Piccole lacrime inumidiscono i miei occhi.

Seduto sul divano, rigorosamente da solo, mi ritrovo – a dire il vero senza troppa sorpresa – a commuovermi mentre sullo schermo le immagini scorrono veloci eppure lente.

La TV trasmette luoghi geograficamente molto lontani ma che sento ormai familiari. Lo Staples Center, l’antistante Microsoft Theater, le statue dei grandi del passato.

Qualche mese fa ero lì, sotto un caldo cocente, a tributare il mio silenzioso ossequio ai gialloviola che furono, più che a quelli che sono.

Ero lì anche e soprattutto per un altro omaggio, a qualcuno che, temevo, di lì a poco avrebbe appeso le fatidiche scarpe al chiodo.

mjkb63A condurre l’ultimo capitolo di un immenso show iniziato, guarda caso, il giorno del mio compleanno è Magic Johnson: “Sei il più grande Laker di sempre” arriva a dire. Forse no, Magic, per me nonostante tutto il più grande resti tu, ma questo è un discorso sul sesso degli angeli, che poco importa.

Si parte con la prima di una lunga serie di carrellate video: ci sono un po’ tutti, attenti a tributargli la giusta dose di rispetto. Giocatori degli anni ’90, le grandi star del decennio successivo, allenatori, tutti. L’onore delle armi.

Ho iniziato con lui. A seguire il basket NBA, intendo.

Non avevo ancora 13 anni e negli occhi brillavano già le immagini della prima finale vista a spizzichi e bocconi, registrando su vecchie cassette usate mille e mille volte oppure in lunghe maratone notturne, con le voci dei telecronisti che davano per la prima volta forma a un mondo, allora sì, lontanissimo.

Agli inizi dell’estate 1996 lessi sull’American Superbasket i risultati del draft di quell’anno. Grande attenzione al già immenso Iverson, qualche scelta discutibile subito sotto, ma qualcuno già mostrava interesse per la tredicesima scelta.

Primo tiro, errore. Secondo tiro, pure. Terzo tiro, vedi sopra. Cinque tentativi, altrettanti errori. Non è più quello di una volta, il tempo – quanto tempo – è passato.

“O i Lakers o me ne torno in Italia”. Beh, chi è questo ragazzino che si permette minacce simili? Ma ringrazia già solo di essere stato scelto, no? Ricordo di aver pensato così allora, invidioso di quel nero longilineo dal fisico pazzesco che sì, c’era arrivato in NBA.

Allora la Lega non era un posto per liceali. Sì, prima di lui “il salto” l’aveva fatto Garnett, ma lui era un’altra cosa, era andato alla quinta scelta e aveva fatto discretamente bene tra i pro da rookie.

Quello smilzo con la faccia furba era un buon prospetto e un figlio d’arte ma da qui a permettersi di pretendere i gialloviola era troppo, per me.

Un lampo, nella metà campo difensiva. Stoppata su Booker, l’ha sempre avuto quel gesto. Torna in attacco, un tiro che dieci anni fa neanche sapeva pensare ed eccolo, il primo sigillo della serata.

Cosa ne poteva capire un ragazzino come me del mondo dei grandi? Esatto, niente. Fu così che il fresco diplomato venne spedito da Charlotte a Los Angeles in cambio dell’allora grande Vlade Divac. Una mossa astuta, disse qualcuno, una scommessa azzardata, proferirono altri. Sappiamo come è andata a finire.

Quell’estate però si parlò di altro o meglio, di “un” altro. Grosso, con strane scarpe ai piedi, sorriso istrionico e contagioso, il #32 sulla schiena, un nome già leggenda. Shaquille Rashaun O’Neal.

Le basi vennero gettate.

Un canestro, un 2+1, altro canestro, un altro ancora: inizio a dubitare che davanti ai miei occhi stiano passando le immagini di un quasi 38enne. Non ha più l’agilità dei bei tempi, né l’atletismo tout court, ma è ancora uno spettacolo vederlo giocare. Oddio, anche l’atteggiamento è lo stesso, sta tirando tutto il tirabile, tra un po’ inizia a tirare a canestro anche le sedie della prima fila con Jack Nicholson annesso.

Prime due stagioni non particolarmente memorabili ma devo essere sincero, nel 1997 e nel 1998 avevo altro a cui pensare, cestisticamente parlando.

Un lampo nel buio l’All Star Game del 1998, la prima grande investitura, con incazzatura del Postino trattato come pezza ai piedi. Alla fine, Karl, vedila così: rimani il secondo di ogni epoca per punti segnati, almeno in questo non ti ha superato.

Quindici punti nel primo quarto, non male. Dai che forse forse il trentello d’addio riesce a farlo, sarebbe bello. Ogni time out è una carrellata di ricordi, di interviste, di gente che ci tiene a dire la sua. Compreso il grande Jack, che mi sconvolge quando ammette che il 22.01.2006 non era a bordo campo per gli ottantuno-punti-ottantuno che rifilò ai Raptors. Jack, Jack! Paghi qualcosa come 200.000 dollari l’anno di abbonamento e salti “quella” partita? C’è però qualcosa di consolante nel pensare che se l’è goduta come tutti noi, divano e dvd.

MJ si è ritirato per la seconda volta. Sento un vuoto, grande, tanto. Michael non è solo un grande giocatore, almeno per me è l’assoluto quando si parla di questo sport. Naturale che viva male il suo abbandono, specie dopo Gara 6 e quel canestro a 6,6 secondi contro (scherzi del destino) i Jazz.

Arriva il 1999, la stagione tarda, colpa del maledetto lockout. Si parte soltanto a gennaio, una cinquantina di partite, sufficienti agli Spurs per affermarsi e dire la loro. Già, i texani: David Robinson, Mario Elie, Sean Elliott, Antonio Daniels, Jaren Jackson, Avery Johnson, il grande Steve Kerr e… l’altro, Timothy Duncan, insieme a lui il nuovo zenit del mio personalissimo olimpo NBA.

Tra le tante interviste sento stridere due mancanze: la prima, i genitori. So che i rapporti tra lui e i suoi si sono interrotti tempo fa, ma trovo sempre triste che i genitori non assistano alla partita dei figli, siano essi fenomeni globali o semplici giocatori da CSI. La seconda è l’altro, sì, Duncan. Probabilmente non è una notizia, anzi sicuramente non lo è, ma per me, per come negli anni li ho accomunati e per come mi hanno accompagnato, per me dicevo era importante la sua presenza. Mi piace pensare che un sms, in privato, Tim gliel’abbia scritto.

La stagione che si apre al nuovo millennio finisce con il primo titolo del caraibico. Che gioia quegli Spurs, che bel gioco, che fascino le Twin Towers!

L’anno dopo è già un’altra storia. A Los Angeles non si scherza più, Phil Jackson e Tex Winter hanno scelto bene i successori dei fasti dei Bulls. Shaq viene convinto – il giusto – a fare il proprio lavoro sotto le plance difensive e a non limitarsi a sfracellare avversari, ferri e tabelloni in attacco e viene ritagliato un ruolo, non più marginale ma da vera seconda stella anche a lui, che imperterrito continua nella sua crescita. Non è tutto chiacchiere e distintivo, no. Se la gioca oltre l’atletismo. Qualcosa di MJ ce l’ha, devo ammetterlo ed è estremamente affascinante, la cosa.

Il secondo quarto scorre, continua a tirare tutto il tirabile, con lampi della classe che fu e che mostra ancora parzialmente intatta. Ne scrive altri sette prima dell’intervallo lungo, ma non c’è gara. Questi Lakers sono forse ancora più brutti di quelli di 10 anni fa.

Pausa lunga. Mi alzo, sgranchisco le gambe. Penso a come la mia vita sia cambiata. Ho 33 anni, non più 13. Lui è ancora al di là del video, io ancora al di qua. Lui ed io. Io e lui. Meraviglia.

Un canestro, un altro, un altro ancora. Non c’è soluzione di continuità, non c’è storia. I posteri ricorderanno un 4-2 ma diciamocelo, non c’è per niente storia. Troppo forte Shaq, esagerato per una Lega come questa. Sembra un gigante in mezzo ai bambini. La serie va, arriva il primo titolo gialloviola della mia personale esperienza cestistica. Mancava da un po’ mi dicono. Evviva.

Passa un anno, cambia l’avversario ma la sostanza no: O’Neal sposta ancora troppo, neanche il buon Mutombo può qualcosa. Sfiammata a sorpresa di Phila in gara1, quell’Iverson è poesia in movimento, ma da Gara2 inizia una musica diversa, quella “giusta”. Lui è sugli scudi: dopo i 15 del primo appuntamento, ne ha messi 31 e 32. No, decisamente non è più un comprimario.

Iverson predica da solo, non demorde. Va bene il solo Shaq ma così no, è troppo. La serie va, arriva il secondo titolo. Repeat, due volte Lakers. Stupore.

Un canestro, un errore, un errore, un canestro, un altro canestro, un errore. Il numero di maglia è diverso, il giocatore pure. Più tiratore, più attendista, meglio strutturato in campo, meno atletico e impaziente. Stessa cattiveria negli occhi, quest’ultima notte forse un po’ sottotraccia. E’ comprensibile, sta arrivando la 66° sconfitta stagionale, il peggior record di sempre, unica macchia in una carriera stellare. Il tassametro corre e quei 30 sono arrivati e spariti all’orizzonte.. 32, 35, 37…

Cresce lui e cresce la squadra. Il cuore gialloviola è sempre Shaq, troppo tutto per non essere il centro del mondo angeleno. Ma il ragazzo – non ancora 25 anni – sa il fatto suo. Il suo status ormai è chiaro. Non si vince con il solo O’Neal, servo anch’io. E lo ribadisce nel giugno 2003 contro i Nets, impotenti di fronte al duo. Qualcosa scricchiola, ma non ce ne badiamo. Arriva il threepeat, come i migliori Bulls, ca va sans dire.

Ma quanto tira? Inizio a pensare che stiano costruendo ad arte lo show. No, dai, non può essere. Ma, in fondo, se anche fosse? Come giustamente ricorda The Voice, devi pur sempre metterli, quei canestri. Non mi pare che il buon Bagatta, durante il McDonald’s Open del 1999, ne abbia fatti 50, segno che forse non è da tutti.

I ricordi affollano la mia mente, gli sketch durante le pause sono davvero piccole chicche confezionate ad arte da quei geniacci del marketing NBA. Maledetti loro, dovrò comprare la quarta canotta. Intanto il contachilometri corre e il nostro sfonda i 40 ma i Lakers, ahimé, sono sempre più brutti da guardare.

tkobeshootLo sfracello era alle porte, in tanti l’avevano preannunciato, ma a me pareva sinceramente troppo assurdo per crederci. Erano gli anni dell’università, degli studi, del lavoro part time, degli ideali ancora sufficientemente intatti e della logica sopra tutto. Quindi no, non si può mancare il quarto anello quando in squadra hai Payton e Karl Malone. Non Kwame Brown e Michael Olowakandi. The Glove e The Mailman.

Eppure fu una strage. “Rasheeeeeeeeed Wallace”, “Big Beeeeeen Wallace”, l’incredibile Chauncey Billups, Rip Hamilton. Era tutto così sbagliato, ma stava succedendo. In fondo era giusto così. Il Gioco chiede il suo tributo di sconfitta e umiliazione per chi non lo rispetta. E quei Lakers erano semplicemente irrispettosi perché in altre faccende affaccendati.

Meno cinque, meno quattordici, la partita è una fisarmonica. I gialloviola ricuciono e strappano, non hanno continuità. Il ragazzo segna, tira tanto ma chissene. E’ l’ultima notte, gli ultimi minuti, e godiamocelo. Fanno 43 con 40 tiri, bene così, dai che forse forse avremo un bel finale di gara e, sì, di carriera.

Il buio. Come un anno prima quando ci fu la brutta storia del Colorado. L’immagine macchiata, l’accusa infamante coperta con una “transazione economica”. Dodici mesi dopo e il baratro sportivo era lì ad attenderlo. Era diventato troppo ingombrante per coesistere con Shaq, figurarsi con Payton e Malone. Salta in aria tutto, O’Neal cambia sponda, i Lakers iniziano la ricostruzione. Inizia una nuova Era, la sua, ma prima, il Purgatorio.

“MVP-MVP-MVP”, il pubblico lo osanna. Da casa, lo faccio anche io, sentendomi vagamente idiota. E’ il suo momento, come tanti in questi anni e forse ancora di più. E’ “in the zone”, segna e sbaglia, sbaglia e segna, i punti diventano 43, 47, arriva a 51 e la partita pian piano prende quota. Sta scrivendo la Storia, ancora una volta.

Tre stagioni di transizione, il Purgatorio appunto. Playoffs saltati nel 2005, fuori al primo turno nel biennio successivo. Sono gli anni del lui-contro-tutti, delle caterve di punti segnati, quello storico 62-61 contro Dallas con lui avanti di uno sui texani prima di accomodarsi in panchina, superato poco più di un mese dopo dagli storici 81. Record statistici, fini a se stessi. Non serve provare che sai segnarne così tanti, conta vincere. Ma lui lo sa, la dirigenza deve solo metterlo in condizione di farlo.

Speravo ne facesse 20, sognavo il trentello ma questo è troppo. Ha scollinato i 50, non si ferma più. Era dal 2009 che non segnava così, altri tempi, bei ricordi.

Uno spagnolo e un newyorkese rendono di nuovo tutto possibile. La sua Era entra finalmente nel prime time. Arrivano altri due titoli, stavolta da assoluto protagonista. Arriva il primo, meritatissimo e forse tardivo, premio di MVP stagionale. I fasti, le gioie, il quarto e il quinto titolo, la conferma di poter vincere anche senza l’amato e odiato Shaq.

L’arena è una bolgia, anche da casa si sente l’elettricità che gira lì dentro: si è messo in testa di vincerla e i Jazz ad onor del vero non stanno proprio lottando come leoni. Alcune chicche sono d’antan, che meraviglia, l’emozione sale sempre più, fino agli ultimi liberi, fino al sessantesimo punto e alla sirena finale, che regala la vittoria ai gialloviola.

Ci sono tutti, allo Staples Center, il post partita è un palcoscenico di vecchie glorie: Shaq, Fisher, Fox, George, i tanti compagni di mille battaglie di metà anni 2000. Manca Gasol, occupato a Chicago.

E’ bello, vederli tutti lì, i tanti volti che si accalcano attorno a lui, sono di coloro che tanto mi hanno fatto esultare negli ultimi vent’anni. Le facce di chi, nonostante tutto, forse per politically correct o forse soltanto per vero e profondo rispetto, c’è voluto essere. E poi la famiglia, la moglie, le due figlie.

Tutto ha un inizio e una fine. I tanti ricordi si fondono in questa lunga interminabile notte, che a sua volta è già ricordo.

La vita va avanti, la mia al di qua dello schermo, la tua sempre al di là, anche se non più su un parquet. Ne abbiamo passate di belle insieme, te e io, ognuno dal proprio lato della TV.

Grazie Kobe, grazie di tutto.

One thought on “Vent’anni di Kobe

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