Nel 2012, quando il talento selvaggio di Russell Westbrook e la classe cristallina di Kevin Durant guidarono fino alle Finals i neonati Oklahoma City Thunder, sembrava solo questione di tempo prima che KD si fregiasse del titolo NBA, certamente condito dal premio dedicato al miglior giocatore delle finali. 

All’epoca, la ciurma allenata da Scott Brooks dovette assistere alla prima incoronazione di King James dopo 4 sconfitte consecutive ad opera dei Miami Heat, una squadra certamente più pronta, più affamata e più matura.

In ogni caso, il tempo passa e siamo ancora qui ad aspettare quel momento.
Dopo la rovinosa sconfitta contro Golden State nelle finali di Western Conference, in cui OKC era sopra 3-1 e con 3 possibilità di chiudere la serie di cui 1 tra le mura amiche, i Thunder hanno fallito ancora una volta nella corsa all’anello. 

A bocce ferme la domanda è sempre la stessa, che si ripete da ormai 5 anni: che cosa è mancato? Cosa manca a Durant per raggiungere il trono?

Il talento fa vincere le partite e a Oklahoma ce n’è sempre stato in abbondanza, se è vero che i Thunder hanno sempre fatto lunghi viaggi nei playoff. Anche i problemi e i limiti di questa squadra però sono sempre affiorati puntuali ogni qualvolta fosse stato necessario il cambio di passo, il guizzo o la giocata giusta per centrare l’impresa. 

Quando c’è stato da fare la storia, Durant e soci sono sempre arrivati corti, sempre senza i centesimi necessari ad arrivare al fatidico dollaro.


Scott Brooks ha pagato con l’esonero soprattutto la sua incapacità di far coesistere le due stelle e di convincerle a cedere qualcosa l’un l’altro per guadagnarlo come squadra, intesa tecnicamente come capacità di elaborare schemi che non si limitassero alla salomonica divisione dei possessi e alla possibilità di limitare la “follia” del numero 0 e di metterla al servizio dei compagni e quindi del 35. 

Più di una volta le due superstar sono sembrate quasi dannose, in questo loro dividersi tanto scolasticamente quanto di malavoglia tiri e responsabilità senza tuttavia riuscire a spartirsi la pressione che invece raddoppiava sulle spalle di ognuno e finiva per affossarli sempre di più dopo ogni tiro e ogni scelta sbagliata. Solamente a tratti e solamente in quest’ultima stagione, agli ordini di Donovan, i Thunder sono riusciti ad essere veramente squadra e il duo a non essere solamente un 1+1.

In ogni caso, perlomeno dall’esterno e secondo i meglio informati, nello spogliatoio è sempre stato Russ ad avere l’ultima parola: questo avrebbe anche potuto essere accettabile se poi in campo fosse stato indiscutibilmente KD ad esercitare il comando delle operazioni. Ma non è (quasi) mai stato così.

A farne mediaticamente le spese è stato quasi sempre Westbrook, finito più e più volte sul banco degli imputati, ma se è vero (ed è vero) che Durant è un giocatore superiore, un fuoriclasse come ne nascono pochi, sarebbe giusto che la pressione fosse riposta maggiormente sulle sue di spalle. A 27 anni è giusto che venga criticato per la mancanza di risultati e di personalità nei momenti chiave, soprattutto in un mondo che non perdona nulla a nessuno.

E non è una questione di odiare KD, anzi. Curry, Carmelo, Chris Paul, James finiscono a turno nel vetrino del microscopio se non giocano all’altezza o semplicemente quando non riescono a raggiungere gli obiettivi.

 E l’obiettivo, quando raggiungi un livello tale di grandezza, non può che essere uno, ovvero la vittoria finale, specialmente in un mondo dove alla fine dei conti 1 vince e 29 perdono: oneri e onori del far parte di un club più che esclusivo, quello dei padroni della lega di basket più importante del mondo.

Ora, giunto al primo crocevia importante della sua carriera, Kevin Durant da Texas ha deciso di lasciare l’Oklahoma per unirsi a Curry e soci nella Baia.Evidentemente anche lui si rende conto che la finestra temporale per vincere l’anello non è infinita e potrebbe anche essere più corta di quello che si possa credere, visto il livello sempre più elevato della competizione e i tanti concorrenti per quell’unico posto in paradiso.

Non è questa la sede più opportuna, ma sarebbe doveroso fare anche altre considerazioni di carattere generale, partendo in primis dall’analisi del livello esagerato che la pressione ha raggiunto per le stelle di questa lega, se queste sono disposte a sacrificare il proprio ruolo, il proprio stipendio e i propri numeri per provare a raggiungere la vittoria. 

Questo segna anche la fine del grande sogno di David Stern e della morte dei piccoli mercati, costretti a strapagare come fossero campioni giocatori che campioni non sono, perché questi preferiscono condividere il palcoscenico nelle piazze più importanti.

Farà come James? Si toglierà la scimmia dalla spalla e poi proverà a vincere da leader? Può darsi.

Dal punto di vista tecnico, gli Warriors sembrerebbero la squadra migliore in cui approdare: vengono da un titolo e da una sconfitta al fotofinish, dalla stagione dei record, c’è Steph, c’è una squadra che è già la più forte, c’è un bravo allenatore, San Francisco è un posto meraviglioso ed è già tutto pronto per vincere.

 C’è la concreta possibilità che si stia assistendo alla costruzione della squadra più forte di tutti i tempi. Certo, KD non è un giocatore qualunque ed è estremamente diverso da quel Barnes di cui prenderà il posto in quintetto: non sarà facile, sarà necessario adattarsi (vero Wade?) e non è sempre vero che la somma del talento individuale sia uguale o superiore alla forza complessiva della squadra.

Scelto nel 2007 dopo la buonanima di Greg Oden, subito premiato col ROY, precocemente in finale, le successive sconfitte con la franchigia d’origine ed ora questa decision rendono la sua carriera iniziale simile a quella di LeBron James, almeno dal punto di vista delle tappe fondamentali: la speranza, per Kevin Durant, è che possa proseguire in maniera ugualmente vincente.

Di certo lui dovrà effettuare un upgrade dal punto di vista mentale, sia per arrivare alla vittoria, sia per guadagnarsi lo spazio che merita il suo sconfinato talento anche in una squadra in cui, almeno sulla carta, non è lui la stella principale.

Invece, quanto a noi spettatori, sarebbe opportuno constatare e accettare in fretta che no, non è più l’NBA dei nostri padri, decisamente.


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