Una volta tanto, la favola è stata davvero a lieto fine: LeBron James ha portato il Larry O’Brian Trophy sulle sponde del lago Erie, tenendo fede alla promessa fatta due anni fa, quando lasciò Miami per vestire i panni del figliol prodigo.

Al termine di una Gara 7 di sfibrante intensità, LBJ si è buttato sul parquet della Oracle Arena ed è scoppiato in un pianto liberatorio, sfogando la sua frustrazione e quella di un’intera città, che finalmente si affranca dall’etichetta di eterna perdente.

LeBron ha messo fine all’ossessione vecchia di mezzo secolo che accompagnava Cleveland, la città rimasta priva di trofei degli sport maggiori dal 1964, quando i leggendari Browns conquistarono per l’ultima volta l’NFL; ‘Bron lo ha fatto riprendendosi lo scettro momentaneamente affidato a Steph Curry, l’altro rampollo prediletto di Akron, ricordando a tutti che il “re” è ancora il figlio di Gloria James.

C’è riuscito, King James, diventando quel profeta in patria preconizzato sin dai giorni del Draft 2003, quando i perenni perdenti Cavs lo chiamarono con la selezione numero uno assoluta, resistendo alla pericolosa tentazione del nome esotico (nella concitazione dei provini pre-Draft, era opinione diffusa che la prima scelta fosse una corsa a due tra LBJ e… Darko Milicic, talento serbo che ricordiamo per la chioma platino degli esordi, e per una carriera, diciamo così, bizzarra) cambiando per sempre la storia sportiva dell’Ohio.

LeBron ha portato i Cavaliers al traguardo seguendo un tracciato meno lineare di quanto avessimo immaginato l’estate di tredici anni fa, quand’era un diciottenne appena uscito dalla St. Vincent–St. Mary High School, e i più lungimiranti già preconizzavano il suo dominio su un’era di pallacanestro, come Michael Jordan o Magic Johnson prima di lui. Cleveland e LeBron sono campioni NBA, ma si sono issati sulla vetta passando per delusioni, tradimenti, lettere di recriminazioni e riconciliazioni, critiche violente e altrettanto eccessivi elogi.

Tutto in una Serie, a ben vedere: dagli articoli velenosi sugli atteggiamenti passivo-aggressivi (o presunti tali) di LeBron, scritti quando Cleveland era sotto 3-1, all’inevitabile profluvio di miele ed elogi che scorre e scorrerà ancora a lungo, sulla scorta di un anello NBA che sa di catarsi per chi, con la fuga a South Beach del 2010, si era dipinto da solo un bersaglio sul petto, diventando uno degli sportivi meno amati d’America.

A 32 anni ancora da compiere, LBJ s’infila al dito il terzo anello (che fanno il paio con altrettanti premi di MVP delle Finali e ben 4 MVP di Regular Season) mentre il tassametro, come si suole dire in questi casi, continua a correre. Affianca a quota 3 titoli l’altra grande ala piccola della storia del gioco, Larry Bird, che però, a onore del vero, giocava in una Eastern Conference ultra-competitiva, e disputò l’intera carriera con Boston, ad ennesima conferma di come certi paragoni storici basati su un dato (escludendo mille altri fattori decisivi) lascino il tempo che trovano.

Meglio pensare che LeBron è questo, grandioso e unico nel suo genere, godendocelo finché sarà in campo a dispensare pallacanestro; quando smetterà (speriamo tra tanti anni), troverà naturalmente un posto tra gli immortali (rubiamo il termine, con somma reverenza, allo scriba Gianni Clerici,) senza che le parole spese sul suo conto (in positivo o in negativo) spostino di una virgola il suo valore assoluto, quello che si apprezza solo guardandolo dominare una Gara 7 di Finale con le stoppate, i rimbalzi e quelle palle rubate che sembrano intercetti degni di un cornerback del Football Americano, sport per il quale, a ben vedere, il giovane LeBron stravedeva al punto da sognare una carriera con i Cowboys.

Certo, assieme ad un bagaglio atletico-tecnico impressionante, frutto di una perfetta fusione tra potenza e talento, c’è anche dell’altro, ed è solitamente su questo “altro” che si concentrano le critiche. LBJ non ha la cattiveria agonistica dei suoi illustri predecessori, e non sempre si comporta da ligio studente del Gioco: citiamo il mancato saluto agli Orlando Magic nel 2009, la tendenza al flopping, il fatto che abbia vinto sempre e solo scegliendosi la “situazione giusta”, facendo storcere il naso a His Airness in persona.

Parlare di queste zone d’ombra non è lesa maestà, a patto di non incaponirsi, negligendo di menzionare i suoi successi e gli innegabili pregi cestistici che fanno di The Chosen One uno dei più grandi giocatori ad aver mai calcato il parquet, precludendosi così la possibilità, non tanto di fare il tifo per lui (è quanto di più personale possibile, e non sta scritto da nessuna parte che si debba parteggiare per il più forte, anzi), quanto di trovare un equilibrio che consenta di apprezzare il più grande giocatore della sua generazione, abbracciandone la complessità, dagli aspetti apollinei a quelli più ombrosi.

Ci si è molto dilungati sulla distanza che The Decision ha segnato tra LeBron James e i grandi giocatori del passato, quelli che non cambiavano mai casacca (a ben vedere, ci sono ancora: da Bryant a Duncan, da Ginobili a Dirk) e che mai si sarebbero sognati di “allearsi” con i loro rivali, magari inscenando uno “snap” dopo la palla a due. Tutto vero, naturalmente, ma è altresì corretto far notare quanto sia cambiata la cultura sportiva in questi ultimi vent’anni.

Nei ruggenti anni ’60 Jerry West poteva perdere otto finali su nove complessive, ed essere comunque soprannominato “Mr. Clutch” (grossomodo “Signor Pressione”), e lo stesso vale per l’altra grande guardia di quel periodo, Oscar “Big O” Robertson, un 1.95 che nel 1961-62 viaggiò in tripla doppia abbondante di media (30.8 punti, 11.4 assist, e 12.5 rimbalzi), ma in tutto, ha collezionato un solo anello, nel 1971, in coppia con un certo Lew Alcindor, senza che questo ne scalfisse la reputazione.

Era un altro mondo e un’altra epoca, nella quale la stampa rispettava religiosamente il privato delle “celebrities” (il classico esempio sono le scappatelle di J.F. Kennedy, note a tutti i giornalisti, ma taciute al grande pubblico) e i periodici avevano ben altra tiratura, potendosi così concentrare sulla narrazione, anziché sul sensazionalismo improntato a “crisi” e “trionfi”, tesi a invogliare il “click” dell’internauta distratto.

L’animus pugnandi dei grandi era lo stesso di oggi (basta leggere cosa racconta Mr. Logo nella sua splendida autobiografia, “West by West”, a proposito dell’ossessione per la vittoria), ma mancava quella narrazione estrema, fatta di vittorie ad ogni coso, che è nata con Magic e Bird, ed è fiorita definitivamente con Michael Jordan.

In quel clima meno nichilista, si poteva tranquillamente accettare che l’MVP delle Finals appartenesse alla squadra perdente (accadde nel 1969, proprio a West), un’idea solo apparentemente balzana: se il LeBron del 2016 è stato giustamente nominato Most Valuable dopo aver dominato praticamente ogni categoria statistica, va detto che quello del 2015 era stato altrettanto determinante, se non addirittura di più.

LeBron vive invece un tempo nel quale chi non vince non solo ha perso, ma è “perdente” (come hanno appena scoperto sulla propria pelle i Warriors) e quando James ha ceduto alla pressione delle critiche, accasandosi alla corte di Riley e Spoelstra, in fondo si è dimostrato figlio della propria epoca, subordinando alla vittoria ogni altra considerazione (sulla fedeltà, sul valore che vincere “in un certo modo” ha, come potrebbe raccontare Dirk Nowitzki).

La differenza tra vittoria e sconfitta è stata scandita da un tiro strepitoso di Kyrie Irving e da una difesa memorabile di Kevin Love sull’ultimo possesso di Curry (quant’è ironico pensare che Love entrerà nella storia del basket per una giocata difensiva), due stelle non a caso assenti l’anno scorso, quando a recitare la parte del secondo violino fu Matthew Della Vedova, e, con tutto il rispetto per l’australiano, non è proprio la stessa cosa.

In campo e fuori, LeBron è sempre stato combattuto tra la sua natura tutto sommato umile (“humble”, come ripete a ogni piè sospinto) e il bisogno di conformarsi al modello di sempre, quell’MJ del quale ha ereditato il numero di maglia ma non le caratteristiche tecniche o caratteriali.

È così che si spiega l’eterna contraddizione insita in un supremo giocatore di squadra (forse il migliore di tutti i tempi) che però troppo spesso ferma la circolazione della palla e cerca l’uno-contro-uno, o di uno che, dopo l’anello del 2012, disse “non dovrei nemmeno essere qui”, e poi però assume atteggiamenti da bullo.

Pensavamo avesse capito di essere tutt’altro tipo di giocatore (che non significa migliore o peggiore, ma solo diverso) nella seconda parte del quadriennio in Florida, quando s’era trasformato in una macchina da basket inarrestabile, ma in questa nuova incarnazione in maglia vinaccia-oro è tornato ad accentrare il gioco, circondandosi di tiratori, restando ovviamente devastante, ma di fatto, autolimitandosi.

La brama di diventare “like Mike” è riuscita a marcarlo meglio di qualsiasi avversario, convincendolo a forzarsi in una veste da realizzatore-risolutore che non gli appartiene fino in fondo. No, ‘Bron è al meglio quando gioca come in Gara 7 (terzo di sempre a mettere a referto una tripla-doppia al settimo episodio di una Finale, dopo –toh!– Jerry West e James Worthy), e allunga le sue mani sulla partita senza che nemmeno ce ne si accorga, tagliando senza palla, difendendo con rara intelligenza, e lasciando che l’enorme talento a disposizione faccia il proprio corso.

Non sappiamo se sia il più grande, e ben ci guardiamo dal proclamare sentenze dopo una vittoria (in fondo, dopo tre titoli e altrettanti MVP, Shaquille O’Neal sembrava ormai chiaramente destinato a diventare il miglior centro di ogni epoca, e invece Bill Russell, Wilt Chamberlain e Kareem restano saldamente al loro posto). Di certo però, questa vittoria aggiunge qualcosa di speciale ai due titoli vinti “in black”, con un dioscuro come Dwyane Wade a fargli da alfiere.

James ha portato l’anello dove non era mai stato, battendo la squadra con il miglior record di tutti i tempi e rimontando da 1-3 (non era mai successo), vincendo dopo aver fatto cacciare David Blatt (o forse no? Passivo-aggressivo, ricordate…) e a dispetto di un proprietario come Dan Gilbert, che si troverebbe benissimo a fare il presidentissimo in Serie A, con le sue sparate e la pretesa di fare la lotta alle franchigie ricche (il tutto, vantando il più alto monte salariale di tutta la NBA, con i secondi che arrivano 10 milioni più indietro).

Ha vinto anche grazie ai compagni, e ci mancherebbe altro, chi mai ha vinto da solo? Kyrie è stato a tratti incontenibile (e siamo convinti che a breve entrerà nell’élite dei grandissimi), Love ha accettato –tutto sommato con disciplina– un ruolo inferiore alle sue aspettative, mentre J.R. Smith, Thompson, e soprattutto Richard Jefferson, sono stati fantastici nel buttare il cuore oltre l’ostacolo, seguendo la mente e l’anima di quest’organizzazione, uno che, a buon diritto, può definirsi “Il franchise player” per antonomasia. Signori, LeBron James.

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