“Cosa diciamo al Dio della morte?” chiede Steve Kerr ai suoi.

“Non oggi”

Il crepuscolo degli idoli dovrà attendere perché Golden State sopravvive e proietta la stagione da record tra gli annali riservati alle leggende.

La prima squadra a vincere 73 partite in regular season diventa anche la decima a rimontare dal 3-1 in una serie playoff.

Gara 7 è un episodio catartico, lo sport che si eleva a esaltazione e astrazione dalla realtà al tempo stesso.

Una Cappella Sistina dove trovano spazio le pennellate robuste delle fondamenta del gioco – le ginocchia sbucciate e la lotta per il pitturato – insieme agli svolazzi di questo Rinascimento cestistico partorito nella Bay Area: il pace and space, il quintetto piccolo, il tiro da tre. +84 complessivo negli ultimi due match con questo fondamentale; roba che fa tremare i polsi.

La vittoria dei Warriors è un manifesto autocelebrativo. 17/37 dall’arco per uno scintillante 45.9%, nobilitato dal 6/11 di Klay Thompson e dal 7/12 di Steph Curry.

Gli assist sono solo 20 su 37 canestri dal campo, un dato misero per una squadra che si fregia di una squisita circolazione di palla, ma poco importa: quando si sente il fruscio del cotone, anche un tiro ignorante diventa un tiro ben preso.

Draymond Green, sotto a quel corpaccione da Dancing Bear che si ritrova, nasconde una mente da scienziato del gioco e sa bene come funzionano queste cose.

“Abbiamo fatto girare la palla e i tiri hanno cominciato a entrare”, questa la tautologia che sfodera nel post partita, ma ha il sorriso di chi mente sapendo di mentire. È l’esatto opposto, Dray, the other way around.

La partita cambia faccia quando nel terzo quarto gli Splash Brothers si mettono in proprio e inventano triple di una tale difficoltà che scaraventano lo spettatore in una sorta di ucronia.

Dal palleggio, da fermi senza ritmo, cadendo indietro dall’angolo, sopra le mani protese di un sette piedi che balla il tip tap pur di oscurarti la visuale. Splash, per l’appunto.

È solo allora che la difesa Thunder si piega all’evidenza e i Warriors approfittano dei wormhole che si aprono in direzione del ferro.

C’è chi storce il naso mentre assiste a questo flipper impazzito, ma nessuna rivoluzione è priva di vittime. Quella di Golden State, a vederla nei suoi momenti di grazia, ha un impatto copernicano; servirà una forza uguale e contraria per declassarla a fenomeno di passaggio.

I Thunder avevano di fronte un’impresa per stomaci forti. Solo 24 squadre avevano vinto una gara 7 in trasferta contro i 100 successi della franchigia di casa, il precedente più illustre quello dei Lakers corsari a Sacramento nel 2002.

La doccia fredda degli ultimi cinque minuti di gara 6 è ancora sotto gli occhi di tutti, una vittoria trafugata direttamente dal caveau per mano del bombardamento di Klay Thompson e della difesa tentacolare di Andre Iguodala.

Oklahoma City ha una convivenza difficile coi quarti periodi e un’ingenerosa reputazione di choker. A scanso di equivoci, partono forte.

La difesa prova a rinverdire i fasti dei due massacri alla Chesapeake Energy Arena, l’attenzione ai dettagli non è la stessa ma l’impegno c’è. I campanelli d’allarme non mancano e la tensione della partita secca semina zizzania.

Andre Roberson è il solito diavolo della Tasmania nella propria metà campo, ma in attacco s’intimidisce e spara a salve (2/11 alla sirena); Dion Waiters è irascibile e persino al più vissuto Serge Ibaka trema la mano.

Steven Adams, al contrario, ha il contegno di un samurai. Apre la sua gara 7 schiacciando in testa a Bogut, poi si avvinghia in un ultimo ballo con l’amico del cuore Draymond Green.

Anche lui però finirà in calo, forse più per raggiunti limiti fisici che per tenuta emotiva.

Tutto questo passa in secondo piano quando hai un Kevin Durant, autoproclamatosi professional scorer alla vigilia, perfetto al tiro nel primo parziale.

Predica bene e razzola meglio, a giudicare da come banchetta sugli isolamenti con Iguodala, inserito in quintetto da Steve Kerr appositamente per fargli da bodyguard. Solo i raddoppi lo costringono a arretrare, lo mandano fuori ritmo.

È un onesto 24-19 al primo intervallo, vantaggio che resiste anche al ritorno arrembante di Klay Thompson (0/7 all’esordio, poi quattro canestri in fila) e s’innalza al +13.

Nel miglior momento della partita i Thunder trovano punti e rimbalzi da Enes Kanter che sovrasta Speights e terroreggia sotto il tabellone, la difesa abbassa il ritmo, nega il contropiede (solo 5 fast break points per Golden State all’intervallo lungo) e si chiude nei pressi del ferro. Kerr deve ingegnarsi e architettare giochi a due nell’ombra tra Iguodala e Green per arrivare indisturbato a canestro.

Il terzo quarto è territorio di caccia di Steph Curry, quasi dieci punti di media in stagione regolare.

Chiamatelo videogioco, chiamatela poesia, chiamatela incoscienza, chiamatela arte balistica, chiamatela come più vi piace. Ormai i suoi isolamenti sul perimetro sono un fondamentale a sé stante, non sono più quelle azioni da mani nei capelli, da “no, no, no! … Splash. Buon tiro”.

Quando Westbrook si assopisce e passa dietro il blocco, lo punisce. Quando Adams e Ibaka cambiano marcatura, li invita a una danza e poi gli tira in faccia.

Il rilascio di Steph innesca un bizzarro effetto negli occhi di chi osserva. A volte, a velocità reale, sembra che la mandi per aria come un impiegato qualsiasi sui 40 gradi del playground in cemento al sabato pomeriggio.

Poi, al rallentatore, apprezzi la meccanica perfetta. Il gomito al giusto angolo, lo scatto del polso, i polpastrelli che guidano il cuoio, il busto dritto nonostante piedi e gambe vadano per conto loro. Ci dev’essere un trucco, pensi. Non è possibile che accadano così tante cose in una frazione di secondo.

Klay Thompson, per non essere da meno, si iscrive alla festa riempiendo le voci di un tabellino quasi altrettanto ricco. Qui inizia quella circolazione di palla che Draymond Green, truffaldino, millantava.

Billy Donovan corre ai ripari raddoppiando l’MVP a otto metri dal ferro. Dall’ucronia si passa alla pura fantascienza. Ad ogni modo, la partita gli sta sfuggendo di mano. I suoi sono scossi, si accusano a vicenda di colpe inesistenti, subiscono il sorpasso.

I Warriors approfittano di praterie in contropiede e firmano il 12-0. Dall’altra parte cosa succede? Russell Westbrook ha preso la faccenda sul personale e ha riposto Kevin Durant nel banco frigo.

Facciamocene una ragione, Russell non cambierà mai per noi. Se vuoi i servigi del bipede implume più veloce su un campo da basket, devi prendere il pacchetto completo, con gli outfit, le facce da tartaruga ninja e tutto il resto.

Dei 21 tiri che seleziona – realizzandone sette – fa male soltanto quando batte la difesa sul tempo.

Billy Donovan aspetta qualche minuto di troppo per chiamare il time out e togliergli il pallone dalle mani, ma c’è da capirlo. Come fai a volergli male con la pura rabbia agonistica che vomita sul parquet? Stanotte però Westbrook lotta contro i mulini a vento.

Se la partita non finisce qui è solo perché Kevin Durant ha piani di altro genere.

La stampa dell’Oklahoma ha già dispiegato la sua campagna di marketing per trattenerlo ai Thunder nell’imminente free agency – dava semplicemente gas col suo Ferrari, ma per i locali è un eroe che ha aperto la strada a un’ambulanza. Lui preferirebbe motivazioni più concrete. Le Finals, per esempio.

I suoi dieci tiri presi fino a quel momento sono un’assurdità, fin troppo pochi per un sedicente professional scorer, a maggior ragione quando ha la mira buona. Westbrook è in embargo e KD dirige le operazioni. 4/9, due triple, due liberi e una rubata d’importanza capitale raddrizzano un quarto periodo che vive di scambi abbacinanti tra le sue stelle.

Sì, perché Thompson e Curry non stanno a guardare,. Non per niente Steph è tra i migliori closer della lega; segna il 43% dei tiri della propria squadra nel crunch time e li converte con una percentuale effettiva del 71%. Immaginifico.

Per la seconda partita consecutiva la battaglia dei quintetti piccoli la vince la Death Lineup di Golden State e Donovan non prova nemmeno a reinserire il positivo Kanter per sparigliare le carte e forzare il rimbalzo d’attacco – i Warriors, per la cronaca, sotto i tabelloni hanno retto a meraviglia anche stasera: 46-47.

Serge Ibaka è la spalla che non ti aspetti, ma rovina tutto a 1 minuto e 20 dalla fine. Sul -4, Golden State ha cinque secondi per attaccare, poi la palla tornerà tra le dita roventi di KD. Succede questo. Gara 7 è virtualmente consegnata alla storia perché la difesa ha una ragionevole paura di quel tiro lì.

Nell’elencare limiti e mancanze dei Thunder, si finirebbe per dimenticare i meriti che li hanno portati a vincere 3 partite su 7 contro quella che è, verosimilmente, la squadra di pallacanestro più forte del pianeta Terra.

Hanno messo alla prova i Warriors fino a risvegliarne i poteri nascosti, come in un episodio di Dragon Ball.

Li hanno superati per tattica e atletismo. Li hanno sfidati a una rimonta con precedenti in singola cifra arrendendosi solo a una manifestazione paranormale di mind over matter.

Per questo stanotte ci sono dei vincitori ma non dei vinti. Tutto il resto sono considerazioni che affolleranno la mente di Kevin Durant; la sua – complicatissima – off-season comincia oggi.

Tra il cammino privo di ostacoli dei playoff 2015 e la regular season attuale condotta in ciabatte, a Golden State mancava un climax per convincere i detrattori del loro diritto di cittadinanza tra i grandi.

Per questo il record delle 73 vittorie contava così tanto, per questo il paragone coi Bulls del 1996 non era un mero esercizio di stile.

Gara 7 è la battaglia di Troia che consacra il poema dei Warriors, tramuta in epica la carriera di Steph Curry con effetto istantaneo; non si dimentichi però che ogni Achille ha bisogno di un degno Ettore.

2 thoughts on “Da un altro pianeta: i Warriors tornano in Finale

  1. Bella storia ma se i due fessi di Oklahoma avessero evitato di spadellare col 30% in gara-6 (parecchi tiri facili, e se sei 2e10 come Durant nessuno ti può materialmente stoppare) tutto quest’epos sarebbe rimasto in soffitta.
    Ci si domanda ancora una volta cosa ci stiano a fare gli allenatori.

  2. Ottimo articolo, pero’ dire “se i due fessi” mi sembra leggermente non appropriato. KD e Russel hanno sbagliato in alcuni momenti ma hanno comunque tenuto in pista OKC sempre. Io da fan di GSW ( fin dai tempi del Rnm TMC ) sono contento del passaggio di Golden State ma mi dispiace molto per OKC perche’ ha fatto dei playoff splendidi. Mi fa sorridere la gente che sputa sentenze su OKC in gara 7, come quelli che sputavano sopra al gioco di GSW dopo gara 4 sotto di 3-1. La verità e’ che queste due squadre sono veramente forti, hanno vinto i migliori ( come squadra ) ma sta sequela di improperi sui poveri KD e Rus mi sembrano veramente fuori luogo.
    Buone finals e che vinca….. GSW

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