Non è vero che la NBA non abbia fatto nulla per provare ad evitare la formazione dei cosiddetti “superteam”. Infatti, nel corso dei lavori del lockout 2011 e sulla scia della decisione di LeBron di portare i suoi talenti a South Beach, si erano studiate tutte una serie di contromisure atte a prevenire la formazione di una Miami Heat 2.0, in particolare la luxury tax e la repeater tax.

Se prima del 2011 esisteva solamente un tipo di tassa di lusso per cui si pagava circa 1 $ per ogni dollaro speso oltre il cap, dalla serrata uscì una luxury tax a “scaglioni”, studiata proprio per punire le squadre più spendaccione con payroll vertiginosi. 

Da allora, sono previste fasce che comportano da 1,50$ a oltre 4$ per ogni dollaro speso in eccesso: per fare un esempio, i Nets versione 2011 che costavano al proprietario Prokhorov circa 190M a fronte di un payroll reale di 102M sarebbero costati, con le nuove regole post serrata, circa 135M di sole tasse.

Non solo. Con la repeater tax, le sanzioni vengono incrementate a seconda di se e per quanto il team sia stato recidivo nell’andare oltre i limiti previsti dal tetto salariale; il regime di hard cap, con restrizioni (quasi) totali per quei team che sforano anche l’ultimo livello previsto dal tetto salariale (apron), e la riformulazione della MLE concludono il quadro relativo ai limiti finanziari e sportivi previsti per garantire il principio di equità tra le franchigie.

Chiaramente, niente di tutto questo ha evitato che Kevin Durant si trasferisse a Oakland.

Nel caso specifico, va innanzitutto considerata l’esplosione del salary cap, un boom quantificabile in un aumento del 35% nei prossimi 2 anni: senza la pioggia di verdoni dovuta del nuovo contratto televisivo, non sarebbe stato possibile offrire a KD il massimo contrattuale, operazione che ha comunque implicato gli addii di Bogut, Barnes ed Ezeli.

La lega non ha preso alcun provvedimento in vista dell’ingrossamento del monte salari, lasciando ai proprietari il sogno di pescare il jolly per stravolgere gli equilibri del campionato e ai giocatori la possibilità di arricchirsi firmando contratti faraonici.

Al netto di queste circostanze specifiche, a rendere tecnicamente possibile la formazione dei superteam sembrerebbe essere proprio uno degli strumenti ideati ai fini dell’equità: il massimo contrattuale.

Comparso per la prima volta nel 1998, quando The Big Ticket, anche noto come Kevin Garnett, firmò un’estensione da record con Minnesota, pone lo stipendio come una percentuale del monte salari: in questo modo KD avrebbe guadagnato 28M l’anno sia che avesse firmato con Golden State che con qualunque altro team.

Non solo, il massimo contrattuale di LeBron James tradotto in denaro vale lo stesso di Mike Conley, pur essendo James uno dei giocatori più forti della storia e Conley, pur un ottimo giocatore se riferito alla propria epoca, non certo all’altezza del Re.

Green ha firmato poco sotto il massimo, Klay quasi al massimo, Curry lo autograferà il prossimo anno: compreso anche il max di Durant, impegneranno più o meno 104M di un cap stimato intorno ai 108M.

 Se non ci fosse il limite del max contract, KD35 e Curry avrebbero un valore reale intorno ai 40/45M l’anno mentre Green e Thompson più o meno 20M: il totale farebbe circa 130 e, calcolando almeno altri 8 giocatori, le tasse di lusso porterebbero gli Warriors e qualsiasi altra franchigia al collasso rendendo di fatto impossibile la convivenza di quattro giocatori di tale livello.

Ironia della sorte, il fattore che di più mina la parità è uno di quelli che sembra fatto apposta per garantire equità ed uguaglianza.

Il principio del max contract è supportato dalla lega e dai proprietari mentre la maggior parte dei giocatori ne trae estremo beneficio, se è vero che tagliando decine di milioni di dollari di stipendi alle stelle più luminose, il salario della classe media è aumentato esponenzialmente. 

Dall’ultimo lockout è uscita una divisione 51/49 giocatori/proprietari del BRI (la torta totale dei ricavi NBA) stimabili in almeno 6 miliardi di dollari: limitando gli stipendi dell’elite, la fascia medio alta si garantisce altissimi ricavi.

L’individual max è la ragione per cui il suddetto Conley guadagnerà 30 milioni di dollari l’anno, Rajon Rondo ne prenderà 14 e Jon Leuer 10: è così da tempo, ma solo il recentissimo ingigantimento delle unità di misura ha portato alla luce quella che è un’ingente quantità di denaro “regalata” a una lunga lista di giocatori sovra-pagati.

Il rappresentante della NBPA, la signora Michele Roberts, ha recentemente attaccato la struttura dell’individual max definendola contraria ai principi liberali americani: un primo e decisivo passo verso la limitazione della formazione dei superteam potrebbe essere la fine del massimo contrattuale. 

Il sindacato, grazie alla presenza nel comitato esecutivo di superstelle del calibro di Paul, James, Anthony, Curry e Iguodala, sembrerebbe essere nel momento storico migliore per forzare una decisione epocale. Impresa certamente non facile se è vero che la maggior parte dei 450 giocatori membri, praticamente tutti quelli che non fanno parte dello star system e che beneficiano del fatto che James, Durant e Curry guadagnino meno del loro valore reale, dovrebbero decidere di votare contro i propri interessi.

A questo si lega, pur indirettamente, l’altra questione che mina l’equità generale: la distanza, sempre più marcata e incolmabile, tra gli small markets e i big markets.

I secondi, alla luce della staticità dei contratti, hanno maggiori possibilità di attirare i migliori giocatori potendo contare su una migliore esposizione mediatica e una maggiore facilità di attrazione di sponsor diretti e indiretti. 

Saper attrarre i migliori giocatori è fondamentale e, tolti i casi particolari San Antonio (guida tecnica) e Cleveland (Lebron), tutte quelle piazze che non si chiamano Los Angeles, San Francisco, New York o Chicago sono costrette a strapagare come campioni giocatori che campioni non sono perché questi preferiscono altri lidi.

Il circo mediatico, grazie anche ad una narrazione epica e romanzata dell’NBA dei bei tempi andati, pone scimmie sempre più ingombranti sulle spalle dei più bravi, chiamati a vincere (possibilmente in modo eroico) nel più breve tempo possibile per evitare di vedere il proprio nome sotto la colonnina dei perdenti. 

Anche da qui, la tendenza dei giocatori a unirsi e formare superteam in piazze importanti anche a costo di guadagnare meno, sicuri che la vittoria o comunque l’impatto mediatico porterebbero benefici diretti e indiretti superiori.

I superteam non sono certo un’eccezione dei nostri tempi, basti pensare ai Lakers di Magic, Kareem e Worthy o a quelli di Shaq e Kobe o ai Celtics di Bird, Parish e McHale, quel che sta cambiando sono le circostanze: la free agency, definitivamente sdoganata da James in diretta TV nell’estate 2010, è diventata un mezzo con cui guidare in maniera sempre più spregiudicata la propria carriera, mettendo da parte sentimentalismi e fedeltà in nome del proprio tornaconto personale.

Il risultato: una super-personalizzazione del basket NBA, una lega in cui tutti conoscono perfettamente vita morte e miracoli dei grandi campioni e quasi niente si sa del nome scritto sul davanti della canottiera, quasi che la squadra fosse diventata un semplice mezzo e non il fine del gioco.

4 thoughts on “La NBA ed il perché dei “superteam”

  1. “A questo si lega, pur indirettamente, l’altra questione che mina l’equità generale: la distanza, sempre più marcata e incolmabile, tra gli small markets e i big markets.

    I secondi, alla luce della staticità dei contratti, hanno maggiori possibilità di attirare i migliori giocatori potendo contare su una migliore esposizione mediatica e una maggiore facilità di attrazione di sponsor diretti e indiretti.

    Saper attrarre i migliori giocatori è fondamentale e, tolti i casi particolari San Antonio (guida tecnica) e Cleveland (Lebron), tutte quelle piazze che non si chiamano Los Angeles, San Francisco, New York o Chicago sono costrette a strapagare come campioni giocatori che campioni non sono perché questi preferiscono altri lidi.”

    Andava tutto bene ma qui sono totalmente in disaccordo….ormai ai giocatori big markets small markets non gli frega più niente, conta il progetto tecnico. Vedere i Warriors che se vengono considerati big market (??) è solo grazie all’abilità della dirigenza… la parte che ho riportato è un luogo comune della NBA di 10 anni fa (vedere Lakers e Knicks dove sono)

    • Vero, il pensiero effettivamente è un po’ da nba dei primi anni 2000. Quello che intendevo sottolineare è che i “superteam” guarda caso nascono nei cosiddetti big markets: sarei estremamente stupito se, tra qualche anno, una stella firmasse con i T’Wolves per giocare con Wiggins e Towns o con i Pelicans per giocare con Davis.
      Grazie per il tuo contributo!

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