E’ il mese di giugno dell’anno di grazia 1997. 

Nella classifica internazionale dei dischi più venduti un provvidenziale Puff Daddy (I’LL BE MISSING YOU) scalza a fatica dal primo posto della graduatoria gli Hanson (MMM BOP), con grande sollievo di buona parte degli abitanti di tutte le terre emerse. 

Va bene promuovere i giovani, va bene avere voglia di qualcosa di nuovo. Ma a tutto c’è un limite.

Il mondo cinematografico sta negoziando con l’enorme successo (annunciato) del secondo capitolo di Jurassick Park. 

A ben vedere anche la NBA è infestata da feroci dinosauri che non vogliono farsi da parte; il rientro di MJ ha ucciso nella culla la narrativa della generazione successiva al Dream team di Barcellona, riducendo progressivamente a presenze secondarie le nuove leve più rappresentative. Una clamorosa inversione di tendenza per una lega di norma sempre alla ricerca di facce nuove da promuovere. 

La migliore alternativa allo strapotere dei Bulls è rappresentata dalla coppia più vintage (Stockton/Malone) mai concepita da mente Cestistica, nel mercato meno facile da promuovere (Utah) del lotto. E attorno a loro fanno capolino giocatori (su tutti Hornacek) che sembrano usciti direttamente da un filmato promozionale di Red Auerbach o George Mikan agli albori del gioco.

Ad Est nessuno sembra in grado di poter fare il solletico alla corazzata di Jordan, ad Ovest gira tutto intorno al dinamico duo dei Jazz sopra citato. Si cercano ancora a fatica delle interpretazioni valide alle complesse fasi lunari di Barkley, nel frattempo arruolato dalla collaudata (ed alquanto logora) coppia formata da Olajuwon e Drexler, in quel di Houston. 

Dei giovani Sonics di Kemp e Payton (eroi in contumacia Jazz) e dei rombanti Magic di Shaq e Penny non si hanno notizie confortanti ed il ciclo sembra finito. La lega è cristallizzata inesorabilmente sugli esponenti del magico draft 84’ (ed immediatamente successivi) come in un blocco d’ambra recuperato da un archeologo.

Nella NBA vige un clima talmente retro’ da far impallidire i sostenitori del congresso di Vienna che poi fu anticamera della restaurazione post- Napoleonica. Il rientro di MJ ha lasciato tutto il resto a galleggiare, in attesa dei successivi sviluppi.

 I primi esponenti della rumorosa generazione X degli anni novanta sono già stati respinti al mittente senza colpo ferire, dopo un avvio rumoroso quanto promettente. L’aura del giocatore più forte di tutti i tempi fa in ogni caso vendere il prodotto, con tutto il pacchetto. Nuove franchigie canadesi comprese.

Da qualche parte, sperduti nei meandri del selvaggio West ci sono anche gli Spurs di David Robinson, sempre in cerca di un altro centro di gravità permanente. Grazie a lui sono sulla cartina della NBA di livello dai primi anni novanta dopo anni di grigio anonimato. 

Ma sono già praticamente a fine ciclo e con poche certezze assolute quando il nuovo millennio comincia a fare capolino. L’Ammiraglio è poco oltre la trentina e anche se (leggermente) più giovane del blocco degli spietati dominatori attuali fa parte a pieno titolo della generazione d’oro che ha reso popolare la NBA oltre le più rosee previsioni.

 La sua clamorosa spinta propulsiva va in ogni caso, lentamente scemando. San Antonio con il suo avvento è scampata al fallimento, ha migliorato la propria organizzazione ma non è mai riuscita ad arrivare in finale. Da squadra promettente è rapidamente diventata una enigmatica incompiuta di lusso. 

Continua a mancare qualcosa, soprattutto un affidabile compagno di merende a Robinson che pur facendo rendere al massimo una onesta e pittoresca squadra di mestieranti,
fatica a percorrere l’ultimo gradino verso l’empireo assoluto della lega.

 Se fino al 92’ il merchandising legato alla stella dei texani era secondo come gradimento e rendimento monetario solo a quello di Jordan, agli albori del 96’ è praticamente un
prodotto di nicchia. Serve aria fresca, qualcosa che dia una rinnovata inerzia.

Cosi quando Jordan è già tornato a ruggire, in Texas registrano con rassegnazione una serie di infortuni che mandano a tappeto Robinson (solo 6 gare a referto su 82) e con lui la completa annata 96/97, diventa rapidamente tempo di giocare a perdere per cercare qualche gemma ad un draft che si annuncia decisamente interessante ma meno ricco di quello dell’anno precedente. 

Popovich (general manager discepolo di Larry Brown) ne approfitta per dare una scossa tellurica e nel corso della stagione, con un colpo di stato in piena regola si autoproclama allenatore esautorando il “povero” Bob Hill.

La manovra molto disinvolta ed Il licenziamento in tronco di un coach molto quotato, genera una ondata di disapprovazione verso Popovich (semisconosciuto ai tempi) che oggi è difficile rendere al meglio. In una città con dei media meno accomodanti e con una stella più capricciosa dell’ammiraglio, il tutto avrebbe generato un caos di epiche proporzioni. 

L’immagine della franchigia esce comunque a pezzi e il nuovo allenatore e guida assoluta della squadra è già idealmente messo all’indice. Nei circoli buoni della lega si guarda a quanto accaduto come un pericoloso precedente, non mancano le pressioni per un suo allontanamento. La stampa di New York, L.A. o di Chicago lo avrebbe letteralmente
maciullato, in Texas arriva solo l’eco qualche innocuo colpo di tosse.

Nonostante il carico di perplessità, la fortuna fa finalmente capolino ai texani e a distanza di dieci anni regala nuovamente il diritto di scelta numero uno con la vittoria nella lottery ai danni dei Celtics. E nel draft 1997 è un numero che significa Tim Duncan.

Per celebrare un verdetto cosi unanime da parte degli addetti ai lavori dobbiamo tornare alla selezione (92’) di Shaquille O’Neal. Ma in pochi credono ad un potenziale simile. Sono in molti a credere che la coppia con Robinson sia potenzialmente un problema, fioccano le analisi critiche e le proposte di trade per gli Spurs.


Popovich resiste alle pressioni (Pitino in primis) e nel maggio del 1997 cambia la sorti della NBA con la selezione del caraibico. Non a tutti è subito nitida l’alba di questo cambiamento. Siamo ancora in una fase pioneristica/romantica per gli appassionati. 

Le poche analisi/opinioni di peso disponibili sono sbranate con spasmodica attesa, soprattutto grazie all’interesse dei numerosi tifosi Celtics. La paura è ritrovarsi in lega con un’altra coppia/scoppiata come Iverson/Stackhouse a Phila solo un anno prima

In assenza di smartphone, youtube e canali tematici, e con il modem a 56k a fare la parte del leone, per i drogati di NBA oltre oceano è dura leggere con chiarezza la situazione. 

Se il magico tandem formato da Buffa e Tranquillo (ed in generale tutta la redazione della vecchia telepiù) lascia filtrare a più riprese nel corso dell’anno uno smodato ottimismo verso il potenziale del caraibico, non mancano le voci fuori dal coro.

Bagatta lo boccia con una nota in una rubrica poi passata alla storia (nel verso sbagliato), è abbastanza tiepido anche Dan Peterson che pur leggendo con lucidità le giuste combinazioni per la coesistenza di Duncan e Robinson (preconizzando il famoso alto/basso giocato dal duo) sul parquet, resta sostanzialmente scettico circa il suo impatto immediato.

Tim è un isolano che ha frequentato 4 anni a Wake Forest (rarità anche ai tempi un Senior di questo livello) e che grazie alla borsa di studio e alla guida di coach Odom si è trasformato in un crack assoluto nell’ultimo biennio sportivo.

 Ha letteralmente imparato a giocare pallacanestro organizzata al College. Assorbe ogni concetto come una spugna, ogni mese rifinisce un fondamentale offensivo e va a rimbalzo come non ci fosse un domani. La storia è ormai arcinota a tutti.

Non è protagonista di una situazione sociale complessa come quella di Iverson, non genera un interesse mediatico come quello di Kobe Bryant ai Lakers, non ha intorno la curiosità e gli sponsor che ai suoi albori nella lega riesce ad attirare il “genio” Toine Walker. 

La classe draft del 96’ (formata anche da Marbury, Allen, Stojakovic e molti altri) ha talmente calamitato l’attenzione sotto la superficie del pianeta Jordan da lasciare le briciole al caraibico.

Duncan non si concede, ha uno stile di gioco funzionale e solido che concede poco allo spettacolo e che lo rende quasi repellente alla classifica delle migliori giocate della settimana su NBA ACTION, una delle poche possibilità per gli appassionati di “toccare con mano” i protagonisti che potevano solo immaginare nei boxscore pubblicati da American
Superbasket.

 Passa quasi inosservato come un commesso viaggatore. Domina, ma non lo fa pesare. E’ un anti-protagonista. Se David Robinson con il suo sorriso perfetto per pubblicizzare cereali incarnava perfettamente i panni della superstar NBA del caraibico era nota solo la timidezza e la scarsa disponibilità al dialogo. 

Catechizzato in una dura estate di allenamenti dal leader, la giovane stella assorbe i concetti della lega in meno di in mese di applicazione sul campo. Un tempo di
adattamento semplicemente prodigioso.

 Nelle primissime uscite fa un po’ fatica con un Kemp (nel frattempo passato ai
Cavs) che ha voglia di frasi rispettare ma in generale la sua stagione è una inarrestabile cavalcata delle valchirie trasposta su un parquet. 

Il fatturato racconta di 21 punti a sera, conditi da 12 rimbalzi e quasi 3 assist. Gli Spurs diventano la squadra più migliorata della lega ed archiviano un record di 56-26 senza particolari rivoluzioni a roster a parte il numero 21. L’anno precedente si erano fermati ad un laconico 20-62.

Nonostante lo scontato titolo di matricola dell’anno del caraibico si parla relativamente poco e nei forum italiani (nel frattempo esplosi rapidamente) il pubblico si divide tra tifosi delle vecchie grandi, in ruggenti ammiratori della nouvelle Vague espressa dalla lega (Kobe su tutti e un gran numero di fan di Marbury) ed in pochi riescono ad appassionarsi alle
vicende dei texani e del loro nuovo pescecane. 

In generale pochissimi risultano attratti dal brand Spurs. L’appetibilità era ai minimi. Ci vorrà una decade abbondate ma presto il grande pubblico cambierà idea sui texani.

Tim “si lavora” i compagni con continue trovate, e con a sua enciclopedica conoscenza di B-Movie durante le interminabili trasferte in giro per il paese e con una incrollabile e ossessiva concentrazione una volta sul campo.

 Esercita una leadership silenziosa. Si tratta di un ragazzo semplice, con delle fondamenta umane estramamente solide che ha terminato il suo corso di studi per onorare una vecchia promessa alla madre.

Per certi versi è piu’ americano di una torta di mele, per certi altri è quanto di più singolare mai apparso sugli schermi delle superstar NBA.

Nei Playoff del 97′ gli Spurs escono per mano di Utah dopo una serie molto fisica e assolutamente istruttiva per il futuro leader neroagento. 

La coppia di torri gemelle Duncan-Robinson dimostra le sue qualità fisiche e tecniche contro uno dei top team NBA al suo meglio. I colpi proibiti ricevuti in grande quantità da Stockton e Malone tornano quasi sempre al mittente con assoluta nonchalance .

Quando al termine della stagione 1998 Jordan si ritira è tempo per i giovani leoni della nuova generazione di contendersi lo scettro.

 Con una stagione cominciata male dopo il trambusto generato dal lockout (e con il licenziamento di Popovich evitato per un soffio), gli Spurs ingranano la giusta marcia e concludono la regular season di gran carriera.

Dopo un trionfale quanto fortunato cammino nei playoff arrivano a scontrarsi in finale con i miracolosi Knicks, una delle squadra underdog più romantiche e coriacee dell’era moderna.

Il caraibico domina la finale con impressionante facilità. I suoi migliori compagni sono due onesti mestieranti (Malik Rose e Mario Elie) e nonostante un Robinson in evidente amministrazione controllata la serie non ha praticamente alcun tipo di storia.

Tim in meno di una decade è diventato uno dei migliori interpreti del ruolo partendo quasi da zero, ha ribaltato completamente il destino di una franchigia storicamente perdente dimostrando un soprendente carisma, ha trionfato con compagni di squadra modesti o vicino alla mezzanotte della propria carriera come Robinson.

Ha in qualche modo ricalcato le orme di Larry Bird ma lo ha fatto generando un sistema e non sfruttandone uno solido come Larry legend, lo ha fatto in silenzio, quasi ossessivamente in punta di piedi.

Il valore degli Spurs del 99′ è ben fotografato dal Mac Donald’s disputato a Milano dove una buona edizione di Varese (con un clamorso Cecco Vescovi lanciato sulle piste di Malik Rose) ha rischiato di umiliare i campioni NBA in carica.

Credo che la silente per quanto clamorosa dominazione delle finals del 1999 sia uno dei punti meno evidenziati della sua carriera e una milestone leggendaria che se adeguatamente coperta con l’attenzione mediatica dei giorni nostri forse
darebbe un altro peso alla sua illustre carriera. 

Dopo quel titolo Duncan ha cominciato a soffrire in parte delle aspettative, della concorrenza e sopratutto di un roster non adeguato per il suo talento. Ha rischiato di andare via verso Orlando e poi quando rimasto ha sposato integralmente i progetti di rifondazione della franchigia favorendo l’inserimento dei prospetti stranieri come Tony Parker ed ovviamente Manu Ginobili.

Ha dominato e si è imposto in una situazione difficile, ha sofferto la pressione, si è re-inventato e si è col tempo sublimato per franchigia e compagni diventandone parte integrante. Il pilastro di riferimento.

Forse quello che ha dimostrato nei primi due anni di attività e la scarsa attività di pallacanestro praticata precedentemente lo eleva ad una vetta del gioco assolutamente rafefatta.

Non ha mai giocato con un top assoluto, ma si è sempre adeguato ai compagni di squadra ed anche grazie al suo esempio gli Spurs si sono trasformati in una clamorosa macchina da guerra, capace di stralciare ogni tipo di record per vittorie conseguite in stagione regolare.

Dal 2003 in poi i Texani sono stati ciclicamente una delle migliori squadre della lega per collettivo e profondità, ma il tutto grazie alla straordinaria leva di Tim che ha sollevato la NBA per gli Spurs in più di una occasione. 

Dopo venti anni di attività (oggi l’era Duncan ha praticamente la patente) il retaggio che lascia in dote alla franchigia e alla lega è semplicemente straordinario e per certi versi sostanzialmente irripetibile. Ma parliamo di una storia assolutamente nota ad ogni appassionato, meno incline a risalire agli anni di prima attività.

Ad oggi nei forum e nei social gli Spurs sono una delle squadre più seguite, e grazie all’innesto di giocatori internazionali è una delle più amate a livello globale. I texani sono diventati una macchina da marketing appetibile con una presenza fissa nelle classifiche del materiale venduto in giro per il mondo. 

Un veterano che dal 2009 trascina la gamba per colpa di un ginocchio devastato da anni di attività era fino a pochi giorni nella classifica delle 10 magliette più vendute della lega. Ha
contribuito a costruire un sistema alternativo nella lega più convenzionale e monocorde dello sport Pro.

Robinson ha messo gli Spurs sulla cartina. Duncan ha fatto in modo che la maggior parte delle squadra segnate su quella cartina cerchi disperatamente di replicare il modello San Antonio.

Un modello che senza di lui è praticamente irripetibile da costruire, ma forse possibile da mantenere.

Non ci sarà mai più un altro Tim Duncan.

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