Per gettare le fondamenta di una storica remuntada i Warriors non devono guardare più in là del proprio naso, una partita alla volta. La sfida comincia qui, sul parquet amico di gara 5, col pubblico della Oracle Arena che non vuole essere da meno di quello dell’Oklahoma e si presenta caldissimo ai cancelli. 

Le stelle della squadra non deludono le aspettative ma gli uomini della svolta sono quelli che non ti aspetti. Andrew Bogut, stuzzicato da coach Kerr nel prepartita, produce una grassa doppia doppia in 30 minuti di pura sostanza; Marreese Speights è la testa d’ariete di una panchina da 30 punti con otto minuti di raptus offensivo.

Soprattutto, quelle scelte audaci a cui spronavamo Steve Kerr su queste stesse pagine si sono infine palesate in un differente approccio tattico I Warriors del riscatto hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo, certo, ma non sarebbe bastato contro i Thunder; loro gettano anche fegato e polmoni fin da gara 1.

Il primo dettaglio salta subito all’occhio. È un attacco, più paziente, che si adatta a quel che offre la difesa. Non c’è traccia della ricerca spasmodica della corsa in contropiede, né si vuole costruire a tutti i costi un tiro in pochi secondi. 

Kerr si riscopre coraggioso e non ha paura di sbugiardare il proprio credo. I suoi sono la squadra che porta più blocchi in assoluto, oltre 400 totali di distacco dalla seconda in classifica, ma per stasera la musica cambia. 

Se la difesa di Oklahoma City risponde alla grande in situazioni dinamiche, perché non provare a prenderla in castagna con scenari statici? Bogut, Green, Iguodala e Thompson si schiacciano nel pitturato e spingono il proprio uomo in post. Da lì danno libero sfogo alle abilità di passatori; Curry ringrazia e ritrova spazio e sorriso.

Niente small ball, la Death Lineup compare solo a un soffio dalla sirena quando servono portatori di palla e tiratori affidabili ai liberi. Il primo cambio di Bogut è Varejao, poi Speights, soltanto più tardi c’è uno scampolo di cronometro per Ezeli. 

Alla sua verticalità Steve Kerr preferisce l’acume tattico, vuole sempre in campo un punto di riferimento per l’attacco che sappia anche proteggere il ferro. La soluzione sembra efficace, ma come in gara 2 l’ago della bilancia sono Green (autore di 4 stoppate), Thompson e Iguodala; quando contengono l’uomo e convergono con decisione verso il ferro la difesa dei Warriors ne guadagna in qualità. La lotta ai rimbalzi è in perfetto pareggio sul 45.

Le rotazioni tornano a allungarsi. Vedremo cosa succederà in gara 6, ma almeno per le partite casalinghe il coach si fida con successo della sua second unit.

Nella quinta puntata della miniserie drammatica “Chi marcherà Russel Westbrook?” il mistero s’infittisce. Sulle sue piste torna il più muscolare Klay Thompson. La difesa ha un obiettivo preciso; saggiare dalle prime battute il metro arbitrale – piuttosto permissivo -, poi sfruttarlo al limite per 48 minuti. 

Nella marcatura individuale si smanaccia che è un piacere, ma stavolta i Warriros sono il carnefice e i Thunder la vittima. Curry si prende cura di Roberson ma appena possibile devia su Waiters per evitare di trovarsi invischiato nei pick and roll

Kerr ha riservato un trattamento speciale per il suo miglior realizzatore, gli fa trovare persino le ciabatte riscaldate a bordocampo. L’MVP inscena finalmente una partita all’altezza del suo nome, anche se deve attendere l’ultimo quarto per scatenarsi: 31 punti, 7 rimbalzi, 6 assist e 5 palle rubate.

A 1 minuto e mezzo dalla fine del primo quarto una creatura mitologica è avvistata sul parquet della Oracle Arena. Con Westbrook in panchina, Golden State allestisce una zona box-and-one incentrata su Durant. Billy Donovan però ha fatto scorta di caffeina e ha la soglia di attenzione alle stelle; via le ragnatele da Anthony Morrow per punirla col tiro dall’arco.

Dal nulla, una zona box-and-one

Dal nulla, una zona box-and-one

Se il singolo stratagemma non ha fatto la differenza, la somma degli addendi ha permesso a Golden State di controllare l’andamento del match fin dalla palla a due. Nei primi due quarti l’aria è pesante e sul campo si scivola, sembra innaffiato a tradimento come – si vocifera – il rettangolo verde del Miracolo di Berna

I Thunder tengono botta, mettono anche il naso avanti sul 68-67 uscendo più agguerriti dagli spogliatoi. L’allungo Golden State è un +12 firmato dalla panchina nell’ultimo parziale. Steph Curry lo concretizza dando sfogo all’intero repertorio. Triple, penetrazioni a canestro, tiri liberi, un paio di rubate in guanti di velluto per vincere lo shootout da cartolina con Durant.

Il resto ce lo ha messo Draymond Green. Motivato da un messaggio di Kobe Bryant – pericolosamente avviato alla carriera di guru ora che ha dismesso canotta e pantaloncini -, non è abbastanza lucido da orchestrare il gioco come sa fare ma mette in tavola tutta l’energia assente nelle partite in trasferta. 21 grammi, il peso dell’anima secondo alcuni, l’identità stessa dei Warriors. 

Poco importa che collezioni il quinto fallo tecnico e ne rischi almeno altri due per taunting. Nei playoff i giudizi sono più permissivi che nella regular season; giusto che sia così, nell’epoca della totale trasparenza dell’arbitraggio in NBA? La discussione è aperta.

Billy Donovan ha poco o nulla da rimproverare ai suoi. Steven Adams è il suo uomo chiave ed è costretto alla peggiore partita della serie. I problemi di falli e il duello down under con Bogut lo fiaccano, Serge Ibaka è disattento e nell’ultimo quarto Golden State affonda come un coltello nel pitturato. 

La sua principale preoccupazione alla vigilia di gara 6 sarà rimettere in riga Russell Westbrook; le cifre non lo dicono, sono roboanti come sempre – anche se i 7 turnover puzzano di marcio -, ma stanotte è sceso in campo il gemello malvagio. Quello che di fronte a una porta chiusa carica la spallata anziché cercare la chiave, che s’intestardisce e ingloba il pallone nella propria massa corporea. 

Il terzo quarto è il momento più delicato, con le squadre in parità; la difesa stende il tappeto rosso nel pitturato per poi negargli il ferro e lui cade nella trappola. Non ha lo spunto per aggredire gli spazi prima che le maglie si stringano. Donovan prova a mitigarlo consegnando il pallone a Durant, poi lo manda a schiarirsi le idee in panchina, ma l’occasione del sorpasso è sfumata.

KD è la consueta macchina da canestri e la scelta di Kerr è cristallina. Poca pressione sul perimetro e un lungo che gli mostra le manone protese appena accenna a superare l’uomo. Lo invitano a scegliere la conclusione che preferisce, basta che sia dalla media o lunga distanza. Per uno col suo talento sono tutti ottimi tiri ma le percentuali non brillano. Alla fine è arrivata anche la nottata da 40 punti – con 31 tentativi – e Golden State è sopravvissuta.

Al microfono di un Craig Sager particolarmente psichedelico la voce di Donovan non trema. I suoi possono permettersi di perdere contro una grande squadra che si esprime al meglio, è cruciale che mantengano alta la concentrazione. 

Il finale arrembante, alla caccia dell’improbabile rimonta in zona Cesarini, conferma che il morale dei Thunder è ancora alle stelle in vista di gara 6. Servirà lo stesso cuore visto nelle gare casalinghe, più qualche ora di studio matto e disperatissimo sui nuovi quintetti proposti da Kerr. C’è anche l’opzione small ball, con Ibaka da 5, fruttuosa nell’ultimo confronto ma rimasta inesplorata stanotte.


Dopo la partita più avvincente e equilibrata dell’intera serie, gara 6 non promette nulla di meno. Sarà la più dura della stagione, ammette Steph. Oklahoma City per ribaltare i pronostici, Golden State per l’ennesimo record. Su 232 squadre in svantaggio 3-1, soltanto 9 hanno completato il comeback. Se ci dev’essere una decima, dicono i Warriors, perché non noi?

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