I sensi umani percepiscono più di quanto la nostra mente sia in grado di gestire. È uno dei sottoprodotti di quell’incidente evolutivo che chiamiamo coscienza.

Non possiamo fare a meno di elaborare, sezionare, passare al vaglio della morale. Allora il cervello nasce con dei limiti, altri ancora se li crea nel corso degli anni. Come un processore che si protegge dall’overclock. Filtri.

Nessuno ne ha di uguali. C’è chi spalanca le porte della percezione per via artificiale e chi viene al mondo con la chiave già in mano. A quella tempesta di rumore bianco che offende le orecchie, che disorienta, pian piano ci si abitua.

Ma la realtà non è la stessa di tutti gli altri. La realtà non è univoca. È funzione dei sensi e degli istinti.

Chi segue l’NBA ha sentito parlare negli ultimi anni di Royce White e Larry Sanders.

Problemi mentali, si dice banalmente. Come fossero un’equazione in attesa di soluzione. Dall’ampio spettro di tutte le sfumature dell’autismo fino alla sindrome di Asperger (quella del Dottor House o di Sheldon Cooper, sì, per questo è tanto di moda). Fino ad ansia, fobia, depressione.

Chi segue l’NBA un pochino più nel profondo, forse ha sentito parlare anche di Ryan Anderson e del suicidio della sua compagna, Gia Allemand.

credits: Kwangki

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Diverso tempo prima di questi casi, c’era un ragazzino che s’immedesimava in un supereroe di sei piedi e undici, quasi sette, e dalle braccia smisurate.

Kevin Garnett. Gli sembrava che affrontasse ogni partita ascoltando solo la voce di quegli istinti di cui lui si sentiva preda. Per questo il suo modo di giocare era così viscerale, così ferino.

Non era capace di trattenersi, non aveva filtri. A volte lo vedeva parlare al microfono; capiva poco o nulla d’inglese a quei tempi, figuriamoci con quell’accento strascicato del South Carolina, eppure i suoi occhi erano un libro aperto.

Alcuni tacciavano Garnett di essere un uomo falso, per via di quegli atteggiamenti da spaccone, e lui si chiedeva come potessero essere così ciechi. Non si accorgono che è incapace di mentire? Come lui, del resto.

“Sei soltanto un po’ sensibile”, si minimizza di solito. Tecnicamente è corretto; è nella quantità di quel “poco” che sta l’inghippo. Si chiedeva se anche KG se lo fosse sentito dire da ragazzino. Probabilmente sì. Per quello aveva reagito come fanno in molti, costruendosi con cura certosina una reputazione da duro.

Ma non c’erano solo le maniere rudi in quella corazza. La usava per affrontare gli altri ma anche per proteggersi da se stesso. Quando gli istinti urlano anziché sussurrare finisci per somigliare a un animale più che a un uomo. Devi imparare a ragionare come loro. Un’unica ossessione. Per un gatto è la sopravvivenza, per Garnett è la pallacanestro. La vittoria. Poi servono tanti piccoli rituali, meccanismi per ignorare la coscienza e il suo rumore di fondo che affolla la frequenza radio. C’è chi spazza ogni pallone dal ferro a gioco fermo e chi conta le sillabe delle parole.

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credits: Ptitecao

Basta una veloce ricerca su Google per notare quanti appassionati si siano posti la fatidica domanda: Kevin Garnett ha problemi mentali?

Lo vedevano parlare da solo in campo, sfoggiare una mimica che rimandava al disturbo ossessivo compulsivo. Lo vedevano sragionare in interviste sconclusionate, ingarbugliarsi in metafore bizzarre e impuntarsi su dettagli ininfluenti. Eppure non c’è bisogno di chiamare in causa la patologia; tra le mille sfaccettature dell’animo umano, nessuno è mai in difetto.

Poi accadde che, in un’estate di nove anni fa, il rituale mattutino delle notizie NBA svelasse a quel ragazzo il colpo di scena in cui non osava sperare. Kevin Garnett aveva appena firmato per la sua squadra preferita, avrebbe giocato con la maglia verde dei Celtics per conquistare l’anello insieme a Paul Pierce e Ray Allen.

Era fine luglio, quasi due mesi prima del giorno più importante della sua vita. La partenza verso un altrove che lo spaventava. Si era impegnato con tutte le sue forze per immaginarlo accogliente, come se i pensieri potessero dare forma alle cose, ma i suoi istinti non smettevano un secondo di metterlo in guardia.

Arrivò settembre a chiudere quell’estate troppo lunga. La nuova città era estranea, non lo voleva con sé. La gente che girava per strada, poco più che fantasmi. Dalle porte della percezione entrarono voci diverse. Per la chiave, dopotutto, bastava guardare sotto lo zerbino. Parlavano piano, ma portavano cattivi consigli.

Tra 2007 e 2008, per quel ragazzo, l’ossessione era tirare avanti. Le partite di Boston e di Kevin Garnett erano il rito quotidiano, notte o giorno che fosse, per dimenticarsi del resto. Per quelle due ore almeno, le voci stavano zitte. Non credeva nel destino, eppure quel parallelo sembrava scritto da un autore smaliziato. Si ritrovò a lasciar correre la sua speranza insieme a quella delle canottiere verdi.

credits: Williams L Spencer

credits: William L Spencer

In quella stagione la figura pubblica di Kevin Garnett subì un brutale processo di demistificazione. Non era più il fenomeno di periferia che giocava per gli underdog, adesso era un mercenario che si univa al carrozzone dei più forti per elemosinare un anello.

Ogni suo eccesso sul campo era scrutinato, ogni sua sceneggiata con compagni o avversari criticata con fiumi di righe. Ma il ragazzo vedeva oltre, Kevin Garnett non gli sembrava cambiato affatto. Più si accostavano entrambi all’obiettivo, più lo sentiva simile, vicino a sé.

La notte del 17 giugno 2008 c’era un ragazzo, chiuso in un bilocale poco diverso da una prigione, incollato davanti a uno streaming cinese di pessima qualità.

Guardava Kevin Garnett ricevere palla nel pitturato, assorbire il contatto di Lamar Odom e lasciare andare il tiro a una mano mentre ricadeva a terra. Fallo e canestro.

Lo guardava sollevare il trofeo dei campioni. Prima di iniziare a vaneggiare per l’emozione al microfono della ESPN, prese fiato e urlò un messaggio. Anything is possible. Tutto è possibile. I pixel erano sgranati, eppure sembrava che quegli occhi lo guardassero dritto in faccia.

Provò a dormire un paio d’ore, senza successo. Fece colazione, indossò la maglia dei Celtics e uscì di casa. Da quanto tempo non lo faceva? Girò per la città tutta la mattina a testa alta. Si accorse di dettagli a cui non aveva mai prestato attenzione, si accorse che c’era altra gente intorno a lui.

Sperava di incrociare qualche tifoso, qualche appassionato con cui condividere la gioia. In realtà non lo notò nessuno. Era una mattina di giugno ma quella città restava fredda come ghiaccio. Andava bene così, comunque. Era la prima ora d’aria di quell’estate. KG ce l’aveva fatta. Ora toccava a lui.

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