It’s lights out, game over/If you wanna you can check my stats/It’s lights out, game over/Make way ’cause the King is back.

Riflettendo a qualche ora dall’incredibile successo dei Cleveland Cavs, questo estratto del testo di “Lights Out” dei P.O.D. mi sono sembrate le parole più adatte alle circostanze vincenti create da LeBron James in omaggio alle sue stesse origini, le quali hanno dato vita ad una storia che nemmeno il miglior sceneggiatore Nba avrebbe potuto costruire. Il ragazzino di Akron ce l’ha fatta, la penitenza pluri-decennale dei Cavaliers è finita, la franchigia è finalmente giunta alla sua personale Terra Promessa dopo un cammino lunghissimo e condito da cocenti delusioni, innumerevoli bocconi amari da mandare giù, tante speranze coltivate con estrema dedizione e puntualmente frantumate dalla mancanza del risultato ultimo, quella vittoria di un titolo che fino alla settimana scorsa, con la squadra sotto per 3-1, rischiava nuovamente di sfuggire proprio dinanzi ad un traguardo che si poteva oramai toccare con mano.

1466392354158LeBron ha vinto il primo titolo nella storia della Cleveland cestistica nell’esatto modo in cui l’avrà sognato in milioni e milioni di occasioni. Da assoluto protagonista e nell’esatta situazione in cui ogni grande campione desidererebbe di trovarsi, allontanando nel contempo tutte quelle sgradevoli sensazioni che il suo quadriennale trasferimento a South Beach aveva inevitabilmente provocato, seppure, a conti fatti, la sequenza degli eventi che ha portato alla vittoria di domenica viene ad assumere un suo percorso motivato e preciso. Vedendo King James con il trofeo in mano, viene da pensare che dentro sé, lui in realtà sapesse già tutto.

Gara 7 delle Finali Nba, l’occasione di vincere un titolo leggendario e di coronare una rimonta che nessun’altra squadra era mai riuscita realizzare nella storia, oltre alla possibilità di battere una franchigia sostanzialmente imbattibile, reduce dalle ben note 73 vittorie di regular season. Questo è stato lo scenario dei sogni di LeBron, la situazione di massima pressione possibile, dove la possibilità di sancire il termine dell’aura funerea dei Cavs era troppo ghiotta per non essere sfruttata, nonostante la posizione di grande svantaggio da cui è partito il tutto. Il titolo si è concretizzato nell’istante stesso in cui James ha inchiodato al tabellone una conclusione importantissima per i Warriors, adombrando Iguodala elevandosi con un tasso atletico irripetibile per un uomo come lui, fisicamente costruito come un camion pronto a spostare con violenza qualsiasi cosa gli si ponga dinanzi, un’azione difensiva che ha dimostrato una volta in più quanto ardentemente quel titolo fosse desiderato. La stanchezza di sette partite, di un percorso psicologico difficoltoso, di uno stress emotivo molto difficile generato dalla necessità di non poter più andare sotto, pena l’eliminazione, sono tutti fattori il cui peso è scomparso come una nuvoletta di fumo negli ultimi minuti della partita, momento nel quale i Grandi Campioni rivelano lo spessore che li caratterizza, dove emerge la loro capacità di erigersi nel momento più difficoltoso che un giocatore possa essere chiamato ad affrontare.

web1_2016-06-20T024047Z_1_LYNXNPEC5J02F_RTROPTP_3_NBAL’epilogo di Gara 7 era già scritto nel destino del nativo di Akron, Ohio, fin dal momento in cui i Cavs lo chiamarono con la prima scelta assoluta del Draft 2003. L’indicazione cronologica degli eventi conferma una maturazione individuale esponenziale. Dapprima, la batosta contro Tim Duncan e gli Spurs con un cappotto degno di una delle Finali Nba più squilibrate di sempre. Poi The Decision, la negatività che l’episodio si portava appresso, e tutta la sbruffonaggine manifestata dai Miami Heat del suo primo anno in Florida, puniti dal karma con una lezione incredibilmente dura da mandare giù, tutta targata Dirk Nowitzki. Poi due titoli, corrispondenti all’ingresso di LeBron nel pantheon dei grandissimi, che uniti alla finale persa (ancora) contro la combriccola texana del Popovich sono andati a formare l’esperienza necessaria per potersi permettere il lusso di tornare a casa ed essere riaccolto a braccia aperte dopo tutte quelle magliette usate per accendere falò in qualsiasi luogo di Cleveland, e provarci ancora.

The Return Of The Prodigal Son. Né più, né meno.

L’impatto di James era già risultato essere devastante un anno fa, quando aveva portato sostanzialmente da solo i Cavaliers in Finale nella stessa stagione del suo ritorno, dopo che la squadra era inevitabilmente ricaduta in anni di negatività ed anonimato, senza peraltro vedere un futuro roseo davanti a sé a causa di scelte molto discutibili da parte del front office. Quattro anni conclusi con una misera media di 24 vittorie a campionato, senza uno straccio di costruzione sensata del roster, con la prospettiva di ritrovarsi costantemente in lotteria senza nemmeno sapere come utilizzare determinate e preziose risorse. Già dalla stagione scorsa era fin troppo chiaro che il re-inserimento a roster di James faceva tecnicamente in modo che mai nulla fosse cambiato, facendo nuovamente schizzare Cleveland ai primissimi posti della Eastern Conference.

Che cos’è cambiato rispetto alle Finali dell’anno scorso?

Non si può non pensare al supporting cast, perché le grandi squadre vincenti hanno sempre detenuto più di una superstar a supporto del giocatore franchigia, così come non si deve sottovalutare la visibile differenza del flow offensivo tra questa e l’altra edizione dei Cavs. Nella sfida persa dodici mesi fa contro Golden State, LeBron aveva prodotto ogni tipo di sforzo possibile riuscendo a portare a casa due vittorie praticamente da solo, e la differenza sta tutta qui.

625-kyrie-irving-shot-game-7-nba-finalsIl titolo non sarebbe stato possibile senza un Kyrie Irving dall’impatto tellurico, che ha fornito a James l’esatto tipo di spalla che serviva per portare a termine questa storica missione, un giocatore in grado di aggredire il palcoscenico più grande della pallacanestro mondiale, capace di predicare un basket tutto suo spezzando a turno le caviglie di ogni suo marcatore, crossover dopo crossover, creandosi un minuscolo ma sufficiente spazio per la conclusione in jumper, o penetrando efficacemente a canestro. 23 punti abbondanti a partita hanno fatto tutta la differenza del mondo per un reparto offensivo un anno fa non esattamente così brillante ed incanalato verso continui e prevedibili isolamenti per LeBron, senza dimenticare i 41 punti della sua immensa Gara 6 e soprattutto il tiro della staffa di Gara 7, quello che ha definitivamente rotto una parità che pareva essere eterna, dove nessuna delle due compagini pareva essere più intenzionata a segnare. Una tripla con gli attributi, scagliata davanti a colui che delle triple è il Re indiscusso, Steph Curry, mandata a canestro con autentico ghiaccio nelle vene.

E non sarebbe stato titolo nemmeno senza Kevin Love, le sue triple, ma soprattutto senza i suoi rimbalzi di Gara 1 e Gara 7, quest’ultima situazione dove il ragazzo da UCLA ha capito che stazionare fuori dall’area non avrebbe portato a nulla, e che serviva necessariamente dare una mano sotto le plance a quel Tristan Thompson che un anno fa era anch’egli troppo solo – per quanto fu encomiabile – nel combattere per tirare giù rimbalzi a ripetizione.

Il LeBron James di quest’anno è stato tanto protagonista quanto direttore d’orchestra. Ha studiato i Warriors in ogni sfaccettatura possibile cercando di capirne le tendenze, ha inciso come sempre in tutte le fasi del gioco, ha preso in mano la partita quando la situazione lo richiedeva, ha messo in moto i compagni quando andava fatto. Quello che riteniamo essere fattore più decisivo di altri, è rappresentato dalla totale mancata accettazione del fatto che i Cavaliers avrebbero perso di nuovo, specialmente dopo le incolori prove scaturite dalle prime due gare del confronto finale. La maturazione di James sta tutta qui, nell’essere leader e sapersi caricare le responsabilità di una squadra (e le attese di una città) sulle proprie capienti spalle, ammettere di essere in errore lui per primo, sentirsi in obbligo di dover dare un esempio concreto ai compagni, unendoli mantenendo fisso l’obiettivo.

Ora, la storia è scritta, e su James speriamo non ci debbano più essere discussioni. A chi lo aveva accusato di aver vinto facile, lui ha risposto con il successo più difficile della storia Nba. A chi lo aveva additato di alto tradimento, lui ha risposto con la redenzione. This is for you, Cleveland.

Oggi, l’impensabile è accaduto. Il vessillo recante la scritta “Cleveland Cavaliers 2016 Nba Champions” resterà appeso per sempre al soffitto della Quicken Loans Arena simboleggiando il tesoro più caro che la città abbia mai custodito, ed un giorno, alla stessa altezza, vedremo affisso anche il numero 23, appartenuto a colui che mantenne la Promessa, facendo a pezzi The Curse una volta per tutte, restituendo una dignità sportiva ad una città oramai non più derelitta. No more mistake on the lake.

Quella stoppata ha cancellato tantissime negatività.

Quelle lacrime di gioia, per una volta, sono venute anche a noi.

 

 

 

2 thoughts on “The King Is Back

  1. C’è una foto emblematica di LBJ versione Miami Heat e LBJ vincente a Cleveland.

    In Florida, una foto con il titolo NBA ed il titolo MVP in mano, un viso da sbruffone pazzesco e tanta antipatia.

    In Ohio, la stessa foto, lui col titolo NBA ed il titolo MVP in mano, ma con un viso di un uomo che ha veramente dato tutto per arrivare all’Eldorado. Fisicamente e mentalmente, ha finito questi PO completamente svuotato, non ha sbagliato una sola partita in termini di prestazione e concentrazione.
    3-4 settimane eccezionali per LBJ, playoff da vero alieno.

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