Gli Spurs sono fuori dai playoff.

Gli Spurs potrebbero aver chiuso un ciclo. E forse per la prima volta queste parole potrebbero trovare un fondo di verità; il sempre molto discusso “Ultimo Rodeo” potrebbe davvero essersi concluso.

Questa giocata sul finire di Gara-6 potrebbe è un’istantanea della – forse – resa finale dell’ultima grande Dinasty della NBA contemporanea.

 

 

Gli Spurs provano una rimonta disperata e sembrano pure poter tornare vicini, ma questa stoppata di Ibaka pone fine alle speranze nero-argento. Non è solo una grande giocata difensiva, è un manifesto idealista della fine – forse – di un’era. La faccia di Duncan è… la stessa di sempre.

Potrebbe essere la sua ultima partita. Popovich lo sa e lo tiene in campo praticamente tutto il secondo tempo. Ad inizio quarto quarto i due parlano per qualche secondo. Un giornalista nel post partita prova a scoprire il contenuto di quel ultimo – forse – conciliabolo. Respinto con perdite.

In una serata in cui tutti cercano di capire se davvero siamo davanti ad un pezzo di Storia, gli Spurs… fanno gli Spurs. Sconfitta e conseguente eliminazione, ma nessuna esternazione emozionale, nessun proclamo, nonostante i possibili ritiri di Duncan e Ginobili, un altro a cui la franchigia deve gran parte dei cinque titoli vinti.

Come sempre è tutto avvolto in una sorta di ovatta mistica che rende la franchigia texana la più impenetrabile dello sport professionistico americano. Ma l’eliminazione per mano dei Thunder però è arrivata quantomeno inaspettata.

 

Gli Spurs avevano chiuso la miglior regular season nella storia della franchigia (67-15), nonché una delle migliori di sempre. Avevano eguagliando il record casalingo dei Celtics della stagione ’85-’86 con 40 vittorie ed una sconfitta, patita contro una Golden State frantumatrice di ogni record e con la quale tutto il Mondo si aspettava una Finale di Conference leggendaria.

Invece gli Spurs sono crollati in semifinale, dicendo addio alle speranze di titolo e – forse – a Duncan e Ginobili. Per capire il perché l’eliminazione ‘anticipata’ abbia fatto tanto clamore bisogna tornare indietro di un anno.

Al termine di sette tiratissime partite i Clippers si aggiudicano il primo turno dei playoff 2014/15, eliminando i finalisti NBA dei due anni precedenti, nonché campioni in carica, dei San Antonio Spurs. L’era Duncan sembra finita tanto che molti quasi si augurano che sia stato l’ultimo atto di uno dei giocatori più forti della storia del Gioco. Ma Duncan ritorna, e con lui la certezza che gli Spurs sono ben lontani dall’aver finito.

Nell’era-Popovich gli Spurs hanno saputo costruire nuovi roster senza la necessità di dover compromettere la struttura esistente, rappresentando una vera e propria anomalia del sistema su cui è basata la NBA. Tra vari i capolavori del General Manager R.C Buford, che annovera nel suo curriculum cose tipo scegliere Ginobili con la scelta numero 57 – sulle sessanta totali, quello della scorsa estate è sicuramente il più prestigioso.

 

 

Buford non solo si è assicurato la firma LaMarcus Aldridge, pezzo pregiato della passata free agency, dopo i rinnovi fondamentali di Green e Leonard, ma ha anche convinto un veterano come David West ha rinunciare a UNDICI milioni di dollari piuttosto di avere maggiori chance di vincere il titolo e scambiato con gli Atlanta Hawks il pesante contratto di Thiago Splitter in cambio di NIENTE. Un capolavoro che ha permesso a lui di aggiudicarsi il premio come Executive Of the Year per la seconda volta negli ultimi tre anni e agli Spurs di avere uno dei roster più completi e profondi della Lega.

Risultato: San Antonio ha dominato in lungo e in largo permettendosi di ruotare i giocatori, misurandone il minutaggio e garantendo ad Aldridge di inserirsi gradualmente nel sistema-Spurs. Popovich ed i suoi assistenti hanno cucito con precisione certosina la squadra attorno all’ex giocatore dei Blazers abbassando ulteriormente il PACE (95.72, quintultimo della Lega) e costruendo un attacco a metà campo basato su situazioni di post e gomito, privilegiando particolarmente i tiri dal Mid-Range (42.5% su oltre 26 tentati, secondi solo ai Thunder tra quelli con almeno 20 tentativi, ma con ben sei tiri in più), il pezzo forte del repertorio di Aldridge.

Il risultato è stato formidabile visto che gli Spurs hanno chiuso la regular season con il 108.4 di OffRtg – terzo della Lega – oltre ad una serie di statistiche complessivamente incredibili, e nonostante la rivisitazione di alcuni principi offensivi, i tanto preziosi concetti di Spacing & Timing e di Good to Great sono rimasti invariati, specialmente quando in campo c’era la second-unit composta da Mills-Ginobili-Diaw. I risultati sono sempre guardabili.

 

 

Il pezzo forte però è stata senza dubbio la metà campo difensiva dove gli Spurs hanno chiuso la regular season con un clamoroso 96.6 di DefRtg, costruendo una delle migliori difese della Lega degli ultimi 10-15 anni dove automatismi perfetti e il graduale adeguamento del versatile Aldridge sono andati a sommarsi al solito totem-Duncan – con lui in campo il DefRtg scende addirittura sotto i 94 punti – e soprattutto al miglior difensore della Lega back-to-back nonché futuro (e presente) della franchigia e altro frutto dell’irripetibile allineamento cosmico texano, Kawhi Leonard.

Leonard però ha fatto molto di più, e dopo i progressi dello scorso anno è letteralmente esploso, giocando una stagione clamorosa. In un anno è passato dal 35% scarso al 44.3% da tre. Irreale. Ma il miglioramento del jump-shot, dove adesso è in grado di costruirsi un tiro anche dal palleggio ogni volta che vuole, aggiunge una fisicità ed una pulizia tecnica disarmante che gli ha permesso di chiudere ben oltre i 20 punti segnati di media.

Secondo nella classifica per il premio di MVP (assegnato per la prima volta all’unanimità) ed emanando un’aura di sicurezza e di assoluta imperscrutabilità e totale assenza di qualsiasi emotività o debolezza esterna. Se credete che si tratti dell’ennesima coincidenza e che queste cose succedano soltanto sulle rive dell’Alamo per puro caso farete meglio a smetterla, anche se nel frattempo la CIA ringrazia.

 

 

L’attesissima sfida contro Golden State sembrava solo questione di giorni ma San Antonio, dopo un warm-up leggero contro gli incerottatissimi Memphis Griezzlies, si è arresa agli Oklahoma City Thunder.

Le due squadre si erano già affrontate nel 2012 (vittoria Thunder 4-2) e nel 2014 (Spurs in sei) ed in entrambe le serie i Thunder avevano dimostrato di poter mettere in grande difficoltà gli Spurs grazie ad una fisicità scomoda e la presenza di due grandissimi talenti come Westbrook e Durant. Quest’anno tutti pensavano ad una storia diversa e anche Gara-1, dominata dagli Spurs 124-92, sembrava confermare le previsioni. Ma già dall’inizio della seconda partita qualcosa ha iniziato a scricchiolare negli Spurs e la vittoria dei Thunder 98-97, seppur arrivata in un finale molto discusso, ha dato inizio ad un lento ma inevitabile declino.

Il maggiore atletismo dei Thunder è stato il fattore più evidente. Escludendo la non-giudicabile prima partita i Thunder hanno alternato attacco a metà campo con transizioni offensive mortali, derivate dalla dominazione sotto i tabelloni con quasi 13 rimbalzi catturati in più degli avversari. E tredici sono anche il numero dei rimbalzi offensivi presi in media da Oklahoma, con la coppia Kanter-Adams che ha cambiato la serie. Con loro in campo, più Westbrook-Waiters-Durant, i Thunder hanno fatto registrare un 129.3 di OffRtg (24.4 di NetRtg) semplicemente impossibile da sostenere per i nero-argento.

Gli Spurs non sono stati in grado di sfruttare le lacune difensive del centro turco, grazie anche agli efficaci aggiustamenti di Donovan nel corso della serie. Il pick-and-pop che era stato letale nelle prime due gare si è trasformato in ricezioni statiche di Aldridge in post basso, senza muovere la difesa di OKC e dove Kanter è un difensore competente, e la difesa aveva il tempo di ruotare ed aiutare. E ad eccezione del clamoroso 15-21 del centro texano nella seconda gara i dividendi sono stati proficui.

 

 

Ma il grande problema per San Antonio è stato senza dubbio Steven Adams. Il centro neozelandese (1993) ha chiuso con il miglior DefRtg (102.3 contro gli oltre 104 punti di media di squadra) e NetRtg (6.6) tra quelli ad aver giocato almeno venti minuti, chiudendo l’area (gli Spurs hanno tirato il 44% dentro l’area contro di lui) e dominando a rimbalzo. E nella metà campo offensiva è stato ancora più decisivo, se possibile, rendendo il pick-and-roll con Westbrook, con la difesa completamente concentrata sul numero zero, un rebus irrisolvibile per gli Spurs.

 

 

Adams è stato letale anche nel punire i raddoppi sistematici su Durant e/o Westbrook rollando e/o tagliando con determinazione verso il ferro e sfruttando la libertà che Popovich era disposto a lasciargli piuttosto di mettere pressione sulle due stelle principali dei Thunder.

 

 

Infine le grandi prestazioni di Durant in Gara-4 e di Westbrook in Gara-5 hanno dimostrato – se ce ne fosse ancora bisogno – che se sani sono pressoché impossibili da fermare e compongono una delle coppie più forti della NBA contemporanea e forse di sempre.

Gli Spurs hanno insistito troppo sul cercare Aldridge, affidandosi al suo gioco in post senza muovere la difesa o ribaltare il lato. Parker – ad eccezione di due buone gare – ha continuato il lento ma inesorabile declino degli ultimi due anni. Ginobili è apparso sovrastato dalla maggiore fisicità dei giocatori di OKC e Danny Green, la cui presenza in campo era fondamentale difensivamente, non ha inciso nonostante una mano leggermente ritrovata.

Anche Duncan infine, nonostante difensivamente sia stato uno dei migliori, ha faticato tremendamente in attacco, con Adams che poteva permettersi di staccarsi da lui recuperando in caso di ricezione del caraibico.

L’unica nota positiva è la conferma che Leonard è il vero Franchise Player e anche in questa serie di playoff ha dimostrato di essere un giocatore unico su due lati del campo. Ha difeso al meglio contro chiunque Popovich lo accoppiasse cercando di catturare letteralmente ogni pallone e in attacco è stato l’unico a non risentire dei muscoli dei Thunder.

 

 

Non è bastato e per gli Spurs la stagione si è chiusa come si era aperta: con una sconfitta sul campo di Oklahoma. San Antonio adesso è attesa da un’estate delicata. Duncan e Ginobili potrebbero aver giocato la loro ultima stagione sull’Alamo – forse. Ed oltre alle due caselle vuote da riempire si aggiungerebbe la consapevolezza che un’era è giunta al termine.

Questo però dovrebbe spaventare poco i tifosi visto il grandissimo lavoro di costruzione svolto negli anni. Parker, Green, Aldridge e soprattutto Leonard faranno parte del core anche nel prossimo anno e soprattutto i 24 anni di quest’ultimo garantiscono un futuro ancora da protagonisti.

Gli scenari possibili sono dei più disparati e la free agency avrà nomi importanti al suo interno (Durant su tutti), ma occorre ricordare che gli Spurs, anche in caso di ritiro sia di Duncan che di Ginobili e nonostante l’innalzamento del salary capavrebbero poco margine di manovra.

 

 

A questi andrebbero aggiunti anche i casi West (player option, in caso di ritiro Duncan potrebbe decidere di uscire dal contratto) Diaw (parzialmente garantito e possibile indiziato a lasciare l’Alamo) Marjanovic (qualifying offer) e Simmons, anche lui contratto non garantito ma in questo caso difficilmente gli Spurs lo lasceranno partire. Popovich ha espresso la necessità di ringiovanire la panchina, aggiungendo energia ed atletismo e Simmons, insieme ad Anderson, hanno fatto dimostrato di poter rientrare in questo contesto.

Tanti nomi sono già stati accostati agli Spurs, da Pau Gasol a Horford, da Conley allo stesso Durant che ha messo fine alle speranze di titoli della squadra di Popovich. Tutte firme possibili, anche se negli ultimi tre casi le manovre necessarie per creare lo spazio salariale porterebbero a scelte difficili e il dover rinunciare alla lunghezza del roster. Ma di nomi ce ne sono molti altri e negli anni abbiamo imparato visto Buford e Popovich avere sempre qualche asso nella manica.

Nessuno meglio degli Spurs sa come restare al top seppur cambiando uomini o modo di giocare e se davvero la Dinastia Duncan dovesse essere finita quella dei Leonard, Aldridge e chissà altri è già iniziata. Il monolite nero-argento continuerà a rappresentare una certezza di competitività anche negli anni avvenire e dimostrando ancora una volta che quello che tutti continuano a definire “Ultimo Rodeo” non è che il primo di una nuova lunga serie.

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