Dopo anni di tanking piĂą o meno dichiarato, i Los Angeles Lakers ripartiranno da Luke Walton. 

L’addio di Byron Scott, reduce da 38 vittorie in due stagioni, era abbastanza scontato, per quanto il GM, Mitch Kupchak, si fosse speso a difenderne l’operato nel corso delle exit-interview. Sui giornali locali e nazionali era scattato il solito toto-nomi (Kevin Ollie Jeff Van Gundy, senza dimenticare l’immancabile Calipari e il nostro Ettore Messina), ma Los Angeles è andata senza indugi sull’ex numero 4 gialloviola.

Nonostante diverrà il più giovane allenatore NBA di tutti i tempi, Walton è per certi versi la scelta più sicura. Luke è un ex giocatore NBA, ha vinto due titoli, ed è americano. Sono fattori che non influiscono più di tanto sulla preparazione tecnica di un coach, ma lo rendono “vendibile” ai giocatori, che si fidano di più di un allenatore con i loro stessi trascorsi, che conosce il “giro” e le sue regole.

Walton ha disputato nove stagioni in gialloviola, sperimentando esclusioni e momenti esaltanti, Finali NBA (ne ha giocate 4, vincendone la metà) e campagne fallimentari, le gioie del “contrattone” e la delusione dello scambio (in direzione Cleveland, dove ha chiuso la propria carriera).

Luke è figlio di Bill Walton, leggendario centro dei Portland Trail Blazers, con i quali vinse l’anello e l’MVP delle Finali nel 1977, e che l’anno successivo fu MVP della stagione regolare. 

 Californiano doc (nato a La Mesa, ha contribuito a costruire il mito di UCLA) e fricchettone della prima ora, il grande Bill incappò in una serie d’infortuni che ne hanno limitato la carriera, finendo ai San Diego Clippers (dov’è nato e cresciuto Luke) e infine ai Celtics, dove si riciclò da sesto uomo di lusso alle spalle di Robert Parish, vincendo anche il suo secondo titolo nel 1986.

Luke ha imparato a giocare a basket in cortile con suo padre e i suoi amici (come Larry Bird, hai detto niente!) e i fratelli (il tatuaggio che ha sul braccio rappresenta loro quattro in versione scheletri dei Grateful Dead, gruppo dei quali è appassionatissimo) in un contesto familiare aperto a mille influenze che ne hanno forgiato il carattere, al contempo rilassato e competitivo, così simile a Steve Kerr da renderli due perfetti partner in crime nel compilare il miglior record di tutti i tempi, quel 73-9 che, con ogni probabilità, ci terrà compagnia a lungo.

Pur senza essere un talento comparabile a suo padre, Luke era un’ottima mente cestistica già quando calcava i parquet; capace di leggere il gioco con intelligenza e di passare benissimo la palla, Walton si è ricavato un ruolo da gel-player, quel tipo di cestista che magari non fa nulla di esaltante, ma aiuta la squadra a rendere di più, e che è importantissimo in ogni squadra che si rispetti.

Ad Arizona, agli ordini di un mito delle panchine NCAA come Lute Olson, si ricavò una nicchia importante, facendosi conoscere in veste di point-forward, accedendo al draft 2003 (quello dei LeBron, Carmelo, Wade, Bosh e compagnia, mentre Walton finì trentaduesimo) con la nomea di bravo ragazzo e uomo-spogliatoio, caratteristiche che poi ha mantenuto in tutta la sua carriera.

Passò il primo anno saldamente ancorato in panchina, mentre sul parquet dello Staples evoluiva lo squadrone di Shaq, Kobe, Malone e Payton. Luke riuscì però a mettersi in luce nel corso di Gara 2 di Finale (l’unica che i Lakers vinsero prima di soccombere 1-4 ai Pistons di Billups e Rasheed), quando mise a referto 7 punti, 5 rimbalzi e 8 assist. Al secondo anno, trovò poco spazio con Rudy Tomjanovich, per il quale non era sufficientemente tiratore, fino a sbocciare quando Phil Jackson e il suo Attacco Triangolo fecero ritorno in riva al Pacifico.

Senza mai diventare nulla più che un comprimario, Walton raggiunse addirittura il quintetto (poi perso in favore di Vladimir Radmanovic e di Trevor Ariza), specializzandosi da “ala passatrice”, inventandosi anche un marchio di fabbrica, l’assist servito tra le gambe del difensore, diventando una delle figure più popolari all’interno dello spogliatoio angeleno di quegli anni (e non solo, visto che si guadagnò anche il dubbio privilegio di avere una stalker personale!).

Quando i Lakers tornarono a giocare per l’argenteria, il suo ruolo si ridusse, e iniziarono i problemi alla schiena, così Jackson lo cooptò informalmente nel coaching staff, insegnandogli i primi rudimenti del mestiere. 

Bryant lo prendeva in giro, dicendogli che era il “nuovo Phil Jackson”, ma forse Jax si riconobbe veramente in questo ragazzo brillante, messo ai margini di una squadra da titolo a causa degli infortuni, un po’ com’era capitato a lui nel 1970, quando iniziò a studiare le dinamiche dei Knicks e i metodi del suo adorato allenatore, Red Holzman, finendo addirittura col pubblicare un libro fotografico su quella stagione.

Quando Jim Buss spedì Walton a Cleveland in cambio di Ramon Sessions (2012), Luke disputò un biennio in maglia Cavs, e poi decise che era giunto il momento di appendere gli scarpini al chiodo, e iniziare la sua seconda carriera da allenatore. 

Già durante il lockout del 2011, era entrato a far parte dello staff tecnico dell’Università di Memphis per quattro mesi, intraprendendo un percorso tecnico che, nel giro di 5 anni (incluso un biennio con i Los Angeles D-Fenders, e altre due stagioni sulla baia di San Francisco), l’ha portato sulla panchina dei Los Angeles Lakers.

Complici i problemi alla schiena di coach Steve Kerr, Walton ha iniziato il 2015-16 fungendo da capo-allenatore della squadra campione NBA, mettendo a referto un clamoroso bilancio di 39-4 che non farà mai parte del suo curriculum ufficiale (sono vittorie che, per regola, spettano a Kerr) ma che di certo ha contribuito a concentrare su di lui l’attenzione di tanti GM in cerca di un nuovo head-coach.

Per la modalità con la quale è avvenuta, la firma di Luke Theodore Walton è stata soprendente; a quanto ci è dato sapere, Walton è l’unico candidato con il quale Jim Buss e Mitch Kupchak si sono incontrati di persona, restando a parlare con lui per ben sei ore, spaziando dalle strategie tattiche alle scelte di mercato future.

Forse ha giocato un ruolo anche la firma di Tom Thibodeau a Minneapolis. Fonti vicine ai Lakers hanno sostenuto che Thibs non fosse uno dei primi obiettivi della dirigenza di El Segundo, ma è chiaro che l’assottigliarsi della rosa di papabili invitava a procedere con una certa sollecitudine.

Allo stesso tempo però, una scelta così veloce ci dice che Walton è davvero piaciuto molto a Buss e Kupchak, che, quando si trattò di assumere Byron Scott, esitarono invece per settimane. Dal punto di vista dei rapporti umani, Scott e Walton sono letteralmente agli antipodi. Il pretoriano di Pat Riley ha sempre allenato come faceva Riles al suo peggio, e cioè con pugno di ferro, sempre e comunque.

Luke Walton è un discepolo eterodosso di Phil Jackson, che lo avrebbe voluto nello staff di Derek Fisher ai New York Knicks, e poi ne caldeggiò l’ingaggio a Steve Kerr, che si era appena insediato ad Oakland. Di lĂ  dal Triangolo, la lezione che Walton ha appreso da Jax e da Kerr, è che il compito di un allenatore consiste nell’aiutare il gruppo a trovare una via per il successo, anzichĂ© mettersi a fare l’imitazione del Sergente Hartman, calando diktat dall’alto.

Scelto l’allenatore, resta da stabilire che squadra gli verrà affidata: i Lakers hanno il 55.8% di chance di conservare la loro scelta al draft (dovesse uscire dalle prime tre, passerà automaticamente ai Sixiers), e avranno qualcosa come sessanta milioni di spazio salariale, ma vengono pur sempre dalla peggior campagna della loro gloriosa storia.

Los Angeles farà sicuramente un tentativo con Kevin Durant, ma, francamente, che senso avrebbe, a ventotto anni, abbandonare OKC perché non si vince, e scegliersi come destinazione i Lakers reduci dalle due peggiori stagioni nella storia della franchigia?

Pare che ad El Segundo l’attenzione si sia spostata piuttosto su giocatori come Harrison Barnes e Festus Ezeli (non a caso provenienti da G-State), certamente più abbordabili, e funzionali ad una crescita graduale, anziché ad improbabili exploit da titolo NBA nel giro di una stagione.
Allo stato dell’arte, è impossibile prefigurare come giocheranno i Los Angeles Lakers di Luke Walton (che ritroverĂ  Tarick Black, suo giocatore ai tempi di Memphis): dovremo prima scoprire se i Lakers avranno in squadra la loro prima scelta, e come si muoveranno durante il mercato, e questo solo per avere un’idea del tipo di roster che porteranno al training camp di settembre. 

In piĂą, per avere un quadro completo della fluiditĂ  della situazione, aggiungiamo le voci che parlano di un possibile ritorno di Jackson nel front-office, e di Brian Shaw come assistente allenatore.

Certo, è incoraggiante pensare che quest’estate Magic Johnson e D’Angelo Russell lavoreranno assieme, e lo stesso Walton è una ventata d’aria fresca rispetto a Mike Brown, D’Antoni e Byron Scott. 

Non sappiamo ancora se questa sarà ricordata come la off-season della ricostruzione, ma se non altro, è quella che presenta (per la prima volta da tanto tempo) i presupposti giusti per edificare qualcosa di duraturo e, soprattutto, vincente.

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