Il posto di lavoro di un allenatore NBA non è mai veramente saldo; non può esserlo perché, a dispetto di tanti discorsi sulla “continuità” che si sentono, è un mestiere legato a doppio filo ai risultati e alla soddisfazione dei giocatori che contano, ed è sempre il primo a pagare lo scotto di ogni imprevisto, dagli infortuni alle dabbenaggini dei GM.

Allenare in NBA è mestiere durissimo, adatto solo a chi ha la pelle dura, una passione per il proprio lavoro che sfiora l’abnegazione e una spiccata capacità a gestire le dinamiche di gruppo tra le mura dello spogliatoio come in direzione dei media, siano essi social o della carta stampata.

Quando, nel 1997, Larry Bird divenne allenatore dei Pacers, si disse convinto che un head-coach non potesse durare sulla stessa panchina più di tre anni. Larry indicò il triennio come termine oltre il quale il rapporto coach-gruppo si logora e le sue parole non hanno più presa, e così, fedele alle proprie convinzioni, dopo aver condotto Indiana alla prima Finale NBA della storia di franchigia nel 2000, Bird fece un passo indietro (motivato anche dalle condizioni in cui versava il suo cuore).

Recentemente, Larry Joe Bird ha ricordato i suoi trascorsi da (immenso) giocatore, quando il suo maestro Red Auerbach licenziò coach Bill Fitch dopo tre anni; in seguito i Celtics fecero bene con K.C. Jones, ma quando quest’ultimo venne licenziato (reo di aver mancato la quinta finale consecutiva, fermandosi alle ECF) e sostituito da Jimmy Rodgers, i Celtics (complice il declino del gruppo e di Bird in primis) non passarono neppure il primo turno.

Quella di Larry Legend è una concezione pragmatica del mestiere d’allenatore, che va trattata con rispetto (in fondo, ha detto la stessa cosa Pep Guardiola lasciando il Barcellona), ma è evidente che non si tratta di una regola dello sport, basti pensare alla durata della gestione di Jerry Sloan a Utah, oppure a quella di Gregg Popovich a San Antonio, o ancora, al regno di Phil Jackson a Chicago e di Spoelstra e Carlisle, rispettivamente a Miami e Dallas da otto anni.

Cambiare allenatore può essere la soluzione, ma non è affatto detto che debba sempre essere la soluzione. È capitato che i Detroit Pistons vincessero il titolo con Larry Brown, dopo aver dato il benservito a Rick Carlisle (che tra l’altro formava insieme a Dick Harter lo staff di Bird ai tempi di Indiana). Può anche non andare altrettanto bene, e trovarsi come i Chicago Bulls, che dopo aver cacciato Tom Thibodeau, si sono ritrovati fuori dai Playoffs, con tanti saluti al “bel gioco” vagheggiato a luglio.

Frank Paul Vogel non è mai stato la prima scelta dell’uomo da French Lick; i due provengono da background cestistici troppo diversi per capirsi fino in fondo e infatti non si sono mai realmente trovati sulla stessa pagina tecnica, tanto che il licenziamento era parso nell’aria anche al termine della passata stagione, quando, per la verità, i risultati di squadra avrebbero reso meno controversa questa mossa.

Dopo la sconfitta in Gara 7 contro i Raptors, il contratto di Vogel non è stato rinnovato, rendendolo di fatto un free agent (Bird non l’ha incontrato, comunicandoglielo per telefono). Con un record di 431 vinte e 250 perse, Vogel è quel che si definisce un allenatore molto rispettato, e, appena saputo che era libero, lo hanno cercato i Memphis Grizzlies (che hanno licenziato Dave Joerger) e persino i New York Knicks –se può sembrare sorprendente che lo Zen Master assuma un coach non adepto al Triangolo, va detto che Vogel ha lavorato per i Lakers nel 2006 come scout, e che ai Pacers aveva come assistente Brian Shaw.

Secondo quanto detto da Lonnie Cooper (l’agente di Vogel) ci sono altre squadre che dovrebbero mettersi sulle tracce del coach più vincente della storia dei Pacers: gli Houston Rockets (sarebbero adattissimi) e i Sacramento Kings (che ogni anno sembrano ripartire da zero); insomma, Frank dovrebbe trovare una nuova panchina in tempi brevi, e a cifre certamente molto più alte rispetto al contratto precedente, che lo pagava 2.5 milioni a stagione.

Nell’ultimo anno il quarantaduenne di Wildwood (NJ) ha cambiato modo di allenare, convertendosi a un basket con quattro esterni, veloce e leggero, e per giunta, ha conquistato una qualificazione ai Playoffs nient’affatto scontata. Evidentemente però, non è riuscito a far cambiare idea a Larry Bird, l’unico bipede ad aver vinto sia l’MVP che il premio di Allenatore dell’Anno, e come tale, abituato a collocare piuttosto in alto l’asticella delle attese.

Larry è sempre stato, da giocatore, un tipo assai diretto, duro e intransigente. È stato fantastico nel mascherare questa suo furore agonistico quando allenava ragazzi che non avevano proprio la stessa testa (vedi Jalen Rose), e da Presidente e GM ha palesato indiscutibili pregi (è stato anche Executive of the Year nel 2012), raccogliendo l’eredità di Donnie Walsh prima, quando al primo tentativo da Presidente portò i Pacers ad un record da 61-21 e alle Finali di Conference, e poi, quando contribuì a costruire la squadra di Danny Granger e Roy Hibbert.

Allo stesso tempo però, gli è sempre mancato il centesimo per fare una lira (leggi: vincere il titolo). Lo squadrone di Jermaine O’Neal, Ron Artest, Stephen Jackson e Jeff Foster andò in pezzi ad Auburn Hills, mentre i Pacers di Hibbert, George, Lance Stephenson e David West, incontrarono sulla loro strada una corazzata come gli Heat di LeBron James.

Bird si è affidato a Frank Vogel senza mai crederci fino in fondo (ironia della sorte, lo nominò Head-Coach per sostituire Jim O’Brien, il cui stile up-tempo non dava frutti), nonostante Vogel abbia costantemente portato a casa il risultato, pur senza mai centrare il bersagli grosso. Così, dopo anni di eccellente gestione, è tornata alla ribalta la storia dell’allenatore che non può durare più di tot anni, e ora staremo a vedere se Bird ha un piano preciso per la successione.

Quel che è certo è che l’ex 33 biancoverde vorrebbe veder giocare la squadra in tutt’altro modo, ma Vogel aveva a disposizione il personale adatto a farlo? Larry Legend pensa che Paul George debba giocare da stretch-four, mentre Vogel ha preferito un approccio più cauto, vuoi perché PG13 (che stravede per il suo vecchio allenatore) rientrava da un infortunio grave, vuoi perché, in fondo, i risultati sono arrivati anche con uno schieramento più tradizionale, che ha consentito di dare gradualmente spazio al promettente Myles Turner.

Frank Vogel è stato capace di trarre il massimo da Roy Hibbert e Lance Stephenson (due che altrove non hanno proprio fatto benissimo), da C.J. Miles e da Ian Mahimi; siamo così sicuri che il suo successore, di là dallo schieramento scelto, saprà fare altrettanto? Il rischio, come detto, è di bissare l’insuccesso dei Bulls con Fred Hoiberg, e a quel punto a essere messo in discussione sarà proprio Bird.

Per quanto la motivazione fornita al pubblico suoni un po’ forzata, Larry Bird ha ogni diritto di cambiare, e in fondo, conosce i bisbigli pronunciati nei meandri della Bankers Life Fieldhouse meglio di qualunque giornalista “insider”, e può darsi che la sua decisione paghi dividendi, tanto più che, come Bird stesso ha sottolineato, la posizione di head-coach dei Pacers attirerà numerosi candidati d’alto profilo, vuoi per i 30 milioni disponibili sulla free agency, vuoi per la presenza di un’organizzazione solida, e soprattutto, perché ad Indianapolis giocano Paul George e Myles Turner.

Un po’ di nomi?

Difficile non partire da Mark Jackson, fermo da due anni e generale in campo di Bird ai tempi dei Pacers. Jackson ha costruito i Warriors degli Splash Brothers, ma per la verità il reverendo è l’opposto dell’allenatore offensivo che Indiana sta cercando, e il confronto con Steve Kerr non fa altro che esacerbare quest’impressione. La sua è una menzione d’obbligo per via della storia che condivide con questa franchigia, niente di più.

Un altro allenatore che ha un passato al fianco di Bird è Brian Shaw, suo compagno ai tempi dei Boston Celtics per tre stagioni (prima di passare al Messaggero Roma), che come detto è già stato assistente ai Pacers. Viene da un’esperienza negativa ai Denver Nuggets (che però, non sono proprio un esempio di gestione illuminata) ma ad Indianapolis, dove tutti ricordano l’abilità con la quale fece da mentore a Lance Stephenson, ha lasciato ottimi ricordi.

Esistono altre candidature deboli, come Nate McMillian, Mike Woodson, Randy Wittman, ma è praticamente impossibile che Larry Bird si orienti su uno di questi nomi. McMillian verrà quasi certamente sentito, se non altro per cortesia visto che è un assistente dei Pacers, ma sono tre anni che non allena e non ha mai impressionato più di tanto (fatto salvo che ai Sonics). Woodson sarebbe una scelta piuttosto mediocre, e Wittman, pur bravo, è stato appena cacciato dai Wizards proprio per non essere riuscito a riconvertire Washington in una squadra con quattro esterni.

Infine, esiste la possibilità che Indiana scelta un assistente allenatore alla prima esperienza, come Stephen Silas (Hornets), Sean Sweeney dei Bucks, che è però più che altro un eccellente specialista difensivo, oppure Chris Finch, dei Rockets, che si adatta molto bene al profilo di coach offensivo inseguito da Bird, con le sue idee sul tiro da tre e sulla velocità d’esecuzione.

Se parliamo di allenatori bravi con l’attacco, va citato Mike D’Antoni, che dopo la sua fallimentare esperienza ai Los Angeles Lakers, ha concluso il 2015-16 facendo l’Associate Head-Coach con Brett Brown ai Sixiers. Non ha una rete di rapporti in comune con Bird o Pritchard, ma se l’idea è di orientarsi su di un basket più simile a Golden State, potrebbe essere una buona idea affidarsi a uno dei suoi ispiratori.

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