

Può darsi che il Commissioner Adam Silver intervenga in sede di mediazione, ma non c’è molto margine per operare: Bosh vuole giocare, mentre Miami vorrebbe costringerlo a voltare pagina. Date le posizioni di partenza, è difficile immaginare un dialogo costruttivo. Con ogni probabilità, gli Heat taglieranno Chris, per poi invocare la possibilità di scaricare il suo contratto dal Salary Cap, ottenendo il placet del Commish.

Riesce difficile immaginare che, in sei anni di collaborazione, Spoelstra non abbia mai parlato a Chris Bosh di Hank Gathers, ed è ancora più complicato provare a capire cosa sia scattato nella testa di CB4. Chris può dire di star bene finché vuole, ma forse varrebbe la pena di dar retta a fior fior di luminari con lauree e Ph.D nelle più rinomate università d’America.

Le ultime parole di Pete Maravich su questa terra furono proprio “I feel great”, e anche Gathers credeva di stare benissimo in barba ai dottori.

Hank era almeno parzialmente giustificato dall’esigenza di assicurare un futuro alla propria famiglia. Dopo 12 anni di professionismo e due titoli NBA, Bosh potrebbe serenamente smettere con lo sport e pensare al resto della sua vita senza alcun rimpianto.

Bo Kimble dice di sperare che l’11 volte All Star Chris Bosh si renda conto che nella vita ci sono cose più importanti della pallacanestro, specialmente per un atleta che ha già vinto e guadagnato, e non ha motivo per mettere a repentaglio la propria salute: “Non ne vale la pena, gli vorrei proprio dire di non farlo assolutamente”.

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