Nel più classico dei testacoda, Oklahoma City riprende in mano l’inerzia con la mattanza di gara 3.

133 punti in una gara di playoff non si vedono tutti i giorni, con un vantaggio che nel secondo tempo ha gravitato intorno ai 40 punti. Basterebbe questo a descrivere il dominio esercitato dai Thunder, eppure la serie non ha ancora preso una direzione precisa.

Finora i due pugili si sono scambiati colpi da KO a viso aperto, per mettere alla prova la potenza del gancio. Nessuno si è rialzato dal tappeto; è tempo di riordinare le idee all’angolo e tenere alta la guardia.

Se invece di uno scontro sul ring la finale della Western Conference fosse una partita a scacchi, Billy Donovan avrebbe i pezzi bianchi.

È lui a muovere per primo. Steve Kerr, fresco coach of the year, cede l’iniziativa al meno titolato collega e si adatta alle sue mosse come un’ombra. Una scelta che fa riflettere, per una squadra che in regular season ha macinato vittorie senza degnare gli avversari di uno sguardo.

La marcatura di Curry su Westbrook, prediletta da Kerr per la versatilità sui cambi, sembra definitivamente accantonata. La priorità è contenere il numero 0 coi centimetri di Klay Thompson mentre l’MVP si parcheggia su Roberson.

Il gioco funziona ma fino a un certo punto, perché lo stesso Roberson porta il blocca sulla palla e Steph finisce di nuovo sotto scacco.

Iguodala, finora il più efficace difensore individuale su Durant, entra presto sul parquet ma anziché guadagnare il suo solito spot da alfiere nel quintetto piccolo subentra a Harrison Barnes, che sembra un cavallo spaurito quando l’ala da Texas lo attacca dal palleggio.

Donovan si arrocca con le due torri e Kerr si adegua, uno tra Bogut, Ezeli e Varejao è sempre in campo. La death lineup fa la sua comparsa per la prima volta con 5 minuti sul cronometro del secondo quarto, quando Steven Adams si siede a controllare lo stato dei gioielli di famiglia dopo il calcetto birichino rifilatogli da Draymond Green. Lui che è nato in una famiglia numerosa, si sarà preoccupato di non poter sfornare tanti piccoli kiwi.

Col solo Ibaka a presenziare nel pitturato i piccoli di Golden State hanno il semaforo verde. Torna Adams, e riecco Ezeli. Il neozelandese commette il terzo fallo e si accomoda in panchina; Kerr scioglie i cani una seconda volta. Un’autentica marcatura a uomo.

La partita, intanto, ha già preso la strada dell’Oklahoma. I Warriors le provano tutte per innescare il pace and space che li ha resi grandi, Curry e Thompson partono sul piede di guerra e schizzano in contropiede, ma la difesa dei Thunder è precisa e cattiva.

Soltanto due punti in campo aperto per Golden State nei primi due quarti e altrettanti viaggi in lunetta, mentre dall’altra parte Durant e Westbrook assaltano il ferro.

Persino Ibaka si è messo il vestito delle grandi occasioni, nonostante in attacco continui a fare il palo; più minuti e responsabilità per il congolese, preferito a Kanter perché ha piedi veloci per seguire i piccoli sul perimetro.

Dion Waiters taglia la difesa e smazza assist con insospettabile lucidità, la migliore prestazione a coronamento di tre serie playoff di grande sostanza. Sembrano lontani i tempi della Waiters’ Island, una sorta di triangolo delle Bermuda dove la palla spariva per poi materializzarsi stampata sul ferro: forse Billy Donovan ci aveva visto giusto quando, a inizio stagione, lo etichettava come suo playmaker aggiunto.

Si è accorto che Golden State vuole forzargli la mano e rendere Oklahoma City una squadra di passatori, loro che sono gli ultimi della lega per passaggi effettuati. Il dato che manca all’equazione di Kerr, però, è che al tempo stesso sono tra i passatori più efficaci. Le mani buone di Dion Waiters cadono a fagiolo; basta educarlo a fare la cosa giusta.

Questi Thunder hanno l’affascinante capacità di adattarsi a ritmo degli avversari. Se i Warriors, alla ricerca disperata del proprio, accelerano, loro hanno le energie per superarli in resistenza. Finisce il secondo quarto e Golden State finisce anche il fiato, si disunisce in difese approssimative e tiri avventati. 72 a 47, così recita il tabellino all’intervallo.

Vero che Golden State è la squadra dei record, ma se il massimo svantaggio mai recuperato in una partita di playoff è di 21 punti ci sarà un motivo. Il parziale s’ingrossa ancora nel terzo quarto e Steve Kerr non può far altro che cedere le armi e pensare a gara 4. I suoi non hanno mai perso due confronti consecutivi in stagione; adesso sono obbligati a evitarlo, o concederanno il match point a Oklahoma City.

e in gara 2 la franchigia di Oakland aveva convinto su tutti i fronti, stanotte ha mostrato la sua faccia da Mister Hyde. Pigra, incapace di reagire se schiacciata e di deviare dal game plan.

L’uomo che dovrebbe dare la scossa emotiva in casi come questi, Draymond Green, appare pericolosamente vicino a una crisi di nervi. Lui si professa innocente, ma ha rischiato grosso mirando alle parti basse di Steven Adams e il suo caso è ancora sotto inchiesta.

A coach Kerr l’arduo compito di rimetterlo in riga, attingendo magari dall’arsenale di tecniche zen che avrà appreso da Phil Jackson. Senza il lungo da Michigan State a dare l’esempio i compagni sembrano sfiduciati, e se vengono sovrastati in energia i Thunder hanno campo libero per sfruttare i propri vantaggi tattici. Westbrook ha azzeccato la partita giusta stanotte, buono l’accorgimento di Donovan che fa nascondere i lunghi sulla linea di fondo per punire le puntuali chiusure nel pitturato.

Deve comunque sudarsi ogni canestro e gioca sul filo de rasoio. Il vero problema per la difesa Warriors ha il mirino già puntato e gli occhi della tigre, e si chiama Kevin Durant. Stanotte si sono visti tanti minuti di single coverage di Iguodala e qualche raddoppio più tempestivo del solito a centro area, eppure KD continua a giocare senza pressione, a selezionare tempi e modi dell’attacco secondo il suo gusto.

33 punti nel suo tabellino, di cui 23 nel solo primo tempo, con una gragnuola di tiri liberi e percentuali sontuose. Se esce dalla partita è solo perché Westbrook abbassa la testa e si mangia il pallone. Tutte le condizioni per una prestazione da 40 o 50 punti, qualora necessaria, sembrano soddisfatte con l’affidabilità di un teorema.

Serve un eccellente allenatore, e sicuramente Steve Kerr lo è, per individuare il terzo uomo più importante dei Thunder prima che sia troppo tardi. Per quanto strano a dirsi, come nella serie vittoriosa contro gli Spurs la chiave di volta è Steven Adams. In breve tempo il neozelandese è asceso nella cerchia delle utility più invidiate della lega, un coltellino svizzero che da solo vieta a Golden State il mortifero quintetto piccolo.

Ha il senso della posizione per uscire sul perimetro e sprintare a difendere il ferro, ha mani educate per concludere in attacco e realizzare i liberi, fa perdere il senno a Draymond Green perché gioca ruvido, al pari suo, ma non reagisce alle provocazioni. Le liquida con la flemma di uno che, con diciassette fratelli più grandi – tutta gente sui due metri -, è cresciuto subendo ben altro genere di prepotenze. Tutt’altra cosa è disinnescarlo, metterne a nudo i difetti.

Steven Adams is not impressed

Steven Adams is not impressed

È lecito aspettarsi qualcosa di più dal coach of the year, qualche soluzione più audace delle rotazioni lunghe snocciolate nelle ultime due sfide.

Nelle ultime Finals, ad esempio, impose la versatilità del quintetto piccolo sul tentacolare Tristan Thompson e il massiccio Timofey Mozgov, anche se quei Cavs incerottati finirono col motore in panne.

Difficilmente sarà il carneade Ian Clark a fargli vincere la serie, e nemmeno una rischiosa gara a chi versa più sudore sul parquet.

Una prestazione leggendaria di Steph Curry è profezia fin troppo facile, due rimetterebbero le cose a posto, ma potrebbero non bastare contro il dinamico duo dal grilletto facile in maglia Thunder. Se i Warrios sono la squadra migliore, questo è il momento di mostrarlo.

One thought on “Dominio Thunder e serie sul 2-1

  1. Nota a margine: il fallo di Draymond Green è stato portato a flagrant 2, ma nessuna squalifica per lui. L’ha fatta franca per un pelo, considerando il diverso trattamento riservato a Dahntay Jones il giorno prima.

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